Libertà religiosa nell'Islam

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La libertà religiosa nell'Islam è fortemente vincolata sotto diversi aspetti:

  • se da un lato è lasciata libera l'adesione all'Islam (basta recitare la shahada, "confesso che non c'è dio se non Allàh e Maometto è il profeta di Allàh"), i musulmani che scelgono di abbandonare l'Islam (apostasia) sono punibili con la morte;
  • i popoli non musulmani ("popolo del libro") che sono stati conquistati dall'Islam con la jihad sono liberi di scegliere tra la conversione all'Islam, la morte, la schiavitù o la condizione di dhimmi. Questa è caratterizzata da una lunga serie di limitazioni religiose e sociali (cf. Patto di Omar); prevede una protezione da parte dello stato islamico; impone ai protetti il pagamento di una tassa (jizya) che rappresenta un deterrente economico al mantenimento della fede non musulmana;
  • la protezione che lo stato islamico ha il dovere di garantire ai dhimmi, lungo i secoli è spesso venuta meno, sfociando anzi in vere e proprie persecuzioni e genocidi dei "protetti", che è verosimile siano stati anche vittime di quotidiane e continue vessazioni e violenze che non hanno lasciato traccia nella storia;
  • l'espressione delle proprie idee personali religiose è vincolata al reato di blasfemia (o bestemmia), punibile anche con la pena capitale, la cui definizione e applicazione pratica è arbitrio dei legislatori islamici.

Apostasia

Secondo alcuni versi coranici e un detto, in linea teorica, l'Islam non prevede costrizioni religiose, lasciando libera l'adesione e l'abbandono.

D'altro canto per l'apostasia (ردة, riddàh), cioè l'abbandono della fede islamica, è prevista l'ira di Dio, la dannazione eterna e, secondo diversi detti, la pena di morte.

Nonostante da musulmani moderati sia spesso citato in particolare il verso: "Non c'è costrizione nella religione" (2,256), la tradizione islamica ha inteso l'apostasia come reato capitale, e così prevedono ufficialmente le legislazioni dei paesi che adottano la sharia: Afghanistan, Arabia Saudita, Comore, Iran, Mauritania, Pakistan, Sudan e Yemen. Anche laddove però non esistono sanzioni specifiche, il sentimento popolare fondamentalista rende la vita difficile a coloro che scelgono di abbandonare l'Islam. Un sondaggio del 2010 su circa 8.000 soggetti in 7 nazioni[1] ha trovato consistenti maggioranze favorevoli alla pena di morte per coloro che abbandonano l'Islam: Giordania 86%; Egitto 84%; Pakistan 76%; Nigeria 51%; Indonesia 30%; Libano 6%; Turchia 5%.

Negli ultimi anni nel mondo sono avvenuti diversi casi di condanne di apostasia, o crimini contro ex-musulmani convertiti, che hanno avuto una certa eco in occidente (per la situazione della libertà religiosa nelle singole nazioni cf. International Religious Freedom Report del U.S. Department of State, online). Critica è in particolare la situazione in Egitto, Pakistan, Turchia, Afghanistan, Iran.

Dhimmi

Con dhimmi (ذمي‎, plurale أهل الذمة, ahl al-dhimma, "la gente della dhimma"), letteralmente "protetto" o "assicurato", si intende un non musulmano (in particolare ebreo o cristiano) che vive in un paese islamico e soggetto alla sharia (legge islamica), virtualmente libero di professare la propria fede sotto la protezione (dhimma) statale in cambio del pagamento di un'apposita tassa (جزية‎, jizya). Oltre a questo onere finanziario i "protetti" sono soggetti a numerosi altri vincoli di natura pubblica, come p.es. divieto di proselitismo e conversioni, costruzione di nuovi luoghi di culto, professione pubblica della propria fede.

Da parte islamica, il senso di questa imposta viene trovato nel fatto che la dottrina prevede il pagamento della zakat, elemosina poi standardizzata in tassa statale: i musulmani sono tenuti alla zakat, i non musulmani alla jizya. Tuttavia il fatto che la tassa per i non musulmani sia molto più elevata di quella per i musulmani (circa il doppio), assieme agli altri vincoli alla libertà religiosa, rende lo statuto del dhimmi di fatto discriminato dal punto di vista economico, oltre che religioso e sociale.

