Discussione:Francesco Borghero
Materiale di p. Renzo Mandirola SMA su p. Borghero, da integrare nella voce
L’EVANGELIZZAZIONE DEL BENIN 150° DELL’ARRIVO DI P. BORGHERO Alcuni elementi di storia e qualche stimolo per l’oggi
1. L’INIZIO DI UNA STORIA: IL BENIN E LA SMA 1.1. Mons de Marion Brésillac (1813-1859) 1.1.1. Parte pour l’India come MEP nel 1842. 1.1.2. Nel 1845 è nominato vescovo. 1.1.3. Nel 1854 lascia l’India alla volta di Roma per spiegarsi. 1.1.4. Nel marzo 1855 Pio IX accetta le sue dimissioni. 1.1.5. Nel convento dei Cappuccini di Versailles il guardiano, il P. Ambroise de Bergérac, lo mette in contatto con il signor Régis, che ha delle sedi commerciali sulla Costa dell’Africa occidentale e che sarebbe contento di vedervi giungere dei missionari cattolici1. 1.1.6. Alla fine dell’anno 1855 parte per Roma. 1.2. Mons de Marion Brésillac e il Dahomey. 1.2.1. Il 4 gennaio 1856, presenta a Propaganda Fide un Rapporto “a riguardo di una nuova missione da stabilire nel Regno del Dahomey”2. 1.2.2. La Propaganda, tramite il suo segretario, Mons Barnabò, gli chiede di fondare un Istituto che possa assicurare una continuità al suo lavoro in Africa. 1.2.3. L’8 dicembre 1856 fonda la SMA a Lione, in Francia. 1.2.4. Chiede insistentemente alla Propaganda il Dahomey: 4 gennaio 1856, 26 febbraio 1856, 23 giugno 1856, 20 luglio 1856, 6 agosto 1856, 12 novembre 1856, 13 dicembre 1856. 1.2.5. Il 3 marzo 1857 si dichiara pronto ad accettare un’altra missione “salvo poi a ricevere più tardi il Dahomey, se lei lo desidera” (Lettera al card. Barnabò; Lyon, 03/03/1857). 1.2.6. Il 27 aprile 1857 e il 12 settembre il card. Barnabò gli notifica che non sarà il Dahomey, ma la Sierra Leone il suo campo di apostolato. Non è quanto desiderava, ma accetta e scrive alla Propaganda in questi termini: “Immediatamente, Eminenza, ho fatto conoscere queste lettere ai miei associati, e ho il piacere di farle sapere che unanimemente sono entrati nello spirito che animerà, spero sempre, la nostra Società, accantonando subito il desiderio che avevamo di iniziare il nostro apostolato con il Dahomey, al fine di entrare completamente nelle viste della Sacra Congregazione di Propaganda. Accetteremo dunque con gioia la missione di Sierra Leone” (Lettera al card. Barnabò; Lyon, 25/09/1857). 1.2.7. Il primo gruppo SMA (Reymond, Bresson e il fratello Eugène) parte da Marsiglia il ¾ novembre 1858. Il secondo (Brésillac, Riocreux e il fratello Gratien) parte da Brest l’11 marzo 1859. 1.2.8. Il 18 giugno 1859, manca una settimana alla sua morte, Brésillac ha ancora il coraggio di scrivere a P. Planque: “Nonostante tutto questo3, andrò da solo, se possibile, il mese prossimo a fare un viaggio in Dahomey per vedere se non sarebbe meglio fondare colà un centro” (Lettera a P. Planque; Freetown, 18/06/1859). 1.3. Il P. Augustin Planque (1826-1907) Quando Mons de Brésillac muore a Freetown, non restano a Lione che due preti (Planque e Borghero) e alcuni seminaristi. Planque, dopo aver consultato gli altri membri della comunità, va a Roma per dire al Papa che, nonostante l’esiguo numero e i pareri contrari ricevuti, sono tutti disposti a continuare l’avventura del Fondatore. 1.3.1. Mentre si trova a Roma per incontrare il Papa Pio IX e il card. Barnabò, Planque scrive a quest’ultimo: “Vostra Eminenza sa anche che fino al 12 settembre I857, giorno in cui fu spedita a Mons. Brésillac il duplicato di una lettera andata persa del 27 aprile dello stesso anno, noi abbiamo sempre chiesto la Missione del Dahomey; e anche quando il Vicariato apostolico di Sierra Leone ci fu offerto e che Mons. de Brésillac l'accettò, non abbiamo mai perso di vista che è il Dahomey che ha fatto nascere la nostra Congregazione. […] Non sarà dunque sorpresa, Vostra Eminenza, che io persegua lo stesso scopo e che chieda il Dahomey. […] Mi sembra, Eminenza, che morire per morire, il martirio di sangue porta più vantaggi alla Religione e al missionario che quello delle febbri; almeno questo sangue versato ci consegnerebbe una palma e un’aureola in cielo, e potremmo veder realizzarsi questa parola che è sempre stata una verità nella Chiesa di Dio: Sanguis martyrum, semen christianorum” (Lettera di P. Planque al card. Barnabò; Roma, 27/09/1859). 1.3.2. Il 28 agosto 1860 la Santa Sede erige il Vicariato apostolico del Dahomey (tra i fiumi Volta e Niger) e lo affida al Seminario delle Missioni Africane. 1.3.3. Il 2 dicembre 1860, il P. Francesco Borghero è nominato Superiore ad interim del Vicariato apostolico del Dahomey. Nella sua veste di capo della Missione, il 5 gennaio 1861, Borghero parte da Marsiglia con i PP Fernandez Francisco (spagnolo) e Edde Louis (francese).
