Storia di una capinera
Storia di una capinera | |
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Copertina del libro | |
Titolo originale | Storia di una capinera |
Nazione | Italia |
Lingua originale | italiano |
Ambito culturale | Verismo |
Autore | Giovanni Verga |
Editore | Lampugnani |
Datazione | 1871 |
Luogo edizione | Firenze |
Genere | romanzo |
Ambientazione Geografica |
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Ambientazione Storica | 1854 - 1855 |
Personaggi principali: | |
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Adattamento cinematografico | Storia di una capinera (1993) di Franco Zeffirelli |
Storia di una capinera è un romanzo, composto in forma epistolare dallo scrittore italiano Giovanni Verga (1840 - 1922).
Scritto nell'estate del 1869 a Firenze, fu pubblicato inizialmente nel 1870 su Il Corriere delle Dame di Milano, poi in volume l'anno successivo presso l'editore Lampugnani.
Il romanzo trae spunto da alcuni avvenimenti autobiografici quali la conoscenza nel 1854, ancora adolescente, durante le vacanze estive nella proprietà paterna a Tebidi, di una giovane destinata al convento, e il soggiorno in campagna nel 1867, durante un'epidemia di colera. Inoltre, va ricordato che nella famiglia dello scrittore due zie erano monache di clausura e la stessa madre era stata educata alla Badia di Santa Chiara a Catania.
Descrizione
Prefazione
Nella prefazione, Verga descrive l'agonia di una capinera "timida, triste e malaticcia" in gabbia, e paragonandola a Maria Vizzini, protagonista del romanzo, ne giustifica il titolo.
Trama
La vicenda ha inizio a Monte Ilice, sul versante orientale dell'Etna, nel settembre del 1854, con la lettera di Maria, orfana di madre, educanda nel Convento di Santa Chiara, alla compagna di collegio Marianna, nella quale dichiara la felicità di trovarsi libera, fuori dal monastero in cui è cresciuta, in compagnia del padre, della matrigna e dei due fratellastri, Giuditta e Gino. Figlia del primo matrimonio, Maria è destinata dal padre al convento, dal quale esce per la prima volta adesso, a diciannove anni, in seguito ad un'epidemia di colera che ha colpito Catania, la città dove si trova il convento.
Nonostante la durezza e le gelosie della matrigna, Maria trascorre giorni spensierati e sereni passeggiando con il padre, un uomo buono ma debole, affezionandosi ai fratelli, o intrattenendosi con i vicini, i signori Valentini, ed i loro due figli, Annetta e Nino. Questi s'innamora della semplicità ed ingenuità di Maria, che dopo alcune settimane felice deve ammettere a se stessa e confessare all'amica Marianna di essere attratta da Nino. Questa passione e la consapevolezza di essere destinata alla clausura mettono in moto forti sentimenti di colpa e peccato, ed inutilmente la ragazza tenta di negare a se stessa il suo segreto desiderio. Le tensioni psicologiche la fanno ammalare, la matrigna accentua questo isolamento escludendola da feste e da ogni occasione d'incontri. Unico sfogo sono le lettere a Marianna, sempre più appassionate e disperate, divise fra l'accettazione del proprio destino, delle ferree leggi sociali e familiari, ed il desiderio di amare e di essere amata.
Il 30 dicembre, terminato il pericolo del colera, la famiglia Valentini rientra a Catania. Poco dopo, anche Maria rientra in monastero, dove inizia per lei il noviziato, nonostante il turbamento che d'amore che prova.
Nel giro di alcuni mesi, riceve la notizia del matrimonio di Nino con la sorellastra Giuditta e, in aprile, affronta la cerimonia in cui pronuncia i voti definitivi. Da questo momento la situazione precipita. La giovane si aggrava sempre più fino ad impazzire ed a condurla alla morte prima della fine dell'anno, dopo aver tentato, delirando, di fuggire prima dal monastero e poi dalla cella dei pazzi dove era stata rinchiusa negli ultimi giorni.
Interpretazione
L'opera nasce a Firenze, in un clima segnato dalla polemica tra clericali e anticlericali. Il romanzo fu pubblicato con una introduzione in forma di lettera alla friulana Caterina Percoto, autrice di romanzi di ispirazione romantico-sociale. Tale introduzione era firmata da Francesco Dall'Ongaro, prete spogliato e scrittore progressista, attento alle tematiche sociali, figura centrale dell'ambiente culturale fiorentino. Dall'Ongaro contribuì a orientare la lettura del romanzo "nella direzione dell'impegno etico e della denuncia sociale, coerentemente con la propria concezione dell'arte"[1].
Verga apparve pertanto alla Percoto come il paladino di una battaglia progressista contro "la trista consuetudine di sacrificare alla vita monastica le povere nostre giovinette" e "il barbaro costume di educare le donne alla clausura"[2].
Ben diverse, però, erano le intenzioni dell'autore, come si possono evincere dalle premesse alla narrazione: qui Verga istituisce un'analogia tra la protagonista e una capinera chiusa in gabbia, che dà il titolo al romanzo. Tale analogia "si fondava non tanto sulla reclusione del corpo, ma su una sofferenza interiore che conduceva entrambe alla morte"[1]. Più che una critica "illuministica" alla pratica della monacazione forzata, il romanzo è infatti:[3]
« | Una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto. » |
Successo
Storia di una capinera ha riscontrato a lungo un grande successo, superiore a quello degli stessi capolavori verghiani, a causa della materia romantica e della forma epistolare, che consente all'autore ampie effusioni liriche e sentimentali ben lontane dallo stile delle sue opere più mature. Nel 1906 risultavano vendute circa ventimila copie di questo romanzo, a fronte delle sole cinquemila de I Malavoglia.
Il successo del romanzo è testimoniato anche dalle numerose trasposizioni cinematografiche:
- La storia di una capinera, regia di Giuseppe Sterni (1917)
- La storia di una capinera, regia di Gennaro Righelli (1943)
- Storia di una capinera, regia di Franco Zeffirelli (1993)
Note | |
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Bibliografia | |
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