I promessi sposi

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I promessi sposi
A.Manzoni FrontespizioPromessiSposi 1840.jpg
I promessi sposi con in appendice Storia della colonna infame (1840), Illustrazione del frontespizio con Lucia, assalita da ogni genere di violenza, viene protetta da un angelo
Sigla biblica
Titolo originale
Altri titoli
Nazione bandiera Italia
Lingua originale Italiano
Traduzione
Ambito culturale
Autore Alessandro Manzoni
Note sull'autore
Pseudonimo
Serie
Collana
Editore
Datazione 1827 - 1842
Datazione italiana
Luogo edizione
Numero di pagine
Genere Romanzo storico
Ambientazione
Ambientazione Geografica
Ambientazione Storica XVII secolo

Personaggi principali:

Titoli dei racconti
Della serie {{{Serie}}}
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Adattamento teatrale
Adattamento televisivo
Adattamento cinematografico
Note
Premi:
Collegamenti esterni:
ID ISBN

I promessi sposi è un romanzo storico, capolavoro di Alessandro Manzoni, al quale lavorò con redazioni intermedie tra il 1821 e 1842. È ambientato nella Lombardia del 1600 e narra le peripezie degli innamorati Renzo e Lucia, i promessi sposi del titolo, impediti nel loro matrimonio dal signorotto spagnolo don Rodrigo, fino al lieto fine.

Stesura

Il testo ebbe due stesure intermedie e impegnò Manzoni per un ampio arco di tempo. La prima versione, titolata Fermo e Lucia, fu composta tra il 1821-1823 ma pubblicata in quattro volumi solo nel 1915, col titolo Gli sposi promessi.

La seconda versione fu iniziata nel 1824 e pubblicata nel 1827 (dunque detta "ventisettana"), in tre volumi, dal titolo completo I promessi sposi. Storia milanese del XVII secolo scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni.

La terza e definitiva versione, rivista linguisticamente (la proverbiale "risciaquatura in Arno"), fu pubblicata a dispense tra 1840 e 1842 (cosiddetta "quarantana"). Rispetto alla prima versione, quella definitiva è segnata in particolare (oltre che dalla revisione linguistica) dalla soppressione o riduzione di alcuni episodi (p.es. la monaca di Monza, la vita dell'innominato, gli untori).

Genere letterario e scopo

La scelta di Manzoni di comporre un esteso romanzo storico non era banale nell'Italia del primo '800. Il romanzo moderno, con elementi di fantasia mescolati a elementi realistici e quotidiani, era diventato popolare in Europa a partire dal '700, ma in Italia tardò ad attecchire data la popolarità di poemi cavallereschi e novelle.

Il genere del romanzo storico era così inteso da Manzoni: "Una rappresentazione di uno stato dato della società per mezzo di fatti e caratteri [inventati] così somiglianti alla realtà, che li si possa credere appartenenti ad una storia vera or ora scoperta".[1] Si tratta dunque di una composizione dove storia e poesia si intrecciano, accomunate dalla verosimiglianza storica. L'interesse romantico di Manzoni si manifesta nella convinzione che la letteratura "debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo".[2] Inoltre la letteratura "deve scoprire ed esprimere il vero storico e il vero morale, non solo come fine, ma come più ampia e perpetua sorgente del bello",[2] perseguendo dunque nel contempo il vero, il buono e il bello.

Sul piano più propriamente morale e religioso, nell'opera vi possono essere richiami al pessimismo storico di calvinismo e giansenismo, che raffigurano l'umanità dominata dal male e dal peccato (guerre, malattie, ingiustizie, soprusi), incapace di salvarsi senza l'intervento della Grazia che Dio rivolge a pochi eletti. Tuttavia Manzoni (che non aderì pienamente al giansenismo, per quanto importante nella sua conversione) presenta anche un'interpretazione attiva del cristianesimo, col primato della responsabilità individuale (nel bene e nel male) e la convinzione che l'agire evangelico ha effetti positivi nella corrotta realtà umana (p.es. la morale di fra Cristoforo, la carità di Borromeo, la pietà dei cappuccini tra gli appestati).

Oltre alla paziente accettazione dei mali del mondo e all'attivo adempimento del bene che si può fare, citando le stesse parole di conclusione del romanzo, il "sugo di tutta la storia" va trovato nella necessità dell'affidamento alla Provvidenza divina:

« Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani e che quando vengono, o per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, ci è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. »

Fonti storiche

Nella ricerca della verosimiglianza del romanzo, Manzoni ha compiuto approfondite ricerche per rappresentare la Lombardia di due secoli precedente.