2. LA STORIA DI UN UOMO: P. Francesco Borghero fondatore della Missione del Dahomey 2.1. Breve biografia 2.1.1. Nasce a Ronco Scrivia (33 Km da Genova) il 19 luglio 1830, primogenito di 12 fratelli. 2.1.2. Famiglia povera; uno zio materno si prende cura di lui e dei suoi studi (presso i Gesuiti a Voghera e nel Seminario di Genova). 2.1.3. Il 10 settembre 1852 parte per Subiaco, vicino a Roma, con l’Abate benedettino Casaretto che negli anni 1850 fonderà la Congregazione Sublacense (fino al 1959: Congregazione Cassinese della Primitiva Osservanza) che si stacca dalla Congregazione cassinese. 2.1.4. Insegna durante 5 anni la Retorica (il cursus studiorum comprendeva in quel momento Grammatica, Umanità e Retorica). 2.1.5. È ordinato prete il 27 décembre 1854 “titulo missionis”. 2.1.6. Nel novembre 1857 lascia Subiaco, non vedendo la possibilità di realizzare il suo desiderio di partire per le missioni. 2.1.7. Nel giugno 1858 Borghero incontra, per caso, a Roma Mons de Brésillac e se ne va con lui a Lione. 2.1.8. Parte il 5 gennaio 1861 (Canarie, Dakar, Freetown dove muore il P. Edde) e arriva il 18 aprile a Ouidah 2.1.9. Quattro anni dopo, il 12 gennaio 1865, s’imbarca a Lagos per l’Europa. 2.1.10. All’inizio di gennaio del 1868, la Propaganda gli chiede di farsi da parte, per il bene della SMA. 2.1.11. Alcuni mesi dopo questo lo troviamo vicino a Pisa, a Migliarino Pisano, precettore in casa del duca Scipione Salviati che diventerà nel 1878 Presidente dell’Opera dei Congressi. Borghero vi resterà una quindicina d’anni. 2.1.12. A causa di problemi di salute, nel 1882 rifiuta un Vicariato in Africa Centrale, ma nel 1886 si dice disponibile per un vicariato in Egitto; cosa che non si concretizzerà. 2.1.13. Nel 1890 lo troviamo Direttore spirituale in uno dei due Seminari di Genova dell’epoca, quello dei Figli di Santa Maria Immacolata, fondata da don Giuseppe Frassinetti. 2.1.14. Muore nel suo paese il 16 ottobre 1892, di un tumore allo stomaco. 2.2. La sua formazione 2.2.1. La sua formazione è portata avanti in tre luoghi importanti: il collegio dei Gesuiti a Voghera, il Seminario di Genova e il monastero benedettino di Subiaco. 2.2.2. Possiede una solida cultura sia teologica che umanistica (le sue lettere sono piene di citazioni non solo di Bibbia o di teologia ma anche di autori classici); ciò spinge P. Planque a proporlo come Pro-Vicario del Dahomey: “Conosce le lingue europee più diffuse in quelle contrade: francese, inglese, italiano, spagnolo, un po’ di portoghese e di tedesco, e inoltre impara in fretta un nuovo idioma. Vostra eminenza conosce i suoi talenti e la sua pietà e sono certo che non dobbiamo temere nessuna incostanza da parte sua in Dahomey. Renderà, penso, molti servizi importanti all’inizio della missione sopratutto, grazie alle conoscenze che possiede” (Lettera di Planque al card. Barnabò; Lyon, 26/08/1860)4. 2.3. I suoi talenti Borghero è certamente una persona preparata, molto dotata e fisicamente instancabile. 2.3.1. È una persona colta che cura la sua formazione. Basterebbe vedere, scorrendo le sue lettre, quali e quanti sono i libri che richiede a Lione e i giornali che legge; fa parte per esempio degli abbonati della prima ora de La Civiltà cattolica (fondata a Napoli nel 1850) e che si fa spedire regolarmente in Africa. 2.3.2. Gli piace scrivere e non gli mancano certo le cose da descrivere o da raccontare5, pur essendo sempre a corto di tempo6. E scrive non per sfoggiare cultura o mettersi in mostra, ma soprattutto con l’intento di istruire i giovani membri del suo Istituto e far conoscere meglio quella parte del mondo poco e male conosciuta che è l’Africa di metà Ottocento. A tal punto che alla sua morte gli Annales de la Propagation de la Foi scriveranno: “P. Borghero ha raccontato negli Annales de la Propagation de la Foi, dal 1861 al 1867, con una semplicità commovente, il suo laborioso e pericoloso apostolato sulla Costa degli Schiavi e in Dahomey. Le sue lettere furono per molto tempo l’unica sorgente a cui attinsero tutti i pubblicisti che, sia in Francia che in Italia o in Inghilterra, si cimentarono a parlare di questa regione”7. 2.3.3. È un abile disegnatore. Nelle sue lettere inserisce diversi disegni o schizzi sia per spiegare quanto vede sia per fornire un modello di quanto vorrebbe ricevere dalla Francia sia per spiegare gli strumenti che inventa per affrontare le necessità e difficoltà che incontra. Nel 1865 disegna una cartina geografica della Costa degli Schiavi insieme all’esploratore Richard F. Burton. Lo stesso anno ne prepara un’altra che pubblicherà l’anno seguente nel Bulletin de la Société de géographie de Paris8. Già dal Seminario si esercitava in questo campo9. 2.3.4. A partire dal luogo in cui si trova mette in moto il suo spirito creativo. Un giorno appronta un cappello che ha il vantaggio di lasciar passare l’aria, il giorno dopo fabbrica candele a partire dall’olio di palma, un’altra volta si cimenta nel fabbricare medicine, etc. 2.3.5. È un uomo di relazioni: la gente semplice come quella che si accalca alla missione, gli schiavi, gli ammalati, i bambini, ma anche gente più importante: il capitano e esploratore Richard F. Burton a cui dobbiamo la scoperta del lago Tanganyika (1858), Jules Girard che ispirò Daudet per il suo Tartarino di Tarascona, l’ammiraglio Wilmot, comandante in capo della flotta britannica dell’Africa occidentale, il Presidente della Liberia che si dice favorevole all’apertura di una missione cattolica nel Paese, il Governatore inglese Glover di Lagos che, come il Re di Portonovo, gli dona un terreno per la missione, il console spagnolo a Freetown e quello italiano a Lagos, il Re Glélé con tutti i suoi dignitari, etc. 2.3.6. È un viaggiatore appassionato. Nei quattro anni che passa sulla Costa fa molti viaggi: in nave, in piroga, a piedi, a cavallo. Forte del suo spirito curioso ha la capacità di vedere e descrivere tutto ciò che vede e di farne delle descrizioni precise in termini appropriati. Ma non è solo a causa del suo spirito curioso che percorre in lungo e in largo la Costa da Freetown a Conakry, dall’isola Factory alle isole di Loss, da Lagos a Abeokuta, da Ouidah a Portonovo, da Badagry a Agoué, senza dimenticare Grand Popo, Petit Popo, Porto Seguro, da Epé a Palma, da Brass a Bonny, dall’isola Fernando Po al Monte Camerun. Era spinto dal desiderio di visitare i pochi cristiani sparsi lungo le coste, rispondere alle loro chiamate, scoprire i luoghi più propizi a diventare dei centri di propagazione della Buona Novella di Gesù Cristo. E per finire, davanti alla morte di diversi confratelli e le malattie che colpiscono gli altri, sente che è suo compito trovare dei luoghi più salubri in cui i suoi missionari potrebbero andare a riposarsi senza essere obbligati a rientrare sovente in Europa10. 