In epoca contemporanea, nei paesi che adottano la sharia, lo statuto di "protezione" è tuttora vigente quanto a discriminazione religiosa, per quanto non sia prevista la tassa aggiuntiva.

Fondamenti dottrinali

È in particolare un passo del Corano che solitamente viene citato come giustificazione allo statuto di protezione:

« Combattete coloro che non credono in Allah e nell'ultimo giorno, che non vietano quello che Allah e il suo messaggero hanno vietato, e quelli tra il popolo del libro [ebrei e cristiani] che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo [jizya] e siano soggiogati » (Corano 9,29)

La jihad dunque, doverosa per ogni musulmano, ha come obiettivo l'asservimento dei non credenti finché paghino la jizya. Una volta raggiunto lo stato di protetto la loro vita non deve essere minacciata:

« Il profeta disse: "Chi uccide un mu'ahid [uomo che sottostà al patto] non fiuterà nemmeno il profumo del paradiso, nonostante abbia un profumo che si può sentire a distanza di quarant'anni [di cammino, cioè un profumo fortissimo]" » (Al-Bukhari 9.49)

Nel Corano (cf. in particolare 2,62; 5,69; 22,17) i protetti coincidono coi "popoli del libro" (al singolare أهل الكتاب‎, ′ahl al-kitàb), cioè ebrei, cristiani e sabei, i quali erano verosimilmente una setta monoteista.

La tradizione più antica non specifica nel dettaglio la condizione dei protetti.

Precedenti normativi

Lo statuto dei dhimmi trova una prima implicita regolamentazione nella cosiddetta Costituzione di Medina (o Patto o carta di Medina).[2] In tale documento, redatto da Maometto poco tempo dopo la migrazione dalla Mecca alla città di Yathrib-Medina (ègira, 622), è regolamentata la vita della comunità (Umma) dei primi credenti nella città e i rapporti tra musulmani, politeisti ed ebrei (non sono menzionati i cristiani). Il tenore complessivo appare decisamente paritario, senza particolari accenni a limitazioni e sgravi economici. In particolare:

« 25: Gli ebrei [del clan] Banu 'Auf sono una comunità [a parte], come i credenti. Agli ebrei la loro religione, ai musulmani la loro fede [...]

37: [Nella guerra] gli ebrei devono farsi carico delle loro spese, i musulmani devono farsi carico delle loro spese. Tra loro [le due comunità] c'è aiuto [vicendevole] contro coloro che attaccano le persone di questo documento. Tra loro c'è sincera amicizia e comportamento onorevole, non c'è inganno »

Massacro degli ebrei Banu Qurayza a Medina nel 627, illustrazione del XIX sec. Maometto è rappresentato dalla fiamma in alto a destra, quella al centro è Alì.

Sembra che il clan dei Banu 'Auf sia abbia in seguito aderito al movimento islamico. Tuttavia l'armonia ideale tra ebrei e musulmani prevista dalla Costituzione si incrinò rapidamente.[3] Il clan ebraico dei Banu Qainuqa', forte di 700 uomini, è stato espulso da Medina nel 624, poco tempo dopo la costituzione della comunità musulmana nella città. Fattore scatenante all'espulsione, secondo le fonti arabe, sarebbe stata la molestia a una donna islamica da parte di un ebreo. Un secondo clan ebraico, i Banu Nadir (circa 600 persone), è stato espulso da Medina nel 625, in seguito a un'apparizione privata dell'angelo Gabriele a Maometto che lo avvertì che quegli ebrei stavano complottando la morte del profeta.[4] Nel 627 fu la volta del terzo clan ebraico di Medina, i Banu Qurayza (o Quraydha). In occasione della battaglia del fossato (627), forse memori dei destini degli altri due clan ebraici, i Qurayza non intervennero a fianco dei musulmani e anzi appoggiarono materialmente i meccani, venendo meno ai patti della Costituzione di Medina. I musulmani, usciti vittorisi dalla battaglia e dietro ispirazione di Gabriele a Maometto (Bukhari 5.443), attaccarono il clan, e dopo un assedio delle loro fortezze nella città conclusosi con la resa, uccisero tutti i maschi adulti (circa 700) e vendettero come schiavi donne e bambini. I commentatori islamici[5] evidenziano come la sorte loro riservata sia quella prescritta da Dt 20,10-15 , ma il passo biblico prescrive morte e schiavitù a coloro che non si arrendono, e l'assedio dei Qurayza si era concluso con la resa.