Il lavoro di ricerca di Manzoni si è basato principalmente su queste fonti storiche:

  • Giuseppe Ripamonti, De peste, 1640;
  • Giuseppe Ripamonti, Historia Patriae, 1641-1643;
  • Melchiorre Gioia, Sul commercio dei commestibili e caro prezzo del vitto, 1802. In essa è contenuto il testo delle "gride" contro i bravi, e la grida "Contro chi minaccia un parroco perché non faccia un matrimonio" fornì lo spunto occasionale al romanzo;
  • Francesco Rivola, Vita di Federigo Borromeo, 1666;
  • Pietro Verri, Storia di Milano, 1825.

Ambientazione

Il risultato della ricerca di Manzoni è un'accurata cornice formata da persone (p.es. il cardinale Borromeo) ed eventi (p.es. dominio spagnolo a Milano, guerra del Monferrato, tumulto di san Martino, peste del 1630) realmente storici, nella quale si muovono personaggi ispirati a figure reali (fra Cristoforo, Cristoforo Picenardi da Cremona; la monaca di Monza, Marianna de Leyva; l'innominato, Francesco Bernardino Visconti) e i protagonisti popolani, frutto della fantasia dell'autore.

Gli eventi narrati si sviluppano tra il 7 novembre 1628 e il novembre del 1630. Sono ambientati nei dintorni di Lecco (Olate o Acquate sono indicati tradizionalmente come il paese dei promessi sposi, taciuto nel romanzo) e Milano, all'epoca dominio spagnolo, e in misura minore nel bergamasco, all'epoca nella repubblica di Venezia.

L'ambientazione nel milanese sotto il dominio spagnolo aveva un importante paragone con l'Italia risorgimentale del Manzoni, che si trovava sotto il dominio austriaco.

Struttura

Una possibile struttura narrativa soggiacente alla trama, esposta da Italo Calvino (1973),[3] vede la compartecipazione di tre triangoli di rapporti di forza:

  • potere sociale, don Rodrigo; falso potere spirituale, don Abbondio; vero potere spirituale, fra Cristoforo;
  • potere sociale, Innominato; falso potere spirituale, monaca di Monza; vero potere spirituale, cardinal Borromeo;
  • guerra, carestia, peste.

Inoltre una possibile ripartizione degli 1+38 capitoli del romanzo è la seguente:

  • 0. Introduzione.
  • 1-8. Presentazione dei promessi sposi Renzo e Lucia, impedimento al matrimonio da parte dei bravi di don Rodrigo, fuga dal paese.
  • 9-27. Renzo si rifugia a Milano e poi nel bergamasco, Lucia presso il convento di Monza, da dove è rapita e liberata dall'innominato.
  • 28-32. Descrizione della guerra e della peste.
  • 33-38. Riunione dei personaggi principali nella Milano appestata, morte di don Rodrigo e fra Cristoforo, matrimonio.

Sintesi dei capitoli

Introduzione. L'autore dichiara di aver trovato un manoscritto del '600 di un anonimo autore lombardo con un resoconto molto bello e lo ripropone al pubblico (artificio di Manzoni per accrescere la verosimiglianza storica della vicenda).

Don Abbondio e i bravi.

1. Nell'ameno paesaggio del ramo di Como, la sera del 7 novembre 1628, mentre passeggia recitando il breviario il parroco don Abbondio incontra due "bravi", cioè loschi sgherri a servizio di qualche signorotto, i quali molte "gride" del governo spagnolo non erano riusciti ad estirpare. Circa il matrimonio previsto per l'indomani tra Renzo e Lucia, lo intimano che "questo matrimonio non s'ha da fare, nè ora nè mai". Don Abbondio acconsente, dato che "non era nato con un cuor di leone", consapevole di essere "un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro", pronto a stare nella retroguardia del più forte, ma pronto a sfogarsi con persone incapaci di far male. Tornato a casa si sfoga con la curiosa domestica Perpetua (nome poi diventato per antonomasia sinonimo di domestica dei preti) e le racconta l'accaduto. Lei consiglia di rivolgersi al vescovo Federico Borromeo, ma lui rifiuta temendo ripercussioni.