2.3.7. È anche un uomo polivalente. Scrive infatti: «Mi capita sovente nella stessa giornata di dover fare alcune visite o uscire per altri bisogni, fare il muratore, il falegname (sfortunatamente anche il cuoco), il sarto, il medico (per me e per gli altri), il chirurgo, essere divorato da un ascesso febbrile, sgridare l’uno o l’altro e tutto questo non è che secondario perché grazie a Dio sono missionario e prete e questo è la cosa principale e finché mi sarà possibile farò ben attenzione a non sostituire il principale con il secondario. Ora come volete che un pover uomo come me possa scrivere tutto ciò che nell’insonnia di lunghe tenebre si è proposto di scrivervi?” (Lettera a P. Planque; Whydah, 19-30/08/1861). 3. STIMOLI DI UN MISSIONARIO DI IERI AI CRISTIANI DI OGGI Possiamo a questo punto, cogliere tra i tanti aspetti di cui è ricca la personalità di P. Borghero, alcuni elementi che possono stimolare la nostra riflessione di cristiani che vivono nel XXI° secolo. 3.1. Avere degli ideali P. Borghero ha sempre coltivato degli ideali, uno soprattutto, verso cui ha orientato tutta la sua vita: le missioni. Le missioni sono state per lui l’orizzonte verso cui ha guardato, da sempre. Ad esse – scriverà – “ho votato tutta la mia esistenza fin dai primi anni della mia infanzia” (Lettera alla signora Viot dell’8 giugno 1866), fin dall’età di 7 anni, “senza un momento d’interruzione” – scriverà altrove (Lettera a P. Casaretto; Genova 29/03/1852). Questa perseveranza nasce in Borghero dalla convinzione, verificata da chi lo seguiva spiritualmente, che così facendo rispondeva alla chiamata di Dio: “parmi che finora – scrive all’Abate Casaretto - non abbia preso alcuna determinazione per altro fine che quello di servire Iddio in quel modo che io ho creduto che egli volesse da me, per quanto altrimenti possa sembrare ad altri” (Lettera a P. Casaretto; Santa Scolastica, 24/12/1857). Scrivendo ad una Suora della Visitazione così si esprime: “Lei mi parla dei sentimenti della sua anima per lo sviluppo del Regno di Dio. Quanto è bello e dolce per me di poter sempre incontrare dei sentimenti che sono stati i primi della mia infanzia e che hanno fatto in tutta la mia vita lo solo scopo della mia esistenza!” (Lettera a una Religiosa; Whydah, 20/01/1864). 3.2. Prepararsi al loro raggiungimento Ciò che colpisce poi nella formazione di Borghero è il fatto che a ciò che lo aspettava, alle missioni a cui guardava fin da piccolo, si è preparato con cura, da sempre. Un suo compagno di seminario, diventato in seguito gesuita, scriverà nel suo necrologio: “fu sua cura di preparare all’arduo ministero di missionario anche le forze fisiche. Dotato già naturalmente di una forte costituzione, cercò di fortificarla di più, coll’abituarsi alla fatica, alle privazioni, a tutte le intemperie, ai disagi del lungo camminare, dello esporsi al vento, al sole, alla pioggia, al duro dormire, al poco mangiare, ecc. E per preparare l’animo a tutti gli eventi, in tutti riconoscendo la mano di Dio, con altri pochi compagni, avea formato una società, che chiamavano dei felici, base della quale era l’accettare volonterosamente e con allegrezza ogni disposizione della Provvidenza ed ogni ordine dei superiori, come se ciò fosse spontanea propria volontà, seguendo un principio assai bene esposto dal P. Sarasa d. C. d. G., nel libro L’arte di goder sempre: Fa che tu voglia in tutto ciò che vuole Iddio, e tu così farai sempre il tuo volere, e perciò sarai contento” (Luigi Persoglio, La Settimana Religiosa, n° 44 del 1892). D’altra parte, iniziando il suo Diario, propone a coloro che volevano diventare missionari ciò che in effetti rispecchiava la sua vita e la sua formazione: “Un missionario – scrive - deve avere prima di tutto lo spirito degli apostoli, l’amore per N.S. Gesù Cristo a un grado eroico, il desiderio ardente di propagare la Chiesa tra tutti i popoli. Consiste in questo il suo principale patrimonio. Ma per servirsene nel migliore dei modi in mezzo agli uomini ha bisogno anche di quei mezzi umani che hanno attinenza alla vita esteriore. Perciò, oltre agli studi sacri, propri dello stato ecclesiastico, il missionario si trova nella necessità di conoscer un certo numero di lingue, di possedere le nozioni elementari dell’astronomia, la geografia, l’architettura, la medicina e la chirurgia spicciola, l’agricoltura. Deve sapere anche servirsi delle sue mani per essere, all’occasione, falegname, fabbro e sarto, senza contare che, più d’ogni altro, deve essere avvezzo alla fatica delle marce a piedi, sotto l’ardore del sole, al rigore del freddo. Deve inoltre potersi nutrire delle cose più semplici, accontentandosi