Un significativo precedente quanto alla dhimma e alla jizya è dato dalla conquista di Khaibar, una ricca oasi sita nei pressi di Medina abitata da ebrei (e/o arabi giudaizzanti) e conquistata dalle truppe islamiche nel 629: dopo il saccheggio dei beni dell'oasi, Maometto lasciò in vita gli abitanti che rimanevano gestori del territorio in cambio di una esosa protezione annuale pari alla metà della produzione agricola (cf. Abu-Dawud 1308). D'altro canto, pochi anni dopo, il califfo Omar (634-644) espulse non solo gli ebrei dall'oasi di Khaibar, ma ebrei e cristiani dall'intero territorio dell'Arabia occidentale (cf. Bukhari 3.531) deportandoli in Siria e Iraq, mostrando quanto fosse precaria la sicurezza dei protetti e in balia del volere dei governanti.

È il Patto di Omar che regola con chiarezza lo statuto sociale dei protetti. Una volta sconfitti i bizantini e conquistata la Palestina nel 636, il secondo califfo Omar avrebbe imposto a Sofronio, patriarca di Gerusalemme, un dettagliato elenco di norme che limitano la libertà religiosa dei cristiani. Per quanto oggi molti storici considerino il documento, che ci è pervenuto in diverse versioni, come tardivo (IX sec.) e pseudoepigrafo, è comunque una chiara indicazione delle condizioni di vita dei cristiani sotto il dominio islamico all'epoca, nonché riferimento normativo per la prassi successiva e contemporanea.

Con l'espansione militare dell'Islam la prassi portò ad ampliare il concetto di "popolo del libro", al quale può essere applicata la dhimma, fino a includere di fatto tutte le religioni strutturate: zoroastriani, mandei, induisti, sikh, buddhisti.

Condizione sociale

La studiosa ebrea Bat Ye'or[8] evidenzia come lo statuto dei dhimmi cristiani ed ebrei, sancito dal patto di Omar e da altri elementi aggiunti dalla prassi islamica, ha alcuni punti in comune col precedente statuto degli ebrei all'interno dell'impero bizantino: interdizione alle cariche statali; culto non pubblico; divieto di costruzione di nuove sinagoghe (ma permesso di ristrutturazione per quelle bizantine); divieto di critica dei cristiani da parte degli ebrei. A parte questi punti in comune però le restrizioni islamiche ai dhimmi appaiono più estese e pesanti: divieto di possesso della terra, espropriata loro dallo stato islamico al momento della conquista; obbligo di corvees; obbligo comparizione nei tribunali anche nelle festività sacre; completa invalidità della testimonianza giuridica (mentre per gli ebrei bizantini era valida la testimonianza a favore di un cristiano), che li rendeva inermi di fronte a eventuali false accuse avanzate da musulmani; restrizioni quanto ad abbigliamento, armi, possesso e distribuzione di testi sacri, nomi, ostensione di simboli religiosi. Il divieto di proselitismo e conversioni imposto dall'islam non ha paragoni per gli ebrei bizantini, data la natura etnica e non universale della religione ebraica.

Marcando la differenza tra leggi bizantine e islamiche, la studiosa conclude che il concetto di jihad, che è alla radice della condizione dei protetti, e il concetto di jizya, la tassa personale su discrimine religioso per garantirsi la protezione, "sono completamente alieni ai dogmi cristiani".

