Teologia spirituale di San Paolo della Croce

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San Paolo della Croce non ha scritto opere sistematiche di teologia spirituale. Il suo pensiero e insegnamento è ritrovabile nelle numerose lettere di direzione spirituale e nei suoi due scritti il Diario di Castellazzo (di sua mano) e la Morte mistica (attribuito).

Tra Giansenismo e Quietismo

Nel tempo in cui visse san Paolo della Croce[1] trionfavano il razionalismo, lo scientismo e cominciava a svilupparsi il materialismo. Si espanse dappertutto uno scetticismo sarcastico e dissacratore, che ebbe il suo più noto rappresentante in Voltaire, nato nello stesso anno di Paolo.

Quella stessa epoca, tuttavia, fu anche un'epoca di grande passione per la mistica. Basta ricordare la passione e le sofferenze di Blaise Pascal e Fénelon o anche il fatto che delle diatribe suscitate dal giansenismo e dal quietismo se ne dovettero interessare re e papi, governi e università. Giansenismo e quietismo esprimono la passione di molti per il rigorismo morale e per le vie mistiche del cammino verso Dio. Sant'Alfonso Maria de' Liguori e San Paolo della Croce rispondono, in Italia, a queste esigenze nel modo più pacifico e ortodosso e in armonia con il Magistero della Chiesa.

Francesco di Sales, Teresa d'Avila, Giovanni della Croce

Suppongo note l'infanzia e l'adolescenza di Paolo e il fervore che lo pervase dopo la "conversione" del 1713; possiamo perciò immaginare con quanto interesse egli divorasse i primi libri spirituali che poté avere fra mano. Le opere di san Francesco di Sales furono probabilmente le prime che conobbe. Da lui Paolo apprese la dottrina del "sacro silenzio d'amore che è un parlare tanto grande alle orecchie dello sposo divino" (L I, 462), come pure la dottrina dell'amore "compassivo" che va a Dio attraverso la via unica del Cristo crocifisso.

"Chi guarda solo la consolazione perde di vista il gran Dio delle consolazioni" (L I, 535), ripete Paolo col Sales. Lo spirito mite del vescovo savoiardo si riprodusse nella mitezza e misericordia che sempre temperarono l'austerità di Paolo. Lo stesso Francesco di Sales fu probabilmente il veicolo attraverso cui Paolo conobbe gli scritti di Teresa d'Avila. Il nome della santa è l'unico che s’incontra nel Diario di Castellazzo. Fin dall'infanzia fu colpito dalla frase della santa: "0 patire o morire". Apprese da lei, particolarmente, i criteri di discernimento dell'orazione e soprattutto la grande stima per la vita di orazione. Capì che s’incontrano pericoli anche nelle vie di Dio, ma quando si vede che i frutti sono buoni, bisogna accogliere i doni di orazione, che non sono un bene privato ma fanno crescere tutta la Chiesa.

Altro autore spirituale che per tutta la vita leggerà volentieri è san Giovanni della Croce, che egli chiama "il principe dei mistici". In Giovanni scoprì la spiritualità della Passione applicata alle vie della contemplazione di Dio. S’incontra veramente Dio quando si rinuncia a tutte le soddisfazioni, anche alle più spirituali. Gesù crocifisso è il testimone perfetto dell'adorazione pura e della contemplazione di Dio solo. Con Giovanni, Paolo approfondisce il discernimento dei cammini spirituali e la diffidenza verso la ricerca di doni straordinari, come visioni, miracoli, locuzioni. Scopre sempre meglio le caratteristiche degli alti gradi di orazione. "Il segno che l'anima deve cessare dai discorsi interiori si ha quando essa gusta di starsene a solo a solo nel seno amoroso del Signore, con una dolce vista di fede, con un silenzio sacro di amore" (L II, 818). "Per mezzo del vostro patire si purifica l'imperfetto e l'anima diviene come un cristallo in cui si riverbera la luce del Sole Divino e resterete tutta in Dio trasformata per amore" (LII,719).