di poco, in grado di dormire sulla nuda terra, a cielo aperto quando le circostanze lo esigono” (Francesco Borghero, Diario del primo missionario del Dahomey 1860-1864, EMI 2002, 42). E questa preparazione sarà perseguita continuamente, sarà una sorta di formazione permanente – come la chiameremmo oggi. E tutti i luoghi e tutti i momenti erano propizi per dedicarvicisi. Quando arriva a Dakar e vi ci si deve fermare per due mesi in attesa di una nave che lo conduca in Dahomey, sfrutta questo tempo per osservare, interrogare, prendere note, riflettere su ciò che vede e cercare quindi di prepararsi ancora meglio al compito che lo attende: “La permanenza a Dakar è molto piacevole, e pensiamo che la Provvidenza ci ha predisposto questo ritardo per abituarci poco a poco all’Africa e darci la possibilità di istruirci su tante cose ed è quanto facciamo qui” (Lettera a P. Planque; Dakar, 3/03/1861). Ormai giunto a Whydah, ricorderà questo suo impegno scrivendo a P. Planque: “A Dakar restammo due mesi ad aspettare l’arrivo di una nave da guerra per essere trasportati a Whydah. In questo lasso di tempo ci siamo occupati di tutto quanto avrebbe potuto esserci utile in missione, sopratutto ad istruirci sulla disciplina da seguire nell’amministrazione delle cose ecclesiastiche, di fronte a circostanze così differenti da quelle che si presentano in Europa, e su questa materia oltre le decisioni della Congregazione di Propaganda, i chiarimenti e i saggi consigli di Mons Kobès ci sono stati ben preziosi. Non voglio prolungare la mia lettera ed esporvi alcune osservazioni geologiche che ho potuto raccogliere nelle escursioni ordinarie che abbiamo fatto. Ci sono cose più importanti che ci fanno premura” (Lettera a P. Planque; Whydah 28/04/1861). Quando poi raggiunge Abeokuta, città del sud ovest della Nigeria, scrive ai confratelli che aveva trascorso tutto il giorno di Pentecoste a leggere quanto il capitano Burton aveva scritto su quella città e sul Monte Cameron dove ha intenzione di recarsi. Chiede in quell’occasione che gli siano portati tutti i libri scritti in Nango, disposto a pagarli qualsiasi prezzo. Quando li riceve non si esime dal dire che “tutti i libri Nago che mi hanno portato si riducono a una parte della Bibbia che già abbiamo e a un Dizionario di circa 200 parole che potremmo fare meglio noi in due ore” (Lettera ai confratelli; Abékoutta, 17/05/1864). 3.3. Saper soffrire per essi Un altro insegnamento che possiamo trarre da P. Borghero è l’invito ad accettare di pagare qualcosa per ciò in cui si crede. A Borghero non sono mancate certo né le difficoltà né le sofferenze. Una delle prime cause di sofferenza è per Borghero il conflitto di doveri, in particolare tra quelli di figlio e la chiamata ricevuta dal Signore: “Io conosceva – scrive al Card. Barnabò - il dovere che ha il figlio e specialmente il primogenito verso i genitori né intendeva punto mancarvi, ma che la mia chiamata alle missioni si era manifestata tanto chiaramente da non lasciarmi ombra di dubbio: che se mi mancavano i mezzi da proseguirla, Iddio li avrebbe provveduti come avrebbe pur provveduto a quelle necessità, il soccorrer alle quali mi avrebbe impedito dal seguitar la sua voce e all’uno e all’altro bisogno fu veramente provveduto fin qui, e confido che il Signore provvederebbe ancora altrimenti se mai uscendo io di questo monastero venisse a mancare anche quel tenue soccorso che mando a mia madre” (Lettera al card. Barnabò; Santa Scolastica, 18/10/1857). Non gli sono poi mancate le umiliazioni, soprattutto quella - prima di incontrare Mons Brésillac - di non poter celebrare la Messa, per ingiusta causa: “Sono ormai due mesi che son qui rimosso dall’altare, e senza alcuna mia colpa. Ho avuto quanti riguardi io mi sapessi, per accomodare ogni cosa nel miglior modo: ho sopportato e sopporto ancora ogni specie di umiliazione; ho preferito in molti casi l’esser creduto un impostore ed un apostata anziché dire la vera ragione per la quale non dico la messa, non ho rifiutato né rifiuto d’andare a domandare di che vivere, e quasi senza nulla ottenere” (Lettera a P. Casaretto; Roma, 5/01/1858). In conto poi ha già messo tutto quanto potrà riservargli la missione. Nulla lo ferma: “Se ne assicuri, Eminenza, - scrive al card. Barnabò - né la morte di tutti i nostri confratelli a Sierra Leona, né i tanti pericoli che attendono ad ogni passo il missionario, né le difficoltà che specialmente dovremo incontrare sulle costiere dell'Africa, mi hanno mai fatto sentire il benché minimo timore” (Lettera al card. Barnabò; Lyon, 10/12/1859). Ciò non gli impedisce di discernere tra rischio inutile e sacrificio: “Esporsi a un pericolo reale senza alcun bisogno o per imprudenza, o per mostrarsi è un crimine ; distinguere un pericolo reale da uno immaginario è saggezza, affrontarlo con dignità e fiducia in Dio, quando la sua gloria lo esige e il dovere ce l’impone, è il più sublime esercizio di questa virtù che viene chiamata forza in filosofia, che sovente si chiama dedizione in morale, e che sovente per chi si consacra alla salvezza del suo prossimo è il sacrificio. È quanto il missionario deve sempre aver davanti agli occhi e chiedere a Dio senza tregua le grazie necessarie” (Lettera a P. Courdioux; Dakar 14/03/1861). Arrivato in missione fa l’esperienza dura della malattia che lo conduce diverse volte alle soglie della morte. Accetta