2. La sera il pavido don Abbondio "si rivoltava nel letto" non riuscendo a dormire. Al mattino Renzo, ventenne tessitore di seta, si reca da lui per definire il matrimonio, ma il curato impone di rimandare il matrimonio lamentando malessere, elencando poi in latino gli impedimenti dirimenti al matrimonio. Il giovane ribatte: "Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?", ma viene invitato a pazientare una settimana. Uscito Renzo incontra Perpetua che difende il parroco, e pur non raccontando nulla afferma: "C'è bene a questo mondo de' birboni, de' prepotenti, degli uomini senza amor di Dio". Renzo torna stizzito da don Abbondio che si lascia scappare il nome di don Rodrigo e si dà malato. Renzo si reca da Lucia annunciando il rinvio della cerimonia e chiede chiarimenti.

3. Lucia racconta a Renzo e la madre Agnese alcuni inutili approcci tentati da don Rodrigo nei suoi confronti, dettati non da amore ma da passione e spirito di scommessa (col cugino conte Attilio), provocando l'ira di Renzo ("questa è l'ultima che fa quell'assassino") e di rimando l'invito alla pazienza di Lucia ("il Signore c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti se facciam del male?"). Agnese invita Renzo a recarsi a Lecco dall'avvocato Azzeccagarbugli al quale racconta la situazione, e l'avvocato (credendo sia Renzo il colpevole) spiega la penalità della cosa, precisando che "a saper maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente". Quando Renzo precisa che è don Rodrigo il prepotente, l'avvocato lo caccia malamente ("me ne lavo le mani"). Intanto Agnese e Lucia ricevono la visita del cappuccino fra Galdino per la questua. Lamenta la scarsa resa per l'annata magra e racconta del miracolo delle noci in Romagna (non altrimenti attestato), con ricompensa per la generosità di un donatore, la quale si riversa sui bisognosi ("noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi"). Lucia gli offre molte noci dicendogli di riferire al suo confessore fra Cristoforo di contattarla. Questo era un "uomo di molta autorità", capace come i cappuccini "di servir gl'infimi, ed esser servito da' potenti". Partito fra Galdino torna Renzo, aggiorna le donne sull'inutilità dell'avvocato e viene consigliato a pace, pazienza e prudenza e aggiornato sull'imminente intervento di fra Cristoforo. Risponde che "in ogni caso [...] a questo mondo c'è giustizia finalmente [cioè alla fine]", e se ne va col cuore in tempesta.

4. "E chi era questo padre Cristoforo?". Lodovico, figlio di un mercante di *** (Cremona nella prima edizione del Fermo e Lucia), era un giovane ozioso "e s'era dato a viver da signore". Con indole "onesta insieme e violenta", "sentiva un orrore spontaneo e sincero per l'angherie e per i soprusi", ed era "protettor degli oppressi e un vendicator de' torti". Un giorno Lodovico passeggia col servo Cristoforo e incontra un tale aristocratico arrogante col quale disputa per "dar passo" (spostarsi per lasciare passare l'altro), e dopo un puerile battibecco ("nel mezzo vile meccanico", "voi mentite ch'io sia vile", "tu menti ch'io abbia mentito") e venuti alle armi il servo Cristoforo difende il padrone, è ucciso dal prepotente, che è ucciso da Lodovico. La folla accorsa e compiacente ("ha ucciso un birbone superbo") invita Lodovico a riparare presso i cappuccini (diritto d'asilo). Poi Lodovico con sincero dolore e pentimento matura la vocazione cappuccina, pronto alla richiesta di scuse con la famiglia del morto. In una cerimonia pubblica e solenne la famiglia del morto, pronta ad umiliare Lodovico, è spiazzata dalla sua sincera umiltà ("certo, certo, io le perdono di cuore", "quasi quasi gli chiedevo scusa io"), ripiena della gioia serena del perdono e della benevolenza, donando a Lodovico il pane del perdono. Per la sua tempra a Lodovico - fra Cristoforo furono poi assegnati compiti per "accomodar le differenze e proteggere gli oppressi".

5. Nella casa di Agnese giunge fra Cristoforo che informato decide di affrontare don Rodrigo, invitando il focoso Renzo alla pazienza ("a metter fuori le unghie, il debole che ci guadagna?"). Si reca al palazzotto di don Rodrigo dove lo trova a banchetto (con anche l'avvocato suo protetto Azzeccagarbugli, e si comprende il suo brusco trattamento a Renzo), dove si discute della guerra franco-spagnola per Mantova e sono (ingiustamente) accusati i fornai come causa della carestia.

