Etsi causae nostre
Etsi causae nostre (Sebbene noi per un preciso dovere) è l'incipit (inizio) della lettera enciclica che l'imperatore Federico II di Svevia inviò ai sovrani e principi dell'impero romano nell'estate del 1245.
L'imperatore svevo voleva dimostrare con questa lettera enciclica la nullità della sentenza di deposizione pronunciata da Innocenzo IV il 17 luglio del 1245 contro di lui, durante il concilio di Lione (tredicesimo della serie degli ecumenici) Al Concilio presero parte tre patriarchi, circa centocinquanta vescovi, nonché esponenti del mondo monastico e laici, fra i quali l'imperatore latino di Costantinopoli, Roberto di Courtenay, e Taddeo da Sessa, legato di Federico II. In maggioranza i vescovi erano francesi, spagnoli, inglesi e italiani. Assenti i siciliani e i tedeschi per timore dell'imperatore.
"Sebbene noi per un preciso dovere della nostra cattolica fede in modo del tutto manifesto riconosciamo nel Vescovo della sacrosanta Romana Sede la pienezza del potere nelle cose spirituali, anche se egli, che mai avvenga, fosse peccatore, e che ciò che avrà legato in terra sarà legato nei cieli, e ciò che avrà sciolto, sarà sciolto, in nessun luogo però si legge che gli sia stato concesso con legge divina od umana che possa trasferire, a proprio arbitrio, gli imperi, o che possa giudicare nelle cose temporali i re o i principi, punendoli con la privazione dei regni e delle terre. Sebbene per diritto e secondo l'uso antico appartenga a lui la nostra consacrazione, non gli spetta la privazione o rimozione come non appartiene agli altri prelati dei regni che secondo l'uso consacrano e ungono i propri sovrani. [...]
Appare nondimeno troppo animosa ed esagerata la sentenza per la severità della pena inflitta: in virtù di essa l'imperatore romano, governatore dell'Impero e sovrano, è condannato per delitto di lesa maestà, e così in modo ridicolo si assoggetta alla legge colui che è esente da tutte le leggi per la dignità imperiale; non è in potere dell'uomo ma di Dio infliggergli delle pene temporali, perché non ha nessun uomo a sé superiore.
Le pene poi spirituali, quali penitenze sacerdotali, quando ci verranno imposte non solo dal Sommo Pontefice, che nelle cose spirituali riconosciamo come nostro padre e signore se però lui ci considera per la dovuta relazione come figlio, ma anche da qualsiasi sacerdote, sia per il disprezzo delle chiavi sia per gli altri peccati dell'umana conversazione, le accetteremo con reverenza e le osserveremo devotamente.
Da tutto ciò appare manifesto che piuttosto ignominiosamente che giustamente ci ha giudicato come sospetti della fede cattolica, che noi, teste il Sommo Giudice, fermamente crediamo e semplicemente confessiamo in tutti e singoli i suoi articoli secondo la disciplina della Chiesa universale e secondo il simbolo approvato dalla Chiesa Romana. Consideri quindi la tua saggezza se debba osservarsi la predetta sentenza, nulla in forza dello stesso diritto, nulla per difetto di procedura, dannosa non solo per noi, ma anche per tutti i re e prìncipi e per qualsiasi altro potere temporale. Inoltre non l'hanno confermata né la presenza né il consiglio dei nostri prìncipi di Germania dai quali dipende la nostra elevazione e deposizione.
Noti pure un'altra cosa: quali conseguenze si possono aspettare da questi inizii!"
(trad. di G.B. Lo Grasso)
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