tutto, quasi rallegrandosi di poter cominciare anch’egli con la sofferenza il suo ministero a immagine del Signore Gesù: “Non vi dirò nulla delle nostre sofferenze, sono state molte e dolorose. Attualmente posso dire di sapere cosa vuol dire soffrire. Una violenta febbre che penetra le ossa, notte e giorno, il sangue che sembra bollirvi nelle vene, le viscere che danno l’impressione di spappolarsi, il corpo che è in preda a dolori difficili da esprimere, sfinito da una dieta senza fine, e tutto questo durante 40-50 giorni. Ecco quanto Dio nella sua misericordia mi ha inviato giusto per cominciare. Era tempo di iniziare un po’ la vita apostolica e se il discepolo non è più grande del Maestro bisognava cominciare da questo” (Lettera a P. Courdioux; Whydah, 14/08/1861) Fin dall’inizio, poi, anche la disponibilità a dare tutto, perfino la vita, fa parte della scelta operata. Borghero non ha paura di riflettere e far riflettere sul fatto se perfino i i mercanti e gli esploratori corrono rischi, a maggior ragione i missionari devono metterli in conto: “Senza dubbio il passaggio da un clima temperato e di conseguenza fortificante a un altro molto caldo e debilitante non può effettuarsi senza qualche modifica della persona; non c’è che dire: bisogna accettare di essere trasformati tramite le malattie e questo non va senza pericolo. Ma se questo pericolo può far indietreggiare un avventuriero che vieni qui a cercare un fantasma di fortuna, che molte volte svanisce come un miraggio [...] è lontano dal poter ispirare una qualsiasi paura agli apostoli di Colui a cui tutte le nazioni sono state date in eredità e noi dovremmo coprirci di vergogna se per caso, al fine di sfuggire a une febbre, a una dissenteria, rifiutassimo di correre in soccorso dei nostri fratelli quando i figli di questo modo perseguendo dei beni perituri, si espongono e subiscono molti più rischi e pericoli. [....] Noi sentiamo che ad ogni istante Dio si fa presente per dirigerci e ci offre i segni più rari della sua Provvidenza, nel momento stesso in cui esige il sacrificio della nostra vita. [...] Le sofferenze dei missionari e soprattutto la loro morte fanno parte del disegno divino. [... Il missionario] non ha che da seguire la sua strada senza inquietarsi, anche se troverà la sua tomba più o meno vicino. Noi non abbiamo bisogno di ricorrere agli esempi che ogni Società di missionari potrebbe fornirci; benché nati ieri abbiamo ben presto sperimentato questa verità” (Lettera a P. Planque; Whydah 30/09/1861). Tutto questo era già stato preventivato e accettato. Ciò che gli sta a cuore, l’annuncio del vangelo, vale bene tutto questo: “Ho fatto sacrifizio a Dio di quanto avea di più caro e di più lusinghiero per darmi alle missioni” aveva scritto al Papa (Lettera al Papa Pio IX; Roma, 4/05/1858) e ora, una volta di più, ha l’occasione di viverlo. Occorre che anche i giovani candidati missionari sappiano e accettino i rischi a cui vanno incontro andando in missione e per questo che invita il suo superiore a Lione a dir loro che “non è per divertirsi che si viene in missione” (Lettera a P. Planque; Whydah 31/07/1861). 3.4. Rimanere persone libere Uno degli aspetti che colpisce nell’atteggiamento di Borghero in missione, ma anche prima, è il suo impegno a non svendere mai né il vangelo né la verità né la propria persona. Una delle pagine più belle del Diario di Borghero è il suo viaggio alla Capitale del Regno del Dahomey e i preparativi per incontrare il Re. In quell’occasione appare chiaramente come il rispetto verso l’autorità vada di pari passo col rifiuto di ogni compromesso. Ascoltiamone un passo: “Quando giunse il momento di regolare in modo definitivo la mia entrata solenne nella capitale del Dahomey, ho posto con precisione le seguenti condizioni: 1. Che non venissi obbligato dal Re a compiere atto alcuno che contrastasse con le mie credenze religiose. 2. Che in tutti i posti della città dove io sarei dovuto passare in forma solenne e all’interno della residenza regale dove dovevo recarmi per incontrare il Re, fossero tolti, o coperti, o altrimenti nascosti in modo da non essere visibili, ogni specie di idoli o di feticci od altri oggetti di superstizione. 3. Che non avrei assistito ad alcuna cerimonia nel corso della quale si fosse sacrificata la vita di qualcuno e che nessuno fosse ucciso in mio onore. 4. Che nelle cerimonie d’accoglienza non avrei manifestato alcun atto d’onore o di distinzione verso le donne del Re, eccezion fatta per la prima tra loro. 5. Che per rispetto agli abiti sacri non avrei offerto né accettato da nessuno acquavite, senza la quale qui non si fa nessuna cerimonia di ossequio. Quelle furono le condizioni principali che posi, oltre ad altre di minore importanza. Mi è stato assicurato da parte del Re che tutte sarebbero state scrupolosamente osservate. Del resto, avevo sempre dichiarato che se avessero voluto obbligarmi ad andare contro queste cose, avrei reso al Re una visita ordinaria con i miei abiti usuali e non rivestendo i paramenti sacri e che piuttosto mi sarei fatto decapitare, ma non mi sarei piegato alle loro richieste, a cui per altro obbligavano gli altri Bianchi. Nel vedermi così risoluto, i Neri ed il Re con loro, compresero che non avevano a che fare con un negoziante giunto in Dahomey per svolgere i suoi affari, né con un inviato dei governi d’Europa che tratta questioni