6. In un colloquio privato fra Cristoforo chiede a don Rodrigo giustizia e libertà per Lucia, e l'opposizione del signorotto ("quando mi viene lo schiribizzo di sentire una predica so benissimo andare in chiesa") causa la solenne e ferma minaccia del frate: "Verrà un giorno...", immediatamente interrotta da Rodrigo. Cristoforo cacciato viene avvicinato da un vecchio servitore che si offre di aiutarlo. Intanto Agnese propone a Renzo e Lucia di presentarsi furtivamente con testimoni da don Abbondio e dichiararsi sposi, per ottenere un matrimonio valido (nel matrimonio cattolico i ministri sono gli sposi, col ministro ratificatore). Renzo si accorda col compaesano Tonio per presentarsi al parroco per la restituzione di un debito, con l'intento di approfittarne per la congiunta dichiarazione matrimoniale.

Agnese e Lucia dissuadono Renzo dalla vendetta.

7. Fra Cristoforo racconta a Renzo, Lucia e Agnese l'infruttuoso incontro con don Rodrigo. Invita inutilmente Renzo alla pazienza e parte. Renzo vuol uccidere don Rodrigo ("è di carne e ossa anche lui [...] La farò io, la giustizia, io!") e Lucia terrorizzata acconsente al matrimonio a sorpresa. L'indomani mattina un bravo vestito da mendicante, il Griso, fa un sopralluogo nella casa di Agnese, avendo deciso don Rodrigo di rapire Lucia. Il vecchio servitore decide di avvisare fra Cristoforo. Intanto all'osteria Renzo si accorda con Tonio per il matrimonio a sorpresa, e a sera si recano dal curato.

8. Mentre don Abbondio è occupato a leggere ("Carneade! Chi era costui?") Tonio e Gervaso si presentano a lui per risarcire un debito e sono accolti dal curato. Renzo e Lucia appaiono di fronte a lui, il primo la dichiara sua moglie ma lei viene interrotta da don Abbondio, che sembrava una vittima mentre era lui che faceva un sopruso ("Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo"). Il curato avvisa il campanaro di suonare per il pericolo, e nel frattempo i bravi in casa di Lucia, trovata vuota, sono sorpresi dal ragazzo Menico inviato da fra Cristoforo per avvisare le donne del tentativo di rapimento. Il paese accorre presso don Abbondio che li rimanda, poi si dirigono alla casa di Lucia dove son stati avvistati i bravi. In una massa confusa, i primi rallentano, gli ultimi spingono. Nella casa vuota la folla si disperde. Renzo, Lucia e Agnese si recano al convento di fra Cristoforo a Pescarenico. Un frate sconsiglia l'ingresso di donne nel convento di notte ma Cristoforo ribatte Omia munda mundis (Tt 1,15 , "tutte le cose sono pure per i puri"). Cristoforo invia le donne a Monza e Renzo a Milano. Traghettano assieme il lago con mestizia ("Addio, monti").

9. Sbarcati sono accompagnati a Monza gratuitamente (il conduttore, "al pari del barcaiolo, aveva in mira un'altra ricompensa, più lontana, ma più abbondante"). Al convento Renzo parte per Milano, e il padre guardiano dirige le donne al monastero della signora che le accoglie. Lucia le racconta la sua storia. E per "la storia antecedente di questa infelice", Gertrude era figlia di un principe milanese di origini spagnole che aveva monacato tutti i cadetti per lasciare l'eredità al primogenito, per cui la sua condizione monacale era già irrevocabilmente stabilita da prima della nascita. Dai sei anni fu istruita nel monastero per istradarla e trattata con rispetto ("la signorina"). Invidiosa della libertà delle compagne, chiese al padre di non essere monaca e "di non dire un altro sì". Nel mese che per prassi doveva trascorrere fuori dal monastero prima dei voti, fu trattata dai parenti come una rea, ma un paggio le portava rispetto. Gli scrisse un biglietto trovato da una cameriera che lo portò al padre. Gertrude rimase "col batticuore, con la vergogna, col rimorso, col terrore dell'avvenire", fino a pensare il monastero come un "rifugio tranquillo e onorevole".