Da Giovanni, Paolo mutua un'espressione e una dottrina che gli saranno tanto care e che esprimono la sua totale apertura a Dio Padre: "stare nel seno del Padre". Il seno del Padre è l'essenza divina dove Gesù sempre abita e anche noi siamo chiamati ad abitare. A quell'altezza cessa il chiasso delle parole umane e si riposa sempre in un silenzio d'amore. Scriveva nel 1733 ad Agnese Grazi: "Se ne stia alla presenza di Dio, con una pura e semplice attenzione amorosa a quell'immenso Bene, in un sacro silenzio d'amore, riposando con questo santo silenzio tutto il suo spirito nel seno amoroso dell'Eterno Dio" (L I,103).

Il carisma della Passione

La coscienza di dover incentrare l'attenzione del suo spirito nella Passione di Gesù crebbe progressivamente nel giovane Paolo Danei. All'inizio sentì di chiamare i compagni che avrebbe radunato "i poveri di Gesù". Povertà, distacco dal mondo, solitudine erano gli ideali che più lo attraevano. Erano, per così dire, negazioni di ciò che vedeva come tanto negativo nella vita cristiana, negazioni delle idolatrie del cuore e del peccato. La prima idea positiva che compare al centro della spiritualità di Paolo è il nome di Gesù al centro del "segno" di cui si vede fregiato, sotto la croce bianca. Segue la veste nera di cui si doveva vestire, con la precisazione del suo significato di "perpetuo lutto" per la Passione e morte di Gesù. Questa spiegazione potrebbe far pensare che Paolo concepisse la Passione unicamente nel suo aspetto negativo di conseguenza e riparazione del peccato. Ma innumerevoli testi dimostrano, al contrario, che Paolo fu uno dei mistici che ebbe più chiaro il valore positivo della Passione, come massima espressione dell’amore di Dio.

Il voto della Passione, che Paolo emise già nel 1721, costituirà la sua personale consacrazione alla Passione, che diventerà ben presto l'elemento distintivo della nuova congregazione, in sostituzione dell'ideale negativo della povertà. Alla scoperta di questa vocazione Paolo arrivò attraverso la personale esperienza del fallimento di progetti maturati sotto l'impulso delle ispirazioni di Dio. In quell'occasione Paolo ebbe anche la chiara intuizione che il "radunare compagni" avrebbe avuto come scopo l'interiorizzazione della Passione. Il "segno" si arricchì poi del ricordo della Passione e del simbolo dei chiodi. Il voto della Passione entrò nelle Regole verso il 1730, nel testo che Paolo preparò per l'esame del suo vescovo, il cardinale Altieri. Da allora in poi tutta la spiritualità del santo gravita intorno al tema della Passione.

La volontà di Dio

Come rileva il teologo tedesco Martin Bialas, sulla base di un accurato studio del gesuita francese M. Viller, la prima espressione della spiritualità della Passione in Paolo è data dalla conformità alla volontà di Dio, che comporta un'irremovibile fiducia nel Padre sull'esempio di Gesù. "La santità consiste nell'essere totalmente uniti alla volontà di Dio", scriveva ad Agnese Grazi (L I,286). E scrivendo a Tommaso Fossi nel 1772, così sintetizzava una dottrina vissuta e predicata per tutta una vita: "L'orazione non consiste in aver consolazioni, lacrime, ecc., né si dà agli uomini forti cibo di fanciulli. È ben vero che il prendere quello che Dio manda e lasciarsi totalmente governare dalla sua infinita Bontà (facendo però noi le nostre parti ed eseguendo in tutto la sua divina volontà) è il meglio" (L I,805).

Che questa conformità non sia passiva rassegnazione, magari razionalizzata alla maniera degli stoici, lo si deduce dal fatto che Paolo distingue tre gradi di adesione alla volontà di Dio: "Gran punto è questo: è gran perfezione il rassegnarsi in tutto al divino volere; maggior perfezione è il vivere abbandonata, con grande indifferenza, nel divino Beneplacito; massima, altissima perfezione è il cibarsi in puro spirito di fede e di amore della divina volontà. Oh dolce Gesù, che gran cosa ci avete insegnato con parole ed opere di eterna vita! Si ricordi che quest'amabile Salvatore disse ai suoi diletti discepoli che il suo cibo era di fare la volontà dell'eterno suo Padre" (L I,491).