Tassa

Quanto alla jizya, la dottrina islamica prevede che ne siano oggetto i maschi adulti del popolo del libro, mentre donne e bambini ne siano esenti (cf. Al-Muwatta 17.46). È prevista inoltre un'imposta aggiuntiva sul commercio: "Se commerciano in terre musulmane, entrando o uscendo, un decimo deve essere preso da ciò che investono in questo commercio" (ib.).

Secondo un'interpretazione islamica di stampo apologeta, "essendo [i dhimmi] esentati dalla zakat (la decima), essi sono sottoposti al pagamento della «jizya» (l'imposta di protezione)".[9] In realtà tale legittimazione può apparire invalida, dato che la jizya era più elevata (circa il doppio) della zakat.[10] Inoltre è profondamente diverso il significato spirituale delle due tasse: "La zakat è imposta ai musulmani per purificarli e per sostenere i loro poveri, mentre la jizya è imposta al popolo del libro per umiliarli" (cf. Al-Muwatta 17.46)

Figli di cristiani, allontanati dalle famiglie per ricevere una formazione islamica, presentati al sultano ottomano.

Non pagare la tassa significava sottrarsi alla protezione ed esporsi alla jihad, con l'alternativa di conversione, morte o riduzione in schiavitù. Un'altra possibilità per i dhimmi insolventi era che i loro figli potevano essere venduti come schiavi. Questa prassi divenne regola nell'impero ottomano tra il XIV-XVII sec. con l'istituto del devshirme ("raccolta" in turco, popolarmente chiamata "tassa di sangue"): tra i figli di cristiani dei Balcani, uno su cinque veniva allontanato dalla famiglia ed educato alla cultura e alla fede islamica, per venire poi inseriti nell'esercito (giannizzieri) o nell'amministrazione statale.

Nell'impero ottomano la jizya rimase in vigore fino al 18 febbraio 1856 quando una riforma statale, varata sotto forte pressione delle potenze occidentali e come "ringraziamento" per l'aiuto fornito alla Turchia nella guerra di Crimea, stabilì la formale uguaglianza dei cittadini ottomani indipendentemente dal credo religioso. Nelle regioni berbere del nord-Africa, formalmente ottomane ma di fatto indipendenti, la legge rimase in vigore fino alla conquista di quei territori da parte della Francia (Algeria 1830; Tunisia 1881; Marocco 1912).

Edifici di culto

Quanto ai luoghi di culto ebrei e cristiani, il divieto di costruzione ex-novo e ristrutturazione degli edifici sancito dal patto di Omar ha avuto un'applicazione variegata.[11] Da un lato, sulla base della libera benevolenza dei governanti e dietro al pagamento di compensi, questi potevano anche arrivare a dare il permesso di ristrutturare gli edifici fatiscenti, come prescriveva il diritto bizantino circa le sinagoghe, o in rari casi i governanti potevano autorizzare la costruzione di nuovi edifici. D'altro lato, la prassi islamica si è spesso spinta oltre al patto di Omar distruggendo tutti gli edifici esistenti nei territori conquistati. Ricorrenti saccheggi e distruzioni sono accertati sotto i califfi Abd al-Malik (705-715), Marwan II (744-750), al-Mahdi (775-785), Harun al-Rashid (786-809). In particolare sotto il califfo fatimide al-Hakim (996-1021) ogni chiesa e sinagoga di Egitto, Palestina e Siria fu demolita o smantellata. La basilica del santo sepolcro, risalente al IV secolo, nell'ottobre del 1009 fu completamente razziata e distrutta, a parte alcune colonne e due muri. Fu solo nel 1048, col successivo califfo, che fu accordato il permesso di ricostruzione, a spese dell'imperatore bizantino e dietro il rilascio di prigionieri musulmani. Un ordine di completa distruzione di chiese e sinagoghe fu emanato nel 1662 anche dal gran visir ottomano Köprülü Fazıl Ahmed.

Persecuzioni

Dato che i dhimmi non potevano portare armi, per la propria sicurezza dovevano necessariamente confidare nella protezione da parte dell'autorità statale. Questa però non sempre si è dimostrata attenta al loro benessere, al contrario arrivando in molte occasioni a farsi loro persecutrice.[12][13][14] Le sistematiche ed estese persecuzioni statali contro i dhimmi fanno supporre che, lungo i secoli, i non musulmani siano stati oggetti di quotidiane, continue e striscianti violenze e soprusi "popolari", che per la loro ordinarietà non hanno lasciato traccia nei resoconti storici.