10. Gertrude comunica al padre la decisione di farsi monaca, nella contentezza dei parenti ("fu l'idolo, il trastullo, la vittima"). Fa richiesta alla madre superiora e ha un colloquio con un vicario per sincerare la libertà della scelta, fino alla professione, "e fu monaca per sempre". Fu dapprima maestra delle educande, "e faceva loro scontare anticipatamente i piaceri che avrebber goduti un giorno". Un tale Egidio "un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose", e iniziano una relazione. Una conversa si lasciò scappare con la signora che sapeva, e sparì. Creduta fuggita, era invece stata sepolta vicino. Questo un anno prima dell'incontro tra Lucia e la signora.

11. Il Griso riferisce a don Rodrigo del mancato rapimento e questo pensa sia opera di fra Cristoforo. Gli arriva la voce della fuga dei tre e del loro rifugio. Renzo intanto va a Milano col cuore ribollente ("in quel viaggio, ebbe ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte"). Entra e in città e vede per terra farina e pani ("che sia il paese di cuccagna questo?"). Capisce di essere in una città in disordine (tumulto di san Martino, 11 novembre 1628). Non c'è il cappuccino che deve accoglierlo e va a vedere la confusione.

12. Quell'anno c'era stata una messe scarsa, anche causa la guerra (per la successione di Mantova). La penuria causò rincaro dei prezzi. Il popolo incolpò fornai e ricettatori di grano. Il gran cancelliere Ferrer impose un calmiere, poi una giunta, data l'effettiva penuria, stabilì un rincaro. Quel giorno la folla assalì un garzone col pane, poi il forno delle grucce. Saccheggiano il pane e il negozio, e Renzo assiste riprovando ("se concian così tutti i forni, dove voglion fare il pane? Ne' pozzi?"). Quindi si recano al forno Cordusio ma, essendo sprangato e difeso, la folla titubante non lo assale. Si dirigono alla casa del vicario di provvigione.

13. La folla assedia la casa del vicario con propositi omicidi ma Renzo interviene a sua difesa ("vogliam noi rubare il mestiere al boia? assassinare un cristiano?") e viene scambiato per spia. Sopraggiunge in carrozza Ferrer, amato dalla folla ("miscuglio accidentale di uomini [...] pronti alla ferocia e alla misericordia") per il calmiere del pane. Si fa largo (al cocchiere: "Pedro, adelante, con juicio") e trae in salvo il vicario con la promessa alla folla di una condanna ("sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione").

14. La folla si disperde. In un crocchio Renzo esorta all'applicazione della giustizia mostrando sfiducia nella sua effettiva applicazione pratica da parte di "dottori, scribi e farisei". Al termine uno sconosciuto (uno sbirro) lo vuol portare a dormire (in prigione) ma Renzo si ferma prima, alla luna piena. Qui beve vino e si rifiuta di registrarsi all'oste, continuando a elogiare la giustizia e condannando l'inefficacia delle leggi.

15. L'oste accompagna a letto Renzo ubriaco, quindi malvolentieri va al palazzo di giustizia per denunciarlo. L'indomani Renzo viene svegliato da tre armati che l'arrestano. Lo esortano a camminare tranquillo e sarà presto libero, "però di tante belle parole Renzo non ne credette una". Per strada con la gente ancora agitata grida: "Mi menano in prigione, perché ieri ho gridato: pane e giustizia". La folla si accalca e Renzo scappa.

16. "Scappa, scappa, galantuomo". Decide di andare nel bergamasco da suo cugino Bortolo. Fuori Milano si ferma in un'osteria (dove non beve vino), quindi a Gorgonzola. Qui un mercante da Milano descrive il tumulto: preparato in anticipo, istigato dai francesi, finito per una processione religiosa e un nuovo calmiere del pane. Hanno impiccato 4 capi ma uno è fuggito aiutato da manigoldi (e Renzo vi si riconosce).

17. Renzo prosegue il cammino biasimando il suo comportamento ("e imparate a parlare un'altra volta, principalmente quando si tratta del prossimo"), passa la notte e traghetta l'Adda ("Viva san Marco!", essendo Bergamo dominio veneziano). Giunto al paese del cugino Bartolo gli racconta la sua storia, e Bartolo tra l'altro descrive l'acquisto di grano dai turchi nel veneziano, vs. le infruttuose manovre economiche degli spagnoli nel milanese. Chiede aiuto al cugino per il sostentamento che acconsente ("Dio m'ha dato del bene, perché faccia del bene").