È importante vedere come per Paolo la Passione non è soltanto né principalmente una riparazione che Gesù offre alla giustizia offesa del Padre. La Passione parte dal Padre come amore. In questa volontà di beneplacito, Paolo assorbe anche il peccato suo o di altri, che tanto affligge il sofferente, portandolo a pensare che la sofferenza sia soltanto castigo delle colpe.

Scriveva a Marianna Girelli: "Conviene prendere le percosse che vengono dall'alto e soffrirle pacificamente, con amorosa mansuetudine, dalla mano dolcissima del gran Padre celeste. Così passa il temporale che minaccia tempesta e si fa come il vignaiolo o ortolano che quando viene la tempesta si ritira nella capanna fino a quando sia passata e sta in pace. Così noi, in mezzo a tante tempeste che ci minacciano i nostri ed i peccati del mondo, stiamocene ritirati nell'aurea capanna della divina volontà, compiacendoci e facendo festa che si adempia in tutto il sovrano divino Beneplacito. Perda di vista, signora Marianna, ogni cosa creata; tenga l'intelletto ben purgato e netto da ogni immagine e se ne fugga, in mezzo a tanti guai che sono nel mondo, nel seno del celeste Padre per Gesù Cristo Signore nostro, ed ivi si perda tutta nell'immensa Divinità come si perde una goccia d'acqua nel grande oceano: così non vivrà più una vita sua, ma vita deifica e santa" (L III,753). In questo senso egli perfeziona due meravigliose espressioni che aveva avuto care fin da giovane: "Credo che la croce del nostro dolce Gesù avrà poste più profonde radici nel vostro cuore e che canterete: "patire e non morire"; oppure: "o patire o morire"; oppure ancora meglio: "né patire né morire", ma solamente la totale trasformazione nel divino Beneplacito" (L II,440).

L'incontro col Taulero: il fondo dell’anima

Non sappiamo come Paolo abbia avuto tra le mani il grosso volume delle opere del Taulero, che ancora si conserva. Esso era stato pubblicato a Macerata, in latino, nel secolo precedente. Paolo lo lesse per la prima volta, probabilmente nel 1748, all'età di cinquantasei anni.

Giovanni Taulero, domenicano tedesco vissuto nel secolo XIV, appartenente al gruppo di teologi mistici della scuola Renana, era un autore discusso. Tuttavia insigni teologi e santi lo avevano validamente difeso. Taulero non è principalmente uno speculativo, ma un santo. La sua ambizione non è quella di insegnare dottrine meravigliose, ma di santificarsi e santificare. La pratica non è mai separata dalla teoria. E non si tratta di una pratica tendente a fare opere apprezzabili dagli uomini, ma tendente a fare spazio all'azione dello Spirito di Dio.

Dal Taulero Paolo ricava soprattutto la dottrina riguardante "il fondo dell'anima". Entrando nel proprio fondo, l'anima ha la percezione di Dio nella forma più pura che si possa avere. Ivi risuona la sua testimonianza quando ogni altra voce tace. È necessario che tutte le facoltà cessino di operare perché si possa ascoltare Dio in questo fondo, anche se è vero che le azioni delle facoltà ricevono forza da esso. Questa percezione la si può avere, forse, solo per qualche istante, ma quando la si ha, è come se si vivesse già nell'eternità. Nel fondo dell'anima abita Dio con la sua luce increata.

Paolo chiama il fondo assai liberamente "suprema parte dello spirito" (L I,118), "santuario dell'anima" (L I,538), "apice della mente" (L II,731), "fondo o centro dell'anima" (L II,471). Ad esso non possono accostarsi né gli angeli cattivi né quelli buoni, ma l'anima è sola col suo Dio. Così ne scriveva ai suoi religiosi in una circolare del 1750: "Gesù, che è il divino Pastore, vi condurrà come sue care pecorelle al suo ovile. E qual è l'ovile di questo dolce, sovrano Pastore? Sapete qual è? È il seno del divin Padre; e perché Gesù sta nel seno del Padre, così in questo seno sacrosanto, divino, Egli conduce e fa riposar le sue care pecorelle; e tutto questo sopraceleste, divino lavoro si fa nella casa interiore dell'anima vostra, in pura e nuda fede e santo amore, in vera astrazione da tutto il creato, povertà di spirito e perfetta solitudine interiore; ma questa grazia sì eccelsa si concede solamente a quelli che studiano di essere ogni giorno più umili, semplici e caritativi" (L IV,226).