Nel 704-705 Maometto figlio di Marwan raccolse i nobili armeni nella chiesa di san Gregorio a Naxcawan e nella chiesa di Xram e li fece bruciare. Walid I (705-715) fece uccidere dei prigionieri cristiani nelle chiese della Siria, e applicò vari tipi di torture alla tribù cristiana Taghlib (Mesopotamia) per costringerla all'apostasia. Il califfo ommaiade Omar II (717-720), per facilitare l'abbandono delle loro religioni, impose che i convertiti dall'ebraismo e dal cristianesimo fossero esenti da tasse. Sotto il califfo abbaside al-Mansur (754-775) la popolazione cristiana di Marash (attuale Turchia) fu catturata e deportata a Ramla, in Palestina. Il califfo abbaside al-Mahdi (775-785) applicò la tortura per convertire la tribù cristiana dei Tanukiyya, nei pressi di Aleppo. Idris I (788-791) impose con la forza l'Islam in Marocco, cancellando le tracce delle precedenti religioni (pagana, giudea, cristiana).

In Andalusia (Spagna) si verificarono rivolte dei dhimmi, umiliati e perseguitati dalla comunità islamica, a Saragozza (781 e 881), Cordova (805 e 818), Merida (805 e 813, 828-829, 868) e Toledo (811-819).[15] La rivolta dell'818 a Cordova si concluse con la crocifissione di 300 mozarabi e l'espulsione di 20.000 famiglie. L'emiro Maometto I (852-886) obbligò i suoi funzionari a convertirsi all'Islam o ad abbandonare l'incarico. Sono venerati come "Martiri di Cordoba" 48 cristiani uccisi tra l'851-859 per presunti insulti a Maometto. Nell'891 Siviglia e il circondario furono teatro del massacro di migliaia di cristiani. Nel 1033 a Fez furono uccisi circa 5.000-6.000 maschi ebrei, con donne e bambini ridotti in schiavitù. Nel 1066 a Granada fu annientata l'intera comunità ebraica di circa 3.000-4.000 persone. La sistematica persecuzione dei sovrani almoadi ("monoteisti") nel Maghreb e in Spagna (1130-1212) eliminò la cristianità da quei territori. Nel 1159 a Tunisi i protetti ebrei e cristiani furono posti davanti all'alternativa tra conversione e morte.

Ad Antiochia nel 1058 greci ed armeni furono convertiti con la forza. A Damasco nel 1260 una sommossa contro ebrei e cristiani causò morti e saccheggi, con persone ridotte in schiavitù. Nel 1261 a Mosul (attuale Iraq) i cristiani furono saccheggiati e furono uccisi coloro che non si convertirono all'Islam. Nel 1264 al Cairo ebrei e cristiani furono minacciati di essere bruciati se non avessero pagato un forte riscatto, e un largo numero fu comunque torturato e ucciso.

In Persia i "protetti" godettero di una certa tranquillità sotto il dominio turco e mongolo (XI-XII sec.). In seguito si ebbero numerosi episodi di tumulti popolari e/o conversioni forzate (la loro ricorrenza indica l'esteriorità effimera di tali conversioni) imposte dallo stato nel 1284, 1291, 1318, 1333 e 1344. Lo scià Abbas I (1587-1629) fece deportare degli Armeni nelle zone di Isfahan e Shiraz (attuale Iran), e i loro giovani crebbero musulmani. Massacri e conversioni forzate contro i cristiani, armeni e nestoriani, si ebbero ancora nel 1617 e 1622. Tra il 1653-1666, sotto il regno di Abbas II, furono forzatamente convertiti tutti gli ebrei della Persia. Nel 1830 vennero sgozzati i circa 400 ebrei di Tabriz, e nello stesso anno furono forzatamente convertiti 2.500 ebrei a Shiraz. Nel 1839 gli ebrei di Mashhad furono massacrati e i sopravvissuti convertiti con la forza.