18. Al paese arriva la notizia del mandato di arresto per Renzo tra l'incredulità dei compaesani, tra i quali è conosciuto come "bravo giovine". Don Rodrigo se ne rallegra. Intanto Lucia nel monastero di Monza si attira le simpatie di Gertrude ("a questa fo del bene"), e Agnese torna a casa. Attilio va a parlare col conte zio, membro di una consulta di consiglieri del governatore. Presenta lo scontro tra don Rogrigo ("il torto non è dalla parte di mio cugino") e fra Cristoforo, assassino fattosi frate per scampare la forca, mettendolo in cattiva luce con frasi allusive (protegge "una contadinotta di là, e ha per questa creatura una carità, una carità... non dico pelosa, ma una carità molto gelosa, sospettosa, permalosa") e suggerisce "di far cambiare aria al frate".

19. Il conte zio invita a pranzo il padre provinciale ("due potestà, due canizie, due esperienze consumate") e gli parla dello scontro tra fra Cristoforo ("l'abito non fa il monaco") e il nipote don Rodrigo. Il padre dopo un'iniziale sospettosa prudenza ("quando un povero frate è preso a noia da voi altri [...] subito, senza cercar se abbia torto o ragione, il superiore deve farlo sgomberare") decide di inviarlo a Rimini ("sopire, troncare"), non per punizione ma per prudenza ("abbiam spento una favilla che poteva destare un grand'incendio"). Intanto don Rodrigo decide di ricorrere a "un terribile uomo" (l'innominato, Francesco Bernardino Visconti) per rapire Lucia da Monza.

20. Don Rodrigo va dall'innominato e gli chiede aiuto per rapire Lucia. Questo dà la sua parola ma poco dopo "si trovò non dirò pentito, ma indispettito d'averla data. Già da qualche tempo cominciava a provare, se non un rimorso, una cert'uggia delle sue scelleratezze". Pensando alla morte, a Dio, al giudizio, gli pareva di sentire la voce "Io (ci) sono però". Comunque manda il bravo Nibbio a parlare con Egidio (seduttore di Gertrude) che convince la monaca, pur con dispiacere, a consegnare Lucia. La invia al convento dei cappuccini e per la strada due bravi la rapiscono in una carrozza, e Lucia sviene. Viene portata al castello e l'innominato si turba ancora di più. Pensa di inviarla subito da don Rodrigo, "ma un no imperioso che risonò nella sua mente fece svanire quel disegno". Invia una vecchia donna a consolare Lucia.

21. Poi l'innominato si reca da Lucia e lo supplica di rilasciarla ("Dio perdona tante cose per un'opera di misericordia!", cf. 1Pt 4,8 ). Lui se ne va ancora più turbato. Lei fa voto alla Madonna di rimanere vergine. La notte "nel letto duro duro" l'innominato è scosso. Pensa a spararsi. All'alba sente uno scampanio.

22. Viene riferito all'innominato che la gente è in festa per la visita pastorale del cardinal Federigo Borromeo. "Perché non vado anch'io?". Si reca a lui da solo. Il cardinal Borromeo, nato nel 1564, maturò la vocazione a insegnar la dottrina cristiana e soccorrere gli infermi. Ebbe una tavola frugale e un vestiario povero. Scansava le dignità ecclesiastiche e rifiutò dapprima il vescovado di Milano, poi impostogli. Era semplice e pulito "in quell'età sudicia e sfarzosa". Fondò la biblioteca ambrosiana dove tutti potevano consultare i libri ("allora non era così"). Diede la dote a una giovane per evitare la monacazione forzata. Accarezzava amorevolmente i poveri fanciulli "troppo sudici e stomacosi". Aderì però a errori del tempo come la credenza in streghe e untori.

Incontro tra Federigo e l'innominato.

23. Federigo incontra l'innominato ("ho l'inferno nel cuore") che scoppia a piangere. Federigo lo esorta a riparare i torti e sollevare gli afflitti. L'innominato racconta del rapimento di Lucia e il cardinale chiama don Abbondio, che con gli altri parroci partecipava alla visita. Lo esorta a recarsi con l'innominato al castello per prelevare Lucia. Il curate parte impaurito, maledicente in cuor suo don Rodrigo, il cardinale e Lucia ("Dante non istava peggio nel mezzo di Malebolge").

