Fuga in Egitto (Annibale Carracci)
Annibale Carracci, Fuga in Egitto (1603 - 1604), olio su tela | |
Paesaggio con fuga in Egitto | |
Opera d'arte | |
Stato | Italia |
Regione | Lazio |
Regione ecclesiastica | Lazio |
Provincia | Roma |
Comune | Roma |
Diocesi | Roma |
Ubicazione specifica | Galleria Doria Pamphilj |
Uso liturgico | nessuno |
Comune di provenienza | Roma |
Luogo di provenienza | Palazzo Aldobrandini, cappella |
Oggetto | dipinto |
Soggetto | Sacra Famiglia in fuga verso l'Egitto |
Datazione | 1603 - 1604 |
Ambito culturale | |
Autore | Annibale Carracci |
Materia e tecnica | olio su tela |
Misure | h. 122 cm; l. 230 cm |
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La Fuga in Egitto è un dipinto, realizzato tra il 1603 e il 1604, ad olio su tela, da Annibale Carracci (1560 - 1609), proveniente dalla cappella del Palazzo Aldobrandini a Roma e oggi conservato presso la Galleria Doria Pamphilj di Roma.
Descrizione
Soggetto
La scena della Fuga in Egitto si svolge in uno splendido paesaggio, dove compaiono:
- Maria cammina con in braccio Gesù Bambino;
- San Giuseppe avanza con passo lento, tenendo alla cavezza un asino con cui la Sacra Famiglia è fuggita da Betlemme;
- barcaiolo allude all'episodio del guado del fiume compiuto dalla Sacra Famiglia, secondo lo pseudo-Matteo, su una barca di pescatori e con l'aiuto di un angelo.
Grande cura per i dettagli, come:
- fiume, il cui placido scorrere viene a tratti interrotto dal volo dei gabbiani;
- pastori pascolano le proprie greggi;
- contadini, sulla collina, intenti alle proprie attività agricole;
- città come tante, ma che possiede quell'aria di tranquillità ed equilibrio tipica del classicismo seicentesco.
Note stilistiche, iconografiche e iconologiche
- Il dipinto non è molto dissimile da altre opere eseguite fra il XV e XVI secolo: questo descrive un episodio del Vangelo e sullo sfondo si vede un paesaggio. Ciò che cambia decisamente è il rapporto tra i due elementi: i protagonisti del racconto diventano minuscoli, mentre s'ingrandisce, fino ad occupare la maggior parte dello spazio, il paesaggio. L'opera, si può tranquillamente definire il manifesto di quello che per oltre due secoli sarà ritenuto il "paesaggio classico" e la pietra miliare nella genesi della pittura di paesaggio che si avvia a divenire genere autonomo, proprio perché è in grado di suscitare emozioni che solo una tale visione può generare: l'insegnamento di Annibale Carracci rimarrà, infatti, un imprescindibile testo d'apprendimento col quale generazioni di pittori italiani e stranieri, da Claude Lorrain a Nicolas Poussin, da Domenichino a Gaspard Dughet e Herman van Swanevelt, dovranno confrontarsi, sia pure dialetticamente, fino alla fine del XVII secolo.
- L'opera costituisce il più tipico esempio di "paesaggio ideale", in cui ogni elemento naturale è inserito in una composizione perfettamente calibrata e bilanciata, alla ricerca dell'equilibrio formale e della bellezza idilliaca. È il paesaggio ideale per eccellenza: ogni elemento è accuratamente selezionato, ma reso in una sintesi pittorica che trascura il singolo dettaglio; la costruzione è profondamente razionale, ma genera un effetto di grande naturalezza. Il Carracci inventa un linguaggio assolutamente moderno, che guarda alla campagna romana con occhi nuovi, distante dai descrittivi ricordi di viaggio propri dei pittori fiamminghi, tanto in auge tra i collezionisti dell'epoca. Il pittore rappresenta la natura non qual è, ma quale "dovrebbe essere". E nel realizzare ciò è d'aiuto lo studio dell'effetto che ogni particolare ha sull'osservatore: allora, se ben si osserva la composizione, si comprende, che la struttura del dipinto è guidata da diagonali interconnesse, che gli edifici rappresentati non sono nitide descrizioni, ma elementi finalizzati a bilanciare. Si tratta di una vera e propria composizione scenica, in cui gli elementi ordinatori sono celati da un'inconsueta vitalità. L'illusione di profondità è affidata alla prospettiva aerea, non ci sono linee di fuga precise, è un degradare di piani che genera un effetto di libertà apparente. La nobilitazione del dato naturale propria del classicismo appare qui in tutta la sua evidenza: il paesaggio non è più quello quotidiano, ma ogni albero, fiume, montagna, è scelto tra i più splendidi: la natura appare idealizzata. Con una tale compenetrazione tra figure e ambiente l'artista realizza una formula perfetta, classica, per l'ambientazione della storia sacra. L'uomo è la misura del paesaggio; il paesaggio accompagna l'episodio sacro. I personaggi in primo piano hanno la stessa rilevanza della natura che li circonda, sono figure che vivono l'ambiente che le circonda senza esserne schiacciate e senza dominare. Il perfetto equilibrio crea l'effetto di una serena semplicità.