Nel dominio ottomano, tra il XVI-XVII secolo, per ragioni strategiche furono forzatamente convertite, sotto la minaccia di pena di morte, le regioni frontiere di Macedonia e nord Bulgaria. Nel 1860 in Libano furono uccisi dai drusi, con l'assenso del governo ottomano, circa 20.000 cristiani maroniti. A partire dal 1843 nella zona di Hakkari furono uccisi circa 10.000 armeni da parte dei curdi, con la complicità delle autorità ottomane. Massacri e conversioni forzate degli armeni si ebbero ancora nel 1894-96 con circa 90.000 vittime (massacri hamidiani). Nel 1915-16 ha avuto luogo un ennesimo sanguinoso genocidio della popolazione armena da parte del governo turco che ha causato circa 1,2-1,3 milioni di morti (con altre stime che variano tra 500.000 e 2.000.000). La popolazione cristiana assira è stata vittima di persecuzioni ottomane nel 1895 nei dintorni di Diyarbakir, con circa 7.000 vittime. Tra il 1914-1920 gli assiri sono stati vittime di un genocidio (sayfo, "spada") turco che ha causato circa 275.000 vittime. Nel 1933 in Iraq il massacro di Simele da parte del governo iracheno ha causato la morte di circa 3.000 assiri. Analogo genocidio è stato compiuto dai turchi contro la popolazione greca dell'Anatolia, con vittime stimabili tra 300-500 mila tra il 1914-23.

In India, un'analisi storico-demografica ha rilevato tra il 1000 e 1500 un declino della popolazione (da 200 milioni a 170 milioni), che lascia ipotizzare circa 80 milioni di persone uccise dalle invasioni e dalle persecuzioni islamiche.[16]

Blasfemia

La blasfemia, cioè l'insulto fattuale o verbale all'Islam, ad Allah o a Maometto, è una grave colpa prescritta dal diritto islamico. Da un lato testimonia la forte devozione dei musulmani, per i quali è impensabile e inesistente l'insulto diretto ad Allah con "bestemmie" varie, come è invece riprovevole costume nella società "cristiana". D'altro lato, la definizione e delimitazione del concetto di blasfemia può essere generica e fumosa. Così il passo coranico che la tratta:

« La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al suo messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l'ignominia che li toccherà in questa vita; nell'altra vita avranno castigo immenso » (Corano 5,33)

Le diverse pene vanno intese in ordine decrescente di gravità (uccisione, crocifissione - come forma di tortura e/o uccisione -, mutilazione, esilio), ma l'oggetto della colpa non è chiaramente definito: un cristiano o un ebreo che negano di fronte a un islamico che Maometto sia il profeta di Allah, sta seminando "corruzione sulla terra"? La genericità della definizione di blasfemia, unita al fatto che di fronte ai tribunali islamici la testimonianza di un dhimmi non ha valore se contrapposta a quella di un musulmano, lascia intuire la costante minaccia che ha gravato lungo i secoli su ebrei e cristiani nei territori musulmani.

In epoca contemporanea la blasfemia è prevista dai codici penali degli stati che adottano la sharia.

In Afghanistan è punita virtualmente l'offesa a qualunque religione:[17]

« Ogni individuo che con parole, azioni, scritti o altro, offende esplicitamente un seguace di una religione che attua i suoi riti pubblicamente, è passibile di una prigionia breve di non meno di 3 mesi e a una multa non inferiore a 3.000 afghani e non superiore a 12.000 afghani » (Codice penale afghano, 7 ottobre 1976, art. 348)

In Algeria è punita l'offesa alla sola religione islamica:[18]

« È punito con la prigione da 3 a 5 anni e con una multa da da 50.000 a 100.000 dinari algerini, o a una sola di queste pene, chiunque offende il profeta (pace e benedizione su di lui) e inviato di Dio o denigra i dogmi e i precetti dell'Islam, che sia in maniera scritta, disegni, dichiarazioni o qualunque altro mezzo » (Codice penale algerino, 8 giugno 1966, art. 144 bis 2 modificato il 26 giugno 2001)

In Arabia Saudita, dove non esiste un codice penale ma una prassi giuridica legata alla sharia, la blasfemia è punibile fino alla morte. Sull'applicazione dei precetti religiosi islamici vigilano in particolare i mutawìn (volontari) del Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, impropriamente detta "polizia morale".