d’interesse materiale » (Francesco Borghero, Diario del primo missionario del Dahomey 1860-1864, EMI 2002, 105-106). Borghero poi cerca di mantenere sempre una distanza avveduta e prudente dal potere finanziario. Quando arriva nel suo Vicariato Borghero si accorge del grande potere esercitato dai tanti commercianti soprattutto bianchi e nello stesso tempo della moralità molto dubbia di parecchi tra loro. Cerca dunque di intrattenere relazioni cordiali con loro, ma nello stesso tempo si tiene a distanza da questo mondo di battezzati che con il loro comportamento sono una contro testimonianza flagrante di quanto i missionari vengono ad annunciare. Questo è tanto vero che molti tra loro non sono contenti dell’arrivo dei missionari: la parola e il comportamento dei missionari infatti mette in questione il loro modo di vita. Scrive in una nota posteriore del suo Diario: “Abbiamo sempre lasciato credere d’essere stati ben accolti, all’agenzia francese, dal signor Lartigue. In effetti, il signor Régis aveva dato ordini perché così fosse. Ma la verità è che dapprima siamo stati ricevuti molto freddamente, e la sera stessa ed i giorni successivi il signor Lartigue ci ha dichiarato, nella maniera più dura, che eravamo venuti contro la sua volontà, che gli procuravamo solo dell’imbarazzo e che non era per nulla contento di ospitarci, che il nostro arrivo in Dahomey era inutile e che dovevamo procurarci in fretta un alloggio altrove” (Francesco Borghero, Diario del primo missionario del Dahomey 1860-1864, EMI 2002, 81). Borghero poi sta ben attento a non legarsi al potere politico-militare europeo che si affaccia sulle Coste. Non dobbiamo dimenticare che negli anni 1860, le potenze europee, Inghilterra e Francia soprattutto, iniziano i loro tentativi d’occupazione dei territori dell’Africa occidentale che porteranno a breve alla colonizzazione propriamente detta. In questo contesto, Borghero deve più volte misurarsi con le accuse che gli vengono mosse per esempio dagli Ufficiali della Divisione navale che pattuglia la Costa. P. Courdioux, confratello di Borghero, riassume così le accuse mosse alla Missione, quella di Porto Novo in particolare: “1° abbiamo voluto stabilirci a Porto Novo nonostante l’avviso del Governo [francese] 2° siamo nemici delle istituzioni francesi 3° non vogliamo che si insegni il francese nelle nostre scuole 4° la nostra missione non è francese” (Journal di P. Courdioux del mese di ottobre 1864). Il fatto della nazionalità di Borghero ha giocato molto –come si può constatare – in queste accuse. “Figuratevi – scrive ancora Courdioux nel suo Journal – che a bordo della fregata si dice apertamente che noi siamo una missione italiana; che siamo più favorevoli agli interessi stranieri che a quelli francesi” (Ibid.). Il problema poi dell’insegnamento del francese a scuola ha visto agli inizi la missione opporsi ai rappresentanti della Francia. Il ragionamento di Borghero era molto semplice: bisogna insegnare in portoghese perché è la lingua parlata dalla gente sia per evitare che si creda che la nostra religione sia differente da quella dei Brasiliani: “Sono anche al corrente che i funzionari del Sig. Régis che d’altra parte non parlano che il portoghese sia in casa che fuori, vorrebbero che noi insegnassimo il francese; agli occhi degli ufficiali della Marina è un crimine il fatto di non insegnare il francese. Questi signori non vedono che per soddisfare la vanità di alcuni tra di loro che non vengono qui che per qualche anno, noi dovremmo scontentare delle centinaia di famiglie indigene, farci sospettare dalle autorità locali, e far credere che la religione cattolica non è che la religione dei francesi, come la protestante lo è per gli Inglesi” (Lettera a P. Planque, Whydah 26-31/10/1863). 3.5. Avere uno spirito aperto Vorrei raccogliere da Borghero un ultimo insegnamento, importante anche per l’oggi, ed è l’invito ad avere uno spirito aperto. Ancora prima di arrivare in Dahomey e forse già ricco dell’esperienza del lungo viaggio, Borghero scrive a P. Planque che: “dovrà nelle sue istruzioni avvertire tutti sulle influenze del clima sul morale e soprattutto di non essere talmente esigente da arrabbiarsi per la più piccola contrarietà che si incontra. Ci vogliono persone di ampie vedute che sappiano che il mondo non è rinchiuso nel paese da cui ciascuno proviene, o se non hanno le qualità richieste per adattarsi facilmente alle realtà inusuali, che portino con sé un buon spirito di umiltà per poter seguire la condotta che verrà loro tracciata e uno spirito di rassegnazione per andare oltre tutti i disagi che si incontrano quando si lascia il proprio paese e le proprie abitudini” (Lettera confidenziale a P. Planque; Dakar, 16/03/1861). È importante – insiste Borghero – non rimanere chiusi nel proprio mondo conosciuto e nel proprio tempo passato se si vuole andare incontro alla realtà come si presenta, senza immaginarne un’altra: “non fatevi grandi illusioni sui cristiani di qui: sono tutti fagocitati dalla poligamia, anche coloro che sembrano avere tutte le apparenze della pietà. Ignorano cos’è la confessione e la comunione. Faccia sapere tutto questo ai giovani aspiranti missionari perché evitino di immaginare una realtà che non esiste” (Lettera confidenziale a Planque, Whydah 31/08/1861), evitando così di “venire qui con delle idee preconcette” (Lettera a P. Planque; Freetown, 