Utente:Suor Maria Trigila/Modelli femminili e ideologie
Le trasformazioni dopo la Grande Guerra
Alla fine della 1ª Guerra Mondiale s'intravedono alcune trasformazioni sia nel costume, la cui espressione evidente è il taglio dei capelli e le gonne, che nella politica. Passa infatti alla Camera dei deputati il voto alle donne, destinato pure a cadere con la fine della legislatura. È attiva la legge sulla emancipazione femminile che ammette le donne in tutte le professioni e in tutti gli impieghi pubblici, ma ciò non impedisce, nel 1920, il licenziamento di queste per ridare il posto ai reduci e l'espulsione delle donne dalle fabbriche. L'esperienza bellica mentre favorisce un'ulteriore presa di coscienza nella donna delle sue capacità, crea delusione da parte del regime fascista e nazionalsocialista.
Il variegato mondo femminile durante il Ventennio fascista rimane ancora da indagare, soprattutto per ciò che concerne la stampa femminile a carattere divulgativo. Si possono registrare numerose riviste scritte da donne per le donne. Si tratta di periodici per lo più a scadenza settimanale che consentono, se opportunamente esaminati, di andare oltre i modelli comportamentali precostituiti con cui la società imbriglia il cosiddetto "sesso debole". Gli anni trenta, anni di un regime teso a poggiare sul consenso di massa, offrono l'opportunità di cogliere significativi mutamenti nelle abitudini e nel costume, i quali, benché coinvolgano ampi strati sociali, si riflettono in modo particolare sulle donne.
Si afferma la stampa femminile come uno dei settori trainanti della pubblicistica italiana. Il giornale femminile, infatti, ubbidisce sin dai suoi esordi a una concezione prevalentemente commerciale. Fatta eccezione per le riviste di impostazione cattolica con intenti dichiaratamente educativi, già gli editori di fine Ottocento, soprattutto milanesi, puntano su riviste di svago e di intrattenimento, che rispondevano alle esigenze del mercato e quindi potevano garantire dei buoni profitti.
La donna, così, nel corso del ventennio diventa oggetto di continua attenzione da parte della propaganda politica fascista, come confermano i discorsi di Mussolini e dei suoi gerarchi, la stampa ufficiale di regime, l'organizzazione dei Fasci femminili, le manifestazioni e celebrazioni tenute su tutto il territorio nazionale.
Il fascismo però si trova ad attuare continui riadattamenti tra il "vecchio" e il "nuovo", tra un passato percepito come stabile, ma che si rivela anacronistico, e un presente in gran parte da definire e dagli imprevedibili sviluppi. È quest'ultimo dato, in particolare, a destare presso l'élite politica e culturale timori e apprensioni, che talora degenerano in un clima allarmistico contro i pericoli che paiono insidiare la collaudata femminilità "latina". La donna nuova di Mussolini piuttosto che recuperare l'immagine cattolico-conservatrice della sposa e madre esemplare, si trova al centro di un processo di trasformazione che investe le strutture sociali, economiche e ideologiche della nazione.
L'importanza della stampa femminile
In questo clima di non facile convivenza tra conservatorismo e modernità e stimolato dalla necessità di lavorare su una dimensione di massa, il mondo dei mezzi di comunicazione si arricchisce del rotocalco, destinato a essere consumato soprattutto dal pubblico femminile. Presentato come la grande novità editoriale del momento - risultato di un'operazione commerciale che lo propone come strumento di intrattenimento - esso non si mostra allineato con i principi della politica del regime verso le donne, nei cui confronti manifesta una ambiguità di fondo dovuta a una compresenza di elementi reazionari e progressisti.
Il rotocalco asseconda e incentiva i nuovi valori e interessi che prendono piede tra gli strati femminili della piccola e media borghesia. Le riviste, in vendita nelle edicole e destinate alle masse e al consumo, diventano "specchio" dei gusti e delle abitudini di una società in rapido mutamento. Esse consentono di conoscere più a fondo il mosaico della condizione delle italiane durante la dittatura.