In Egitto è punibile l'offesa a una "religione celeste" (implicitamente islam, ebraismo e cristianesimo),[19] tuttavia applicazione pratica della legge, di per sé paritaria, tende a privilegiare la religione islamica.[20]

« Chiunque sfrutta la religione al fine di promuovere ideologie estremiste a voce, per iscritto o in altro modo, suscitando sedizioni, denigrando o disprezzando una religione celeste o i suoi aderenti, o pregiudicando l'unità nazionale, può essere punito con la prigione da 6 mesi a 5 anni o pagando una multa tra 500 £ e 1.000 £ » (Codice penale egiziano, 1935, art. 98(f) modificato nel 2006)

In Iran è reato capitale l'offesa al profeta Maometto e punibile con la reclusione l'offesa ad altri aspetti o persone dell'Islam.[21] Le pene prescritte dal Corano (5,33) cioè decapitazione, crocifissione (essere legati - non inchiodati - per 3 giorni), mutilazione ed esilio sono prescrivibili al muharib ("nemico") e al mufsid fi al-ardh ("corruttore della terra"), intesi come ribelli armati (art. 196-211).

« Chiunque insulta la santità islamica o qualunque imam o sua eccellenza Sadigheh Tahereh [titolo onorifico di Fatima, figlia di Maometto] può essere condannato a morte se l'insulto è denigratorio verso il profeta Maometto, altrimenti può essere imprigionato da 1 a 5 anni » (Codice penale islamico dell'Iran, 1996, art. 513)

In Nigeria è punita l'offesa a qualunque religione con la prigionia fino a 2 anni (codice penale, 1990, art. 204).

Il Pakistan ha la legislazione sulla blasfemia più severa e articolata.[22]

« 295. [Punisce chi danneggia luoghi di culto, con una pena fino a 2anni di reclusione e/o una multa].

295-A. [Punisce chi denigra la religione di un gruppo con parole, suoni o gesti, con una pena fino a 10 anni di reclusione e/o una multa].

295-B. Chiunque in maniera consapevole disprezza, danneggia o dissacra una copia del santo Corano o un estratto da esso o ne fa uso in maniera spregevole, o ne fa uso per scopi illegali, può essere punito con la prigione a vita.

295-C. Chiunque con parole, pronunciate o scritte, o con rappresentazioni o con qualunque accenno, allusione o insinuazione, direttamente o indirettamente disprezza il sacro nome del santo profeta Maometto (pace e benedizione su di lui) può essere punito con la morte, o la prigione a vita, e può essere multato.

296. [Punisce chi disturba cerimonie religiose, con una pena fino a 1 anno di reclusione e/o una multa].

297. [Punisce chi profana luoghi di culto o sepoltura, con una pena fino a 1 anno di reclusione e/o una multa].

298. [Punisce chi denigra la religione di un singolo con parole, suoni o gesti, con una pena fino a 1 anno di reclusione e/o una multa].

298-A. Chiunque con parole, pronunciate o scritte, o con rappresentazioni o con qualunque accenno, allusione o insinuazione, direttamente o indirettamente disprezza il sacro nome di una moglie o di un famigliare del santo profeta (pace e benedizione su di lui), o qualcuno dei retti califfi e compagni del santo profeta (pace e benedizione su di lui) può essere punito con la prigione per un periodo che può arrivare a 3 anni, o con una multa, o con entrambe.

298-B. [Punisce l'uso dei titoli propri dei califfi, compagni, mogli, famigliari del profeta, con una pena fino a 3 anni di reclusione e una multa].

298-C. [Punisce chi si finge islamico per oltraggio ai musulmani, con una pena fino a 3 anni di reclusione e una multa]. » (Codice penale del 1860 e integrazioni successive, art. 295-298