08/05/1862). Bisogna quindi non vivere di rimpianti e di fughe in avanti: “Se si ha la sfortuna di essere incatenati dall’amore del proprio Paese, dei genitori, degli amici, si finisce per essere disgustati di tutto e allora è impossibile stare bene con qualcuno. È bene dirlo ai nostri futuri missionari” (Lettera a P. Planque; Freetown, 08/05/1862). Della realtà che può essere diversa da come possiamo immaginarcela fanno parte anche le persone e ricorre dunque a diverse riprese l’invito di Borghero a prendere le persone così come sono: “Bisogna prendere la gente così com’è e non come vorremmo che fosse” (Lettera a P. Planque, Porto Novo 06/08/1864); e questo vale anche per quanto concerne lui e i suoi missionari. Scrive infatti al suo superiore di Lione: “Ci prenda così come siamo, non come desidererebbe che fossimo” (Lettera a P. Planque; Porto Novo, 24/08/1864). Nel cominciare a costruire in missione, mi colpisce poi la sua capacità di pensare in grande, non solo per l’oggi, ma anche per il domani e il dopodomani: “Lei sa cosa capita quando invece di seguire un piano generale si costruisce di volta in volta qualcosa secondo i bisogni del momento senza pensare all’avvenire; si finisce per avere un amalgama poco decoroso di costruzioni mal sistemate. Per evitare tutto questo ho messo su carta tutto ciò di cui potrebbe aver bisogno una missione con 100 bambini da mantenere, con dormitori, scuole, laboratori, tipografia, chiesa, orto, alloggi per 12 missionari con un Vicario apostolico. Mettendo in proporzione tutti questi elementi, ho disposto ogni cosa in armonia, simmetria e convenienza. A tutt’oggi possiamo avanzare sicuri, costruendo secondo i nostri bisogni, ma seguendo sempre uno stesso piano, in modo che tra 8, 10 o 100 anni se si vuole si finirà per avere un insieme armonioso invece di un agglomerato sconclusionato di costruzioni” (Lettera a P. Planque; Whydah, 20-30/04/1863). In tutto questo avere idee aperte e pensare in grande Borghero non dimentica certo due elementi sottesi ad ogni sua azione. Prima di tutto, non smette di ricordare quanto sia importante abbandonare i propri progetti e la propria vita nelle mani sapienti della Provvidenza: “Vorrei che a Lione si fosse intimamente persuasi di una cosa di cui noi qui siamo testimoni ogni giorno: l’azione direttrice della Provvidenza su tutto quanto concerne la missione è talmente evidente, talmente marcata, nelle grandi come nelle piccole cose, che sarebbe un grave sgarbo verso Dio preoccuparci della riuscita di una cosa o dell’altra. Lo ripeto, ciò è evidente. Non ci rimane dunque che una cosa da fare: mettere in opera tutte le nostre forze, ma per quanto riguarda il raggiungimento dello scopo prefissato occorre rimettersi interamente a Dio; bisogna lavorare come se Dio non fosse presente, ma per quanto attiene alla riuscita bisogna contare su Dio solo, come se noi non contassimo e questo in tutto, assolutamente. Se i nostri giovani missionari saranno ben convinti e persuasi di questo, ne avranno solo vantaggi per la loro vocazione e tranquillità per la loro anima” (Lettera a P. Planque; Whydah, 23/08-01/09/1862). Il secondo elemento è la convinzione, mutuata anche dalla storia, che è solo con la pazienza, con lo sposare pazientemente il tempo, che si ottiene qualcosa. In effetti, le difficoltà e i contrattempi che incontra sono tanti e le tentazioni di scoraggiamento sono numerose. Forse perché non ha lavorato bene? O perché non si è fidato di Dio? Perché le cose non vanno così in fretta come le aveva previste? Le sue conoscenze della storia della Chiesa vengono subito in suo soccorso e così, parlando del cammino che il vangelo potrebbe fare partendo dalla Costa verso l’interno dell’Africa, Borghero afferma: “Se il Cristianesimo si radica qui potrà facilmente irradiare in tutte le direzioni, dissipare le tenebre circostanti. Intendo dire che sarà forse questo il cammino che la croce seguirà nei secoli futuri; Dio non ha bisogno di andare in fretta. San Benedetto nel VI° secolo della chiesa aveva trovato ancora degli idoli da distruggere, dei pagani da convertire, e tutto questo alle porte stesse di Roma. Non pretendiamo dunque di andare più veloci che i grandi apostoli dei secoli primitivi” (Lettera a P. Planque; Whydah, 30/09/1861). CONCLUSIONE Eccoci al termine di questa rivisitazione di un uomo e di un missionario che non solo hanno marcato la SMA, ma anche la storia dell’Africa occidentale, il Benin in particolare. Avrei potuto parlarvi ancora a lungo di lui, della sua storia, della sua personalità, dei problemi che ha incontrato, della passione che lo animava e di altri aspetti importanti come il commercio degli schiavi di cui erano testimoni i missionari e dei loro sforzi per liberare questa povera gente; la realtà onnipresente dei sacrifici umani e gli interrogativi che sollevava, la mancanza costante di mezzi economici, il suo metodo pastorale, etc. Credo che quanto accennato possa bastare. Questo mio e nostro far memoria non è occasionato né dovuto all’incapacità di gestire il presente o alla paura di un futuro dai contorni vaghi e imprecisi, e dunque al desiderio non confessato di rifugiarci in un passato che, proprio perché passato, sembra meno pericoloso, più rassicurante, malleabile a piacimento. No, non è tutto questo, non è per nulla questo. È motivato dal desiderio di riscoprire e ridarci radici