Compianto su Gesù Cristo morto (Sandro Botticelli)
Sandro Botticelli, Compianto su Gesù Cristo morto (1495 - 1500), tempera su tavola | |
Opera d'arte | |
Stato | Italia |
Regione | Lombardia |
Regione ecclesiastica | Lombardia |
Comune | Milano |
Diocesi | Milano |
Ubicazione specifica | Museo Poldi Pezzoli, salone dorato |
Uso liturgico | nessuno |
Comune di provenienza | Firenze |
Luogo di provenienza | Chiesa di Santa Maria Maggiore |
Oggetto | dipinto |
Soggetto | Compianto su Gesù Cristo morto |
Datazione | 1495 - 1500 ca. |
Ambito culturale | |
Autore |
Sandro Botticelli (Alessandro Filipepi) detto Sandro Botticelli |
Materia e tecnica | tempera su tavola |
Misure | h. 106 cm; l. 71 cm |
|
Il Compianto su Gesù Cristo morto è un dipinto eseguito tra il 1495 e il 1500, a tempera su tavola, da Alessandro Filipepi detto Sandro Botticelli (1445-1510), proveniente dalla Chiesa di Santa Maria Maggiore a Firenze e attualmente conservato nel Museo Poldi Pezzoli di Milano.
Descrizione
Soggetto
La scena del Compianto si svolge davanti al sepolcro aperto, dove compaiono:
- Gesù Cristo morto, già deposto dalla croce, il cui corpo nudo è disteso, in modo inconsueto, su un lungo lenzuolo usato come sudario.[1]
- Maria Vergine, con gli occhi chiusi, tiene sulle gambe il Figlio morto e sviene, straziata dal dolore, di fronte al suo corpo senza vita.
- San Giovanni evangelista, vestito in rosso, sorregge la Madonna, tenendole la testa e il braccio.
- Santa Maria Maddalena, inginocchiata, con un manto rosso e gli occhi chiusi, stringe affettuosamente al volto i piedi di Gesù.
- Due pie donne sono piegate dal dolore:
- a sinistra, Donna si copre il volto con le mani e un angolo del manto, per nascondere il pianto e perché incapace di sostenere la vista di quel corpo senza vita.
- a destra, Donna, regge dolcemente il volto del Cristo e vi appoggia il sudario.
- in alto, stagliato contro un fondo nero che che allude alla tomba scavata nella roccia, s'innalza, Giuseppe d'Arimatea, il quale con le mani alzate mostra gli strumenti della passione (la corona di spine e i chiodi della croce), avvolti in veli trasparenti, e rivolge lo sguardo verso l'alto, riconducendo così il senso del dramma terreno all'imperscrutabile disegno divino.
Note stilistiche, iconografiche e iconologiche
- L'opera, tra le più alte della fase tarda del Botticelli, esemplifica magistralmente la svolta stilistica che, nell'ultimo decennio del XV secolo, subisce la sua pittura in relazione soprattutto ad nuova consapevolezza religiosa suscitata in lui dalla predicazione di Girolamo Savonarola (1452-1498). Il forte richiamo del frate domenicano ad una fede più radicalmente vissuta, insieme allo smarrimento provocato nell'artista dalla morte di Lorenzo de' Medici (1449–1492), signore di Firenze e grande mecenate, avvenuta nel 1492, determinano in Botticelli uno stato di profonda inquietudine spirituale.
- La composizione si caratterizza per lo slancio verticale delle figure comprese in una piramide umana, costruita attraverso la stretta contiguità delle figure tra di loro, il cui vertice coincide con la figura di Giuseppe d'Arimatea.
- Nel dipinto, Botticelli cerca di annullare il senso dello spazio, costringendo le figure - estremamente stilizzate ed allungate con espressioni fortemente patetiche - a pose innaturali: questi sono tratti caratteristici della fase tarda dell'artista, ora inquieto e lontano dal clima delle sue allegorie e scene mitologiche, e riflessi di un'epoca di rinnovato misticismo.
- L'analisi tecnica dell'opera, realizzata alla fine del XV secolo, conferma che la tavola appartiene alla fase matura del pittore che usa toni lividi per gli incarnati, un segno meno nitido e definito, una superficie pittorica distante dai preziosismi calligrafici delle opere precedenti.
- La scena, scevra di particolari minuti, costituisce un esempio di quell'intensa, partecipata riflessione sui soggetti sacri che occuperà l'ultimo periodo della vita del pittore; il punto di vista molto avvicinato costringe l'osservatore-fedele a entrare nella stessa.
Notizie storico-critiche
La provenienza dell'opera è stata individuata dallo storico dell'arte belga, Jacques Mesnil (1872-1940), il quale appurando che la tavola di analogo soggetto, oggi conservata all'Alte Pinakothek di Monaco di Baviera,[2] era collocata nella Chiesa di San Paolino a Firenze, ha potuto identificare il dipinto milanese con la pala di un altare funerario nella Chiesa di Santa Maria Maggiore di Firenze, descritto nelle Vite da Giorgio Vasari:[3]
« | Pietà con figure piccole, allato alla cappella dei Panciatichi, molto bella. » |
L'altare era stato eretto da Antonio Cioni e fu probabilmente il figlio Donato, artista pure lui, a commissionare l'opera:[4] questi era un uomo molto impegnato nella carità e nell'assistenza in ben due confraternite, se non, forse piagnone[5] e parente dei seguaci di Girolamo Savonarola.
Nel 1629, l'altare fu demolito e il dipinto trasferito nella sacrestia, dove ancora nel 1755 lo vide il gesuita e accademico fiorentino, Giuseppe Richa (1693-1761).[6]
Da quel momento si persero le tracce dell'opera, che riapparve soltanto intorno al 1870-1875. Il 12 marzo 1879 venne acquistata e inserita nella sua collezione dal conte Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879), fondatore dell'omonimo museo, dove attualmente è esposta.
Note | |
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Bibliografia | |
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Voci correlate | |
Collegamenti esterni | |
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