- La cultura di cui Annibale Carracci si nutre è quella veneta con la sua gamma di toni caldi e dorati. La luce è chiara, leggera, ma non piena perché sono le prime ore del mattino; l'atmosfera avvolgente così come gli uccelli che volano bassi, le pecore che pascolano accanto al fiume, sono lì a trasmettere un senso di risveglio della natura. Sullo sfondo la città antica nata dalla contaminazione tra diversi motivi che il pittore bolognese ebbe modo di osservare nelle campagne romane; è la Betlemme antica da cui i Magi partono per recarsi da Erode il Grande.
Notizie storico-critiche
Il dipinto appartiene ad un ciclo di lunette con paesaggi e tema religioso:
- Deposizione di Gesù Cristo nel sepolcro
- Fuga in Egitto
- Visitazione di Maria Vergine a sant'Elisabetta
- Adorazione dei pastori
- Adorazione dei Magi
- Assunzione di Maria in cielo.
Il ciclo di sei dipinti con le Storie di Maria Vergine venne commissionato dal cardinale Pietro Aldobrandini (1571 - 1621), nipote di papa Clemente VIII, ad Annibale Carracci per la cappella del suo palazzo in Via del Corso a Roma, andata distrutta dopo il 1750.
I lavori iniziati dal pittore nel 1603, furono poi ceduti a Francesco Albani suo allievo, per motivi ancora non del tutto chiariti: accanto all'ipotesi di un contrasto tra Annibale e il cardinale, per via dei servizi che ancora il pittore conduceva per i Farnese oppositori degli Aldobrandini, si è avanzata anche l'idea, forse più vicina a verità, che l'artista desse già i primi segni di quella malattia - stando alle fonti, una sorta di debilitazione psicofisica, oggi ritenuta un'arteriosclerosi cerebrale - che lo condurrà alla morte nel 1609 e comunque all'abbandono dell'attività dal 1607.
Certo è che nel 1606, anno in cui il cardinale Pietro Aldobrandini lasciava Roma a seguito di dissapori con il nuovo papa Paolo V, per tornarvi solo nel 1610, il ciclo non era stato completato: esso verrà pagato a Francesco Albani tra il 1605 e il 1613, a dimostrazione della quasi immediata uscita di scena del Carracci.
La critica riconosce in prevalenza alla mano di Annibale Carracci i disegni per l'intera serie, ma l'esecuzione effettiva soltanto di due lunette:
- Fuga in Egitto
- Deposizione di Gesù Cristo nel sepolcro.
Gli altri quattro dipinti sono stati variamente attribuiti Francesco Albani e ad altri seguaci del Carracci, tra cui Giovanni Lanfranco e Sisto Badalocchio.
Nella biografia di Annibale Carracci (1672), redatta da Giovanni Pietro Bellori (1613 - 1696), il ciclo pittorico risulta già trasferito nella villa Aldobrandini sul Quirinale[1]. Successivamente, i sei dipinti entrarono per via ereditaria nelle collezioni della famiglia Pamphilj, tramite la dote di Olimpia Aldobrandini, sposa nel 1647 di Camillo Pamphilij.
Note | |
Bibliografia | |
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