La lettura del Taulero produceva in Paolo straordinarie risonanze. Sentiva una profonda sintonia con lui, si commoveva anche soltanto al nominarlo, pensando ai suoi insegnamenti.

Il tutto e il niente

Assai prima di conoscere il Taulero, Paolo insiste sulla presentazione della creatura come un niente o "un orribile nulla" e di Dio come "il Tutto". "Ritorni a buttarsi nel suo niente, -scrive alla Grazi nel 1741 - a conoscere la sua indegnità e da questa cognizione ne ha da nascere una maggior fiducia in Dio" (L I,267). E nel 1740 aveva già scritto alla Bresciani: "Chi vuol trovare il vero tutto che è Dio, bisogna che si butti nel niente. Dio è quello che per essenza è quello che è: "Io sono colui che sono". Noi siamo quelli che non siamo, perché per quanto scaviamo a fondo non troveremo altro che niente, niente; e chi ha peccato è peggio dello stesso niente, perché il peccato è un orribile nulla, peggio del nulla" (L I,471).

Motivazione dell'invito ad annichilarsi è, per Paolo, sia la condizione di creatura, sia l'esempio della kenosi del Figlio di Dio. Nell'accentuazione confusionaria e permissiva della benevolenza di Dio che caratterizza la nostra epoca non è facile percepire l'elemento dell'infinita distanza fra il Creatore e la creatura che Paolo manifestava anche con la semplice espressione con cui si riferiva a Dio: "Sua Divina Maestà". Si tratta di una distanza morale che affonda le sue radici nella distanza metafisica. Paolo sintetizza il suo pensiero a proposito di tale distanza con le seguenti espressioni: "Per essere santo ci vuole una "N" e una "T". Chi cammina più di dentro indovina il significato, ma chi non è ancora entrato in vera profonda solitudine, non sa indovinarne il significato. Ed io soggiungo: la "N" sei tu che sei un orribile "nulla"; la "T" è Dio che è l'infinito "Tutto" per essenza. Lascia dunque sparire la "N" del tuo niente nell'infinito "Tutto" che è Dio ottimo massimo ed ivi perditi tutto nell'abisso dell'immensa Divinità. Oh che nobile lavoro è questo" (L III,447).

A padre Pietro Vico, maestro dei novizi al monte Argentario, scriveva: "Non v'è da temere nessun inganno purché vi sia e si accresca la cognizione del proprio nulla avere, nulla sapere, nulla potere e che, quanto più si scava, si trova anche più l'orribile nulla, per quindi lasciarlo sparire nell'infinito Tutto" (L III,450). E ad Agnese Grazi: "Non v'è cosa che piaccia più a Dio quanto l'annichilirsi e abissarsi nel nulla e questo spaventa il diavolo e lo fa fuggire... Per prepararsi alla battaglia ed essere armata dell'armatura di Dio non v'è mezzo più efficace che l'annichilirsi e annientarsi davanti a Dio, credendo fermamente di non essere atta ad uscirne vittoriosa se Dio non è con lei a combattere, onde deve gettare questo suo nulla in quel vero tutto che è Dio e con alta fiducia combattere da valorosa guerriera, stando certissima d'uscirne vittoriosa" (L I,150).

Nel 1768 scrive alla Calcagnini, con grande tenerezza di espressioni: "Standosene in quel sacro deserto interiore, ivi lasci sparire il suo vero nulla nell'infinito Tutto e riposi in Gesù Cristo nel seno del dolcissimo Padre come bambina, succhiando il latte divino alle mammelle sacratissime dell'infinita sua carità. E se l'amore la fa dormire di quel mistico sonno che è l'eredità che il Sommo Bene dà in questa vita ai suoi diletti, lei dorma pure, che in tal sacro sonno diverrà sapiente della sapienza dei santi" (L III,815).