Anche se riceve la propria consacrazione ufficiale negli anni compresi tra le due guerre mondiali, la pubblicistica femminile vanta a quella data una lunga e consolidata tradizione. Già negli ultimi decenni del secolo scorso, stando a quanto riferisce l'editore Eugenio Torelli Violler (1842-1900), i giornali di moda erano divenuti una specialità milanese. Da un'analisi comparata dei più importanti repertori e cataloghi dei periodici redatti in quegli anni risulta, inoltre, confermata l'esistenza di un primato milanese per quanto riguarda la pubblicazione di giornali di mode, riscontrabile fin dal primo decennio dopo l'Unità. La nascita della stampa illustrata femminile infatti è, all'inizio, interamente dedicata alla moda. In questo campo il primato è detenuto dall'editore Alessandro Lampugnani proprietario di testate quali il Corriere delle dame, il Giornale delle famiglie, La Moda e Le Ore casalinghe. Di poco posteriori (1864-1865) sono le riviste illustrate pubblicate da Edoardo Sonzogno: La Novità, Il Tesoro delle famiglie, La Moderna ricamatrice e Il Monitore delle sarte.
Ecco perché alcuni editori italiani specializzati nella produzione di riviste di moda, tra cui Sonzogno e Treves prima, Rizzoli e Mondadori poi, intuendo quanto redditizio potesse diventare il mercato dei giornali illustrati, si cimentano nel campo dei periodici destinati alle donne, offrendo a un pubblico di dame e signorinette fogli patinati dalla modesta tiratura, quando il trinomio Dio-patria-famiglia resisteva a ogni sorta di attacchi.
Figura femminile emergente
Dal ceto femminile piccolo e medio borghese giungono le richieste di consigli e di suggerimenti. A tali supporti pratici si unisce, poi, una crescente volontà di affermare una femminilità più sicura di sé anche con il costante e puntuale aggiornamento sulle ultime novità in fatto di moda, di cosmesi e di costume. Per questa figura femminile emergente e alla faticosa ricerca di una propria identità, in sintonia con i più recenti modelli incarnati dalle dive del cinema e divulgati dai mezzi di comunicazione, venivano confezionate apposite riviste sorte con il preciso intento di ricoprire l'intero arco di quelli che si reputano gli interessi specificamente "muliebri". Puntando soprattutto sull'evasione e sui suggerimenti capaci di semplificare i piccoli problemi della vita quotidiana, si escogitano formule editoriali destinate ad "arredare" il corpo e l'anima delle donne. L'intento è di offrire una sorta di habitat psicologico in cui potersi facilmente riconoscere. La donna di Mussolini oscilla quindi tra evasione e consumismo.
Inizialmente, le organizzazioni cattolico-popolari si interessarono al settore della "buona stampa" indirizzata alle donne, proponendosi fini educativi e di difesa a oltranza di un ordine sociale che pareva perdere terreno. I primi due decenni del '900 registra, infatti, l'affermarsi di un battagliero movimento femminista, attivo anche nel settore della stampa periodica; le donne italiane, mobilitate durante l'emergenza bellica, erano poi affluite in massa negli uffici e nelle fabbriche, acquisendo maggiore coscienza dei propri diritti come soggetti sociali autonomi. Secondo alcuni, la tradizionale gerarchia dei ruoli sessuali, fondata su di una rigida doppia morale tra un "privato" prettamente femminile e un "pubblico" esclusivamente maschile, rischiava di incrinarsi sotto i colpi dell'incipiente processo di industrializzazione e di urbanizzazione, che, confinato in ben delimitate aree geografiche della penisola, minacciava di aggredire la parte sana del corpo sociale, la cui esistenza scivolava lungo binari antichi e collaudati.
La Grande Guerra aveva investito i gangli vitali della società. Lo sconvolgimento da esso provocato nella vita quotidiana della popolazione civile, l'ingresso in un mondo dominato dalla tecnologia industriale e da forme più razionali di organizzazione e divisione del processo produttivo, erano fenomeni che necessitavano di essere "riassorbiti". Se si fosse voluto salvaguardare l'ordine sociale cui da tempo si era abituati, allora sarebbe stato indispensabile neutralizzare la carica potenzialmente destabilizzante ed eversiva di tutto ciò che aveva il sapore della novità.