che ci permettano nell’oggi e nel domani del nostro vivere di non essere sballottati di qua e di là di fronte ad ogni piccola o grande contrarietà, di non abbandonare il cammino ad ogni difficoltà grande o piccola che sia, di affrontare con timore e tremore ciò che la finestra spalancata sul domani ci lascia già intravvedere. Papa Benedetto XVI incontrando i giovani nella cattedrale di Sulmona, il 4 luglio 2010, diceva: “La memoria storica è veramente una "marcia in più" nella vita, perché senza memoria non c'è futuro. Una volta si diceva che la storia è maestra di vita! La cultura consumistica attuale tende invece ad appiattire l'uomo sul presente, a fargli perdere il senso del passato, della storia; ma così facendo lo priva anche della capacità di comprendere se stesso, di percepire i problemi, e di costruire il domani. Quindi, cari giovani e care giovani, voglio dirvi: il cristiano è uno che ha buona memoria, che ama la storia e cerca di conoscerla”. Il tema scelto dalla comunità SMA di Feriole per ques’anno è “Andando, fate discepoli...”. Da una parte questo vuol dire che nessuno di noi, può trattenere, tenere per sé, quanto ha ricevuto di amore, insegnamento, fede ed esperienza di fede, gioia, disponibilità. Ma prima di questo, prima di condividere, dobbiamo far memoria e memoria riconoscente di quanto abbiamo ricevuto, da chi lo abbiamo ricevuto e come lo abbiamo ricevuto. Il Vangelo, la vita cristiana, l’amore che vi sta alla base sono arrivati fino a noi da duemila anni perché di una Persona e del suo messaggio, di un uomo che era anche Dio, Gesù Cristo, si è continuato a far memoria e a far dono di questa memoria. Questo vale anche per i tanti testimoni che in maniera esemplare hanno incarnato questo va e vieni del Vangelo. Noi, oggi ne abbiamo ricordato uno in particolare: P. Francesco Borghero. L’uomo e il missionario che vi ho presentato è uno che prima di tutto si è fatto discepolo del Signore e poi ha fatto discepoli nel nome del Signore, condividendo la passione della sua vita. Quanto lui ha vissuto, come ha impostato la sua vita, gli insegnamenti che si sprigionano dalla sua storia hanno ancora diritto di cittadinanza nell’oggi che è il nostro. Abbiamo cercato di vederne alcuni insieme che possono essere fatti nostri. Avere degli ideali che impegnano e impregnano la nostra vita, ideali verso cui orientare la nostra vita esige da noi non vivere alla giornata, senza alzare lo sguardo per cogliere una meta più alta verso cui incamminarci; significa prestare orecchio a quanto il Signore può indicarci attraverso persone, occasioni, luoghi, preghiera e ascolto della sua Parola. Questi ideali verso cui ci sentiamo chiamati sia nella vita umana che cristiana esigono poi da noi lo sforzo della preparazione: ci si prepara, ci si forma, ci si forma continuamente per essere un buon marito, una buona moglie, un buon prete, una buona religiosa, per essere un buon medico, un ingegnere capace. Non basta ricevere i doni del Signore, occorre prepararsi ai compiti insiti in essi, occorre giocare continuamente i talenti ricevuti e non passare il tempo a trovare l’angolo migliore per nasconderli. Ma cosa siamo disposti a pagare per il raggiungimento di obiettivi importanti, per far nostre gioie più grandi, per veder nascere cose belle? Senza il dolore del parto non viene al mondo nessuno, senza il superamento di difficoltà e ostacoli il bambino non diventerà mai adulto, senza accettare di soffrire per amore non ci si mette insieme. Tutto nella nostra vita, tutto quanto conta, richiede la nostra disponibilità a pagare qualcosa, a pagare di persona. Da sempre, poi, la dignità di una persona si misura dalla sua libertà, dalla sua capacità di non farsi fagocitare dai vari poteri di turno, dalla volontà costantemente rinnovata di cercare la verità tra le pieghe delle tante parole che si dicono e si ascoltano. Essere persone libere, che non si vendono al miglior offerente né si svendono per qualche beneficio che lascia l’amaro in bocca. Oggi come ieri solo la persona libera è autorevole, capace di parole che pesano, che formano e informano. Da ultimo, vogliamo raccogliere l’invito ad avere uno spirito aperto che sa che nessuno di noi ha la verità in tasca, ma dobbiamo ricercarla insieme, magari scontrandoci ma pur sempre rispettandoci. L’altro da noi esisterà sempre: che siano persone diverse, che siano luoghi sconosciuti, che siano tempi ancora da addomesticare, tutto si presenta a noi come un invito ad andare incontro alla realtà comunque si presenti con apertura di spirito, pronti a vagliarla per vedere il buono e il bello di cui può essere portatrice. Ogni rifiuto di rimanere aperti al presente è rifiuto di camminare con Colui che è con noi sempre, che ha sposato tutto il tempo: non è presente solo nell’ieri e neanche solo in un luogo, e neppure solamente in un modo di essere cristiani. Il Signore, incarnandosi, ha voluto che la storia e la geografia continuino ad arricchire la sua Chiesa che cammina nel tempo. Un po’ di tutto questo ha voluto insegnarci P. Borghero, oggi. Far memoria di lui ha rispolverato verità che la Chiesa insegna da sempre e a cui invita anche noi. Nel nostro andare di ogni giorno, sforzandoci di essere sempre e sempre meglio discepoli, possiamo pure noi, impegnandoci anche su questi temi fare discepoli del Signore, nel nome del Signore. Andando, fate discepoli....