Morte mistica e divina natività

Paolo della Croce deve al Taulero la nozione di "divina natività". La nozione di "morte mistica" l'aveva maturata per conto suo fin dal tempo del Diario, anche se in esso non si trova esplicitamente questa espressione. Lui preferiva allora "il totale staccamento da tutto il creato", comprese le consolazioni spirituali. Scrivendo, nel 1734, alla Grazi, le dice: "Oh mia figlia! Fortunata quell'anima che si stacca dal suo proprio godere, dal proprio sentire, dal proprio intendere! Altissima lezione è questa; Dio gliela farà imparare se lei metterà il suo contento nella croce di Gesù Cristo, nel morire a tutto ciò che non è Dio nella croce del salvatore!" (L I,107).

L'espressione "morte mistica" era assai in uso presso i quietisti. Paolo, però, la usa interpretandola vitalmente all'interno della propria dinamica interiore, rigorosamente ortodossa e responsabilizzante. Dopo il 1748, la dottrina della morte mistica, collegata con quella della divina natività, ritorna continuamente nei suoi scritti. Scrive, ad esempio, a Lucia Burlini nel 1751: "Tutta umiliata e riconcentrata nel vostro niente, nel vostro niente potere, niente avere, niente sapere, ma con alta e filiale confidenza nel Signore, vi avete da perdere tutta nell'abisso dell'infinita carità di Dio che è tutto fuoco d'amore... Ed ivi in quell'immenso fuoco lasciar consumare tutto il vostro imperfetto e rinascere a nuova vita deifica, vita tutta d'amore, vita tutta santa; e questa divina natività la farete nel divin Verbo Cristo Signor nostro (..) Sicché morta misticamente a tutto ciò che non è Dio, con altissima astrazione da ogni cosa creata, entrate sola sola nel più profondo della sacra solitudine interiore, nel sacro deserto" (L II,724-725).

Per due secoli si è cercato un piccolo trattato sulla morte mistica che Paolo diceva di aver inviato a diverse persone. Nel 1976 ne è stata scoperta una copia nel monastero delle monache passioniste di Bilbao in Spagna. Negli anni seguenti ne furono trovate altre due copie. Il trattatello è intitolato "Morte mistica ovvero olocausto del puro spirito di un'anima religiosa". Si può dividere in due parti. La prima contiene la dottrina generale sulla morte mistica. La seconda applica tale dottrina alla pratica dei singoli consigli evangelici nella vita religiosa. Gli studi che sono stati fatti rilevano che il testo, così com'è, non sembra stilato da san Paolo della Croce. La sua stesura sembra dovuta a un collaboratore redazionale, che fu probabilmente il padre Giammaria Cioni. La data di composizione più probabile si colloca negli anni 1760-1761, anni di grandi prove per Paolo, a causa del fallimento definitivo della richiesta dei voti solenni e a causa delle malattie di cui soffriva.

La morte mistica è una vera immersione battesimale. Le corrisponde molto bene l'attuale spiritualità del battesimo e quella liturgica del mistero pasquale. Anche la spiritualità dell'immersione e della croce gloriosa, come viene oggi sviluppata dal movimentò neocatecumenale, è fondamentalmente la stessa cosa. Paolo della Croce intuiva queste realtà sulla base dei testi scritturali e delle esperienze dei mistici cristiani che lo avevano preceduto.

Amore doloroso, dolore amoroso e gioia

La Passione di Gesù è per san Paolo della Croce "il miracolo dei miracoli del Divino Amore". "Al santo premeva molto - osserva Martin Bialas - spiegare che nella contemplazione di Cristo crocifisso, l’anima non recepisce l’amore e il dolore come due effetti indipendenti fra loro, ma l’amore è impregnato di dolore e il dolore di amore". Ecco come compendia questa dottrina in una lettera alla Gandolfi nel 1743:

"L’amore è virtù unitiva e fa proprie le pene dell’Amato Bene. Se vi sentite tutta penetrata di dentro e di fuori dalle pene dello Sposo, fate festa; ma vi posso dire che questa festa si fa nella fornace del Divino Amore, perché il fuoco che penetra fin nelle midolla delle ossa trasforma l’amante nell’amato, e mischiandosi con alto modo l’amore col dolore, il dolore con l’amore, si fa un misto amoroso e doloroso, ma tanto unito che non si distingue né l’amore dal dolore né il dolore dall’amore, tanto che l’anima amante gioisce nel suo dolore e fa festa nel suo doloroso amore" (L II, 440).