Le donne della piccola e media borghesia e del proletariato urbano sperimentano in tal modo nuove opportunità di socializzazione e di organizzazione dell'esistenza, acquisendo lentamente consapevolezza delle proprie potenzialità e dei propri diritti come soggetti sociali e produttivi autonomi. Ma cessato il conflitto, proprio queste donne rischiano di divenire l'anello debole della catena di rigide gerarchie sociali e sessuali che ora si intendeva ripristinare.
A mobilitarsi sono le organizzazioni femminili cattoliche impegnate in una capillare opera di educazione e di propaganda tra le masse femminili maggiormente esposte alle insidie della civiltà urbano-industriale. Nei primi anni Venti sono proprio gli istituti e le organizzazioni cattoliche, da tempo radicati nel tessuto sociale italiano, ad assumersi l'incarico di far rientrare le donne "nei ranghi".
La pubblicistica periodica femminile
La pubblicistica periodica femminile assume i connotati di diretta emanazione di organi quali l'Azione cattolica femminile o istituti come la Compagnia di San Paolo, al cui interno le signore della buona società, facendosi interpreti della necessità di ricorrere a strumenti moderni, più razionali, più incisivi nell'ambito di un disegno nel quale modernizzazione tecnologica e conservatorismo ideologico generalmente si fondevano, indossavano i panni di dispensatrici di consigli impartiti attraverso testate quali Fiamma viva (1921), Squilli di risurrezione (1921), Alba (1922), Beatrice (1923) e La Fiorita (1927). Pubblicazioni rispondenti all'obiettivo di diffondere tra le masse popolari i "sani" modelli comportamentali e educativi del passato. La stampa femminile cattolica conosce così nell'immediato primo dopoguerra, un notevole sviluppo soprattutto nell'area milanese e lombarda, dove nel 1918 esce Le Nostre battaglie, organo della Gioventù Femminile Cattolica Italiana e nel 1919 inizia a essere pubblicato il mensile dell'Unione donne di Azione cattolica Fortes in fide.
Con gli anni Trenta si giunge a un momento di rottura: mentre la Chiesa e lo Stato si interrogano sul tipo di educazione e di formazione da impartire alle giovani generazioni femminili, la donna viene sottoposta a tensioni proprie di un nuovo tipo di cultura che suggerisce modelli sociali e sessuali più liberi e disinibiti. Il turbamento che ne deriva potrebbe essere una diretta conseguenza della stessa contraddittoria politica femminile fascista: pretendere che le donne siano al contempo cittadine responsabili e membri subordinati della famiglia, persone attive nella vita pubblica dell'Italia nuova, ma sottomesse all'autorità paterna.
La politica familista, compendiata nel celebre motto "le donne a casa", diviene uno dei principali cavalli di battaglia del regime, coadiuvato in ciò dalla Chiesa e dalle numerose associazioni cattoliche disseminate sul territorio nazionale. Tra gli innumerevoli esempi che si potrebbero citare ecco un passo tratto dalla rivista Il mare nostro, secondo cui la donna deve essere educata "circondandola di premure e di affetto nella casa, la quale deve essere la sua reggia, vietandole qualsiasi abitudine extrafamiliare".
Pertanto, il consolidamento del fascismo al potere obbliga molte testate a ridefinire i propri obiettivi e a ridimensionare le velleità che le avevano animate al momento della loro fondazione. Alcuni editori individuano nelle donne della piccola borghesia e del proletariato un fertile terreno promettente ai fini commerciali. A Milano, nel 1933, escono Eva. Rivista per la donna italiana, diretta da Ottavia Vitagliano, che si firma con lo pseudonimo "Sonia" e Lei. Rivista di vita femminile, pubblicata da Rizzoli, poi costretta a mutare il nome in Annabella (1938) all'epoca della campagna linguistica contro l'assai poco virile "lei".