24. Nel castello Lucia incontra don Abbondio e l'innominato che era diventato buono. Lucia viene accompagnata a casa di un sarto in attesa della madre Agnese. Il cardinale si reca a trovare Lucia, e Agnese racconta l'accaduto e la pavidità di don Abbondio. Intercedono per Renzo fuggiasco ("i poveri ci vuol poco a farli comparire birboni"). Intanto l'innominato comunica ai bravi l'intenzione di cambiare vita, "e quella voce, annunziando che la volontà era mutata, non dava punto indizio che fosse indebolita".

25. Si diffonde la notizia della conversione dell'innominato, e don Rodrigo fugge dal suo castello. Lucia rimane un po' in casa del sarto, poi si offrono di ospitarla i due nobili don Ferrante e donna Prassede, la quale ha intenzione di correggere la popolana. Intanto il cardinale si reca in visita al paese e incontra don Abbondio, rimproverandolo per non aver sposato i due giovani. Il curato si difende esponendo le minacce ricevute ("il coraggio, uno non se lo può dare").

26. Don Abbondio rimane senza parole. Intanto Lucia rivela alla madre il voto di verginità fatto alla Madonna e vuole avvisare Renzo che non può sposarsi. Intanto nel bergamasco Renzo aveva preso il nome di Antonio Rivolta ("quando si chiamava: Antonio! le più volte non rispondeva").

27. Proseguiva la guerra per la successione di Mantova e del Monferrato, che vedeva Francia, Venezia e Papato contrapposti a Spagna e Impero. Intanto Lucia era continuamente esortata da donna Prassede a dimenticare Renzo, con la stessa passione con la quale si immischiava nella vita delle 5 figlie ("era una guerra, anzi cinque guerre"). Don Ferrante invece era "uomo di studio, non gli piaceva nè di comandare nè d'ubbidire".

28. A Milano dopo il tumulto c'era abbondanza di pane: "La moltitudine aveva voluto far nascere l'abbondanza col saccheggio e con l'incendio; il governo voleva mantenerla con la galera e con la corda". Poi però la carestia si fece sentire. Il cardinal Borromeo distribuiva cibo ai poveri. La situazione era peggiore di prima del tumulto ma curiosamente non c'era aria di rivolta ("noi uomini siam in generale fatti così: ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi"). In primavera vennero raccolti nel lazzaretto affamati e accattoni. Col nuovo raccolto finì la carestia. Ma iniziò la calata dei lanzichenecchi, mercenari tedeschi diretti a Mantova, che saccheggiavano i territori attraversati.

29. Nel paese la gente è in preda al panico per l'imminente passaggio dei soldati, e don Abbondio chiede aiuto inascoltato. Agnese propone di recarsi al castello dell'innominato e partono, col curato che abbandona la chiesa ("al popolo tocca a custodirla, che serve a lui"). L'innominato accoglie molti profughi.

30. Don Abbondio, Perpetua e Agnese rimangono al castello protetti dai bravi armati "condotti da un uomo senz'armi". A don Abbondio "la paura gli teneva compagnia". Passati i soldati i tre ripartono, ultimi ad andarsene. Al paese vedono i saccheggi operati.

31. I lanzichenecchi portarono nel milanese la peste. I primi casi (da novembre 1629) vennero trascurati dal popolo e dai medici, poi (marzo 1630) l'evidenza del contagio spinse a parlare di "febbri pestilenti" ("miserabile transazione, anzi trufferia di parole"). Nel lazzaretto i cappuccini prestavano servizio guidati da padre Felice Casati: "I suoi confratelli ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza". La gente vedeva la causa della peste in "arti venefiche, operazioni diaboliche, gente congiurata a sparger la peste" al soldo dei francesi. Fu vista una "sudiceria giallognola" sulle porte. Tuttavia "non si trovò reo nessuno: le menti erano ancora capaci di dubitare, d'esaminare, d'intendere".

32. I decurioni chiesero al cardinale una processione solenne, ma Federigo rifiutò per non agevolare untori o comunque il contagio. La credenza negli untori c'era perché è più facile "attribuire i mali a una perversità umana, contro cui [la collera] possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi". In una chiesa un vecchio che spolverava una panca fu scambiato per untore e percosso a morte. Borromeo acconsentì infine alla processione e dopo le morti crebbero. All'apice dell'epidemia c'erano 1.200-1.500 morti al giorno. Ci fu sempre carità, in particolare tra gli ecclesiastici: morirono otto noni dei parroci. Anche Borromeo soccorse gli appestati, uscendone infine illeso. Per i monatti la peste era "un regno, una festa". Si moltiplicano dicerie e supposizioni sulla peste (p.es. a uno il demonio in carrozza offre denaro per ungere): "il buon senso c'era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune".