In questo brano appare sia il richiamarsi dialettico dell’amore e del dolore, sia l’unità dell’amante con l’amato, sia ancora l’unione di tutto questo con la festa e la gioia. Esso ci introduce nel senso che ha per Paolo l’invito ad andare oltre le immagini nel far memoria della Passione.

Si tratta di penetrare nel mistero della croce che è al tempo stesso umiliazione e gloria, via e meta. A volte Dio, per suo dono, infonde nelle anime le pene della Passione di Gesù "in nuda fede". È allora che si entra ancor più profondamente in questo mistero di amore e di dolore. Chiudiamo con un luminoso brano che il Fondatore scrive al caro discepolo P. Giammaria Cioni nel 1756. In esso è evidente il legame fra la dottrina della Passione e la definizione che san Giovanni dà di Dio come carità:

"Il punto che lei non capisce, di farsi sue per opera di amore le pene santissime del dolce Gesù, glielo farà capire sua Divina Maestà quando le piacerà.

Questo è un lavoro tutto divino; l’anima tutta immersa nell’amore puro, senza immagini, in purissima e nuda fede, in un momento si trova pure immersa nel mare delle pene del Salvatore ed in un’occhiata di fede le intende tutte, senza intendere, poiché la Passione di Gesù è opera tutta di amore; e stando l’anima tutta perduta in Dio che è carità, che è tutt’amore, si fa un misto d’amore e di dolore, poiché lo spirito ne resta tutto penetrato e sta tutto immerso in un amore doloroso e in un dolore amoroso: È opera di Dio!" (L III, 149).

Il principe dei desolati

Così Paolo della Croce è stato definito dagli studiosi. Tanto Rosa Calabresi quanto P. Giammaria Cioni parlano di cinquant’anni di desolazione di Paolo. Lo stesso Paolo affermava qualcosa di simile quando diceva: "Per quanto mi ricordo da cinquant’anni non ho passato un solo giorno senza sofferenze. Si legge di certe anime che sono state nel crogiuolo cinque, dieci o quindici anni, quanto a me io non posso pensare a quanto ho sofferto; ne fremo". Al discepolo e confessore P. Giammaria Cioni scrive espressioni assai drammatiche intorno allo stato in cui lui si trova: "Le devo domandar perdono se qualche volta scrivo qualche parola secca, malsonante; poiché mi creda che sono in uno stato deplorabilissimo e Dio guardi tutto il mondo da tale stato; ma giustamente soffro queste cose. Vi sono giorni, e sono quasi tutti, che non so come fare a soffrire me stesso; eppure mi sforzo, e con gran fatica, a soffrire gli altri, ma sempre manco; onde perdoni questo povero uomo" (L III, 1812).

Padre Breton fa profonde considerazioni intorno al "nudo patire" di cui Paolo parla spesso, un patire privo di qualsiasi consolazione. Non si tratta di una sofferenza proveniente da calunnie o persecuzioni, ma dal rapporto con Dio che patisce violenza. Altre volte è sommerso dal peso delle colpe che vede in se stesso. A sentir lui, egli meriterebbe la morte per le sue gravi infedeltà. Vorrebbe essere sotto i piedi dei demoni come se li superasse in malizia. Al limite estremo, egli sperimenta un non senso generalizzato che spegne le ragioni per vivere e fiacca l’agire, un non senso che lo terrorizza per come gli appare in contrasto con Dio autore della vita. Da questo nudo patire sgorgano in lui gli insegnamenti che egli dà ad altre anime, dopo averne sperimentato in se stesso la validità:

"Non desideri alcun conforto, ma il puro beneplacito di Dio. Se ne stia in quel nudo patire in sacro silenzio di fede e non si lamenti né di dentro né di fuori. Al più faccia qualche gemito da bambina, ad esempio di Gesù Cristo nell’orto: "Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te" (Mt 11,26). Seguiti poi a stare in silenzio di fede e si lasci martirizzare dal santo amore, giacché il suo stato presente è un prezioso martirio d’amore, che si fa dal santo amore con povertà e nudità di spirito, sempre accompagnate dalle spade di angustie e di abbandonamenti" (L III, 806-807).