Nei medesimi anni altre testate, sorte nel confuso clima politico del primo dopoguerra e animate da propositi di rivendicazione dei diritti femminili, sono costrette ad attuare un drastico mutamento di rotta e a scendere a compromessi con un regime sempre più invadente. Inizia il riflusso verso temi cari alla propaganda ufficiale. La retorica dei "buoni sentimenti" viene dispensata dalla novellistica rosa e i nuovi settimanali illustrati di moda e varietà trovano consenso per i bei figurini e le elaborate immagini pubblicitarie, finendo col diventare un appuntamento fisso per le giovani dei ceti urbani medio-bassi. L'accorto dosaggio di evasione-curiosità-pettegolezzi-consigli che li caratterizza si rivela una formula vincente, tanto che, opportunamente rimodernata, verrà ripresa nell'immediato secondo dopoguerra, quando i rotocalchi conosceranno un vero e proprio boom fino a imporsi come il ramo più solido e fiorente dell'industria culturale di massa.
Rapporto donna regime fascista
Il rapporto, comunque, tra donne e regime va affrontato anche da due punti di vista: l'organizzazione nelle strutture del partito e l'inserimento nel mondo del lavoro. Nel 1921 erano sorti i primi Fasci femminili e a essi, dopo la nascita del Partito Nazionale Fascista, furono assegnati compiti caritativi e, dal 1925, di educazione fisica e assistenziale. Le organizzazioni femminili, passate dal 1929 sotto l'egida dell'ONB[1], si divisero in Piccole italiane, Giovani italiane e Giovani fasciste. Vi erano inoltre le Donne fasciste, impegnate nella ruralizzazione del paese e dal 1934 le Massaie rurali.
Lo sviluppo culturale della donna è rigidamente controllato: tra le materie che le più piccole imparavano fuori dagli orari scolastici vi erano soccorso, economia domestica, puericultura, ginnastica ritmica, decorazione, fluoricultura.
Il regime, pur incoraggiando le donne a uscire dalla sfera domestica ove erano confinate, emana una legislazione che li penalizza dal punto di vista salariale. Nel settore scolastico, al mondo femminile sono riservati i licei femminili. Il ruolo di moglie e di madre è rafforzato dalla politica demografica del regime; difatti una legge favoriva nei concorsi pubblici le persone coniugate con figli e dell'attività dell'Opera nazionale maternità e infanzia del 1925. La famiglia posta al centro del programma di "rigenerazione" dell'italiano vede la donna-madre come "mezzo" di incremento demografico e di prestigio nazionale: il Codice penale Rocco del 1931 vieta l'incitamento a pratiche contro la procreazione.
Il regime fascista, a differenza dello Stato liberale, sottolinea una "politica femminile" costruita sulla base di esperienze già avviate dal femminismo ottocentesco, come il sostegno alla maternità con L'Opera maternità e infanzia, ma non in nome dei diritti delle donne e dei bambini bensì della politica demografica di potenza. La legislazione fascista infatti è costruita sulla disuguaglianza fra i sessi, sulla subordinazione della donna all'uomo, sulla sola funzione procreativa come forma propria del contributo della donna allo sviluppo nazionale. Difatti il regime fascista preclude alle donne l'insegnamento nei licei e ne limita la presenza negli impieghi pubblici, riducendone i salari. Il Regio Decreto 6 maggio 1923 al n. 1054 vieta alle donne la carriera di preside di scuola media; il Regio Decreto 6 giugno 1925 estende il divieto anche agli istituti privati; il Regio Decreto 9 dicembre 1926 impedisce alle donne l'insegnamento di materie letterarie, storico-filosofiche, economiche nei licei. Le donne dunque devono allevare la prole, devono collaborare all'educazione dei bambini, ma non possono avere responsabilità formative.