33. Don Rodrigo è a Milano col bravo Griso e una sera si sente male. Si sogna in una chiesa accerchiato da appestati, con fra Cristoforo sul pulpito. Si sveglia e vede un bubbone. Invia il Griso da un medico ma torna con due monatti che lo portano al lazzaretto. L'indomani il Griso muore prima di arrivare al lazzaretto. Intanto Renzo nel bergamasco aveva preso la peste guarendo. Torna al suo paese e incontra don Abbondio che gli dice che Lucia è a Milano da don Ferrante.

34. Renzo entra nell'appestata Milano, chiede indicazioni a uno che lo scaccia scambiandolo per untore. Vede un carro con cadaveri, "come un gruppo di serpi", e una donna che consegna ai monatti la morta figlia Cecilia. Arriva alla casa di don Ferrante e una serva spiccia gli dice che Lucia è al lazzaretto. Insiste a chiedere informazioni ma viene ancora scambiato per untore ("dagli all'untore!"), e fugge salendo su un carro di sprezzanti monatti ("viva la morìa, e muoia la marmaglia!"), arrivando infine al lazzaretto dove vede uno fuggire a cavallo per poi cadere (nella prima edizione del Fermo e Lucia era don Rodrigo).

35. Nel lazzaretto, "dove pioveva un calore morto e pesante", ci sono 16.000 appestati. I bambini orfani sono poppati da capre che accorrono ai vagiti. Renzo incontra fra Cristoforo visibilmente ammalato, giunto a Milano da Rimini per servire gli appestati. Gli chiede di Lucia, e "se la peste non ha già fatto giustizia [...] la farò io la giustizia!" (uccidendo don Rodrigo). Cristoforo rimprovera Renzo strappandogli il perdono e lo conduce da don Rodrigo appestato. Renzo senza parole prega per Rodrigo.

36. Renzo si reca poi nella chiesa centrale dove padre Felice sta conducendo fuori gli scampati, ma non vede Lucia. Vagando la trova, e lei gli racconta del voto di verginità. Cristoforo le spiega l'invalidità del voto ("voi non potevate offrirgli la volontà d'un altro, al quale v'eravate già obbligata"), e alla di lei richiesta Cristoforo scioglie il voto benedicendoli ("amatevi come compagni di viaggio").

37. Inizia una forte piogga ("quell'acqua portava via il contagio"). Lucia rimane ad assistere una mercantessa malata, Renzo torna al suo paese, poi al paese dove si è rifugiata Agnese, e dice che vuole sposarsi e trasferire nel bergamasco. Non ha paura del bando (i decreti sono "come palle di schioppo, che se non fanno colpo restano a terra"). La monaca di Monza "s'era ravveduta, s'era accusata", conducendo una vita severa. Cristoforo era morto di peste, anche donna Prassede e don Ferrante, che aveva negato fino all'ultimo l'esistenza della peste.

38. Lucia torna al paese, Renzo si reca da don Abbondio per il matrimonio che tergiversa ancora, e appurata la morte di don Rodrigo acconsente, considerando cinicamente la peste "una scopa, ha spazzato via certi soggetti che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più". La notizia lo rese loquace e brioso. Il signor marchese successore di Rodrigo era "aperto, cortese, placido, umile, dignitoso", si reca da Renzo e gli fa revocare la cattura. Renzo e Lucia si sposano e si recano nel bergamasco, dove la bellezza della leggendaria Lucia desta delusione ("una contadina come tant'altre"). "Non vi piace? Non la guardate", e Renzo diventa scortese con tutti. Renzo compra con Bortolo un filatoio e si trasferiscono, e qui Lucia viene detta "bella baggiana" (milanese). Nascono diversi figli, con la primogenita Maria.

Note
  1. Manzoni, lettera a Fauriel, 3 novembre 1821.
  2. 2,0 2,1 Manzoni, lettera Sul romanticismo a Cesare D'Azeglio, 1823.
  3. Italo Calvino. "I promessi sposi. Il romanzo dei rapporti di forza". Il Giorno, 20 maggio 1973.
Bibliografia
  • Franca Gavino Olivieri (a cura di), I Promessi Sposi, Principato, Milano 2009, ISBN 9788841619155.
Voci correlate
Collegamenti esterni
  • Testo dell'edizione definitiva del 1840 sul sito web wikisource.