"Tale sacro martirio produce nell’anima due mirabili effetti: uno è di purificarla da ogni neo di imperfezione come fa il fuoco del purgatorio. Il secondo è di arricchire l’anima di virtù, massime di pazienza, di mansuetudine, di alta rassegnazione alla divina volontà, con profonda cognizione del proprio orribile nulla. In tal forma l’anima, tutta inabitata nel suo niente, patisce e tace e lascia sparire il suo niente in Dio e gode di patire e tacere" (L III,816).

Partecipe della Passione di Cristo

Il messaggio centrale della vita e della predicazione di Paolo è questo: si vive per partecipare alla Passione di Gesù e così entrare nella sua stessa gloria. Paolo della Croce, però, è ben cosciente della forza che hanno i meccanismi dell’io per accaparrare e strumentalizzare tutto, non esclusi gli stessi doni che Dio dà perché si faccia un cammino di fede. "La nostra guasta natura - scrive ai suoi religiosi - diviene ladra dei doni di Dio, cosa al sommo pericolosa e perniciosa" (L IV, 226).

Scrivendo alla signora Marianna Girelli, nel 1768, Paolo esprime meravigliosamente l’esperienza spirituale che lui stesso ha fatto:

"Bisogna morire misticamente a tutto; il non sentire le inclinazioni naturali e i moti delle passioni, che non muoiono mai sinché non moriamo noi, non è cosa di questo tempo, ma bisogna aspettare con pazienza la visita del Sovrano Padrone. E se le inclinazioni naturali e i moti delle passioni non muoiono del tutto, restano però talmente mortificati che non sono di impedimento alla quiete sopradolcissima della santa contemplazione e si cominciano a provare gli effetti di quella santa morte mistica che è più preziosa della vita, poiché l’anima vive in Dio una vita deifica" (L III, 756).

Alcuni si illudono di partecipare alla Passione di Gesù con una pietà sentimentale e con belle parole. Paolo sa che alla Passione di Gesù ci si unisce soltanto attraverso la nostra propria passione: umiliazioni, sofferenze, maldicenze e calunnie. La sofferenza ha essenzialmente questa funzione nell’economia della salvezza: permetterci di unire la nostra vita con la vita di Gesù.

Come la vita di Gesù è essenzialmente mistero, così lo è la vita di ogni cristiano. Questo viene espresso molto bene da una composizione poetica di Paolo diretta alla Grazi nell’anno 1743:

Nella croce il sant’Amore
Perfeziona l’alma amante,
Quando fervida e costante
Gli consacra tutto il cuore.
Oh se io sapessi dire
Quel tesoro alto e divino
Che il gran Dio Uno e Trino
Ha riposto nel patire!
Ma perché è un grand’arcano
All’amante sol scoperto
Io che non sono esperto
Sol l’ammiro da lontano.
Fortunato è quel cuore
Che sta in croce abbandonato.
Nelle braccia dell’Amato
Brucia sol di sant’Amore.
Ancor più è avventurato
Chi nel suo nudo patire
Senza ombra di gioire
Sta in Cristo trasformato.
Oh felice chi patisce
Senza attacco al suo patire,
Ma sol vuol a sé morire
Per più amar chi lo ferisce!
Io ti do questa lezione
Dalla croce di Gesù,
Ma l’imparerai tu più
Nella santa orazione. Amen

Sono versi semplici e popolari, ma pieni di sapienza mistica, nata dall’esperienza interiore. Stando sulla croce, Paolo insegna la via della croce. Gli studiosi moderni hanno messo in rilievo l’importanza della partecipazione alla Passione per Paolo, collegandola ai notevoli studi recenti fatti sulla filosofia e teologia della partecipazione.

Note
  1. Studio di A. Lippi,La spiritualità di san Paolo della Croce Roma, 1994
Voci correlate