I Regi Decreti scoraggiarono in tal modo il lavoro pubblico e privato. Difatti con il Regio Decreto del 3 marzo 1934 le donne vengono escluse dai posti di podestà e di rettore. Nel 1938 con Regio Decreto 15 ottobre n. 1514 si stabilisce che l'occupazione femminile tanto nel settore pubblico che in quello privato non poteva superare il 10%. Nel 1939 si indicano i servizi "che per loro natura" non possono essere disimpegnati che da donne come la dattilografia, la telefonia, la stenografa, le operazioni di statistica e di calcolo eseguite con mezzi meccanici, la gestione degli schedari, il lavoro nel settore terziario.
Aldilà delle intenzioni del regime, però, la graduale e progressiva emancipazione delle donne non si arresta. Cresce la scolarizzazione femminile, si consolida nella prassi quotidiana l'esperienza del lavoro extradomestico, decollano le patenti d'auto: 18.773 se ne conseguono già nel 1938, aumentano i giornali femminili e la pratica sportiva. A tal proposito, lo stesso regime istituisce a Orvieto l'Accademia femminile per le insegnanti di educazione fisica.
Rapporto donna regime nazista
Anche nel Reich nazista la donna è considerata esclusivamente come madre, educatrice dei figli, moglie sottomessa e rispettosa del predominio maschile. Procreare per la patria e per la purezza razziale ariana è il più alto ideale cui le donne possono aspirare. L'idealizzazione della maternità diventa l'occasione per introdurre la festa del giorno della mamma e, dal 1938, il conferimento di una croce di merito alle madri più prolifiche. Nel settembre 1941 ne vennero consegnate quasi cinque milioni. Il regime nazista impone alla donna il divieto di usare cosmetici e fare sfoggio del fascino femminile, ritenuti esempi di "cosmopolitismo ebraico". Nell'abbigliamento s'impone un nuovo "stile germanico" che esclude l'uso di capi di vestiario considerati decadenti o un'imitazione dello stile maschile. Tutte le ragazze a dieci anni hanno l'obbligo di iscriversi al BDM, Bund Deutscher Mädel[2], ma gli aspetti tipicamente maschili e bellicisti diffusi nella Hitletjugend[3] non si raccordano con l'ideale di moglie e madre promosso dal regime. Le ragazze inquadrate nelle organizzazioni naziste rimasero così una minoranza e costituirono un'élite.
La propaganda anche in questo caso è impregnata di spirito bellicistico e trova conferma nelle parole di Hiltler al congresso di Norimberga del 1938:
« | Mi vergognerei di essere un uomo tedesco se in caso di guerra dovesse andare al fronte anche una donna soldato. Anche la donna ha il suo campo di battaglia. Essa combatte la sua battaglia per la nazione con ogni figlio che mette al mondo per la nazione. L'uomo si adopera per il popolo proprio come la donna per la famiglia. La parità di diritti della donna risiede nel fatto che essa riceve nei campi vitali destinatile dalla natura l'apprezzamento che le è dovuto. » |
Le donne perdono in tal modo la propria autonomia. E le fruttuose battaglie per l'emancipazione femminile negli anni di Weimar[4] perdono di significato. Le donne, private del diritto di voto, con una serie di provvedimenti, vengono obbligate a lasciare l'impiego al marito, a riduzioni salariali, a loro non è permesso accedere a determinate professioni. Tale situazione mutò nel corso della guerra quando divenne necessario sostituire gli uomini che combattevano al fronte. Difatti le mogli e le madri vengono chiamate, soprattutto dopo la proclamazione della guerra totale nel 1943, a dare il proprio contributo per la patria anche con il lavoro.
È utile fare un accenno all'Associazione delle SS Il Lebensborn ossia Fonte della vita, fondata da Heinrich Himmler (1900-1945) nel 1935, finanziata da donazioni coatte delle stesse SS. Lo scopo è di appoggiare la politica razzista del regime. I Lebensborn si adoperarono nella lotta contro l'aborto e a favore dell'aumento della natalità. Da un punto di vista amministrativo dipendevano dalla divisione economica delle SS, ma per le loro funzioni erano legati all'ufficio delle SS preposto alle questioni razziali.
Nel corso della guerra si designarono delle sedi preposte ad accogliere le madri non sposate e "razialmente pure" perché si accoppiassero con l'élite razziale del regime, le SS appunto e procreassero figli "sani". In Germania si contano undici sedi di Fonti della vita, nove nei territori occupati di Francia, Belgio e Norvegia. In questi centri nacquero circa ottomila bambini. Oltre a una politica razzista e antisemita volta all'espulsione di tutti gli elementi reputati da Hitler indegni di vivere in Germania, il regime nazista si adoperò per promuovere la procreazione anche al di fuori dei vincoli familiari e matrimoniali. Di fronte alla necessità di salvaguardare la razza anche l'ordine costituito passò in secondo piano.
Donna e rivoluzione bolscevica
Anche la rivoluzione bolscevica ha notevoli influssi sulla situazione delle donne. Essa introduce innovazioni nel diritto matrimoniale e nel costume, che non risolvono però le crisi familiari e l'abbandono dei bambini. Con Stalin prende piede una sorta di conformismo sociale che cancella di fatto alcune conquiste. La pianificazione economica centralistica infatti danneggia le donne, vittime del doppio lavoro; lo schiacciamento di ogni libertà intellettuale e politica colpisce tante protagoniste della intellighenzia, obbligandole al silenzio o chiudendole nei gulag.
Donna e Resistenza italiana
Significativo è, infine, l'apporto femminile alla Resistenza. In Piemonte, ad esempio, le cifre presentate da Ada Gobetti[5] nel 1953 elencano 99 partigiane cadute, 185 deportate, 36 cadute civili. Mentre in generale si registrano 35.000 combattenti riconosciute, 4.600 arrestate, 750 deportate in Germania, 623 cadute o fucilate. La lotta partigiana recluta le donne oltre che infermiere anche nei nuclei armati di pianura e di montagna, nell'organizzazione di scioperi e agitazioni esclusivamente femminili come le manifestazioni a Torino alla morte delle sorelle Arduino, nelle carceri, nella diffusione della stampa clandestina, nelle missioni pericolose di collegamento. Ciò poteva significare anche per le partigiane l'arresto, le violenze brutali da parte dei nemici in caso di cattura, sino alla fucilazione.
La rete di assistenza ai reduci, agli sfollati, ai bambini, continua oltre la guerra tanto da caratterizzare il successivo "far politica" delle donne. Negli anni della ricostruzione post-bellica emerge la forte volontà di cittadinanza e di autodeterminazione della donna. Eppure, anche se si riconosce alle donne la capacità di aver ridestato una sorta di solidarietà collettiva e di identità nazionale libera dalle retoriche, dopo la Liberazione, il 6 maggio 1945, Tersilla Fenoglio non può partecipare a Torino alla sfilata delle forze della Resistenza.
"Tu sei una donna", è la risposta di un compagno di lotta alla partigiana Camilla Maria Rovano (1906-2007), quando chiede spiegazione dei gradi riconosciuti soltanto ad altri partigiani. Cornelia, conosciuta come Nelia, Benissone (1915-2013), che dopo aver organizzato assalti ai nemici, addestrato gappisti e sappisti, lanciato bombe molotov contro convogli in partenza per la Germania, disarmato militari fascisti per la strada e dopo essere stata nel 1945 responsabile militare del suo settore, viene riconosciuta dalla Commissione regionale solo "soldato semplice".
Anche se in un documento del 16 settembre 1944 del Comando della I Divisione Garibaldi-Piemonte[6] riguardante le direttive per la costituzione di organismi popolari, recita:
« Nei limiti delle possibilità e sempre che vi siano i requisiti adatti, un elemento femminile può essere ammesso a far parte di detto organismo».»
Le donne agiscono non per fare carriera. Si distinguono per il loro stile spontaneo, il rifiuto del calcolo, il senso di giustizia, la capacità appassionata di amare e soffrire, la generosità comunicativa, la modestia, la pietà, il rispetto antiretorico della verità dei fatti e dei sentimenti: dichiarano persino di avere paura in taluni casi, ma questo non intaccava la qualità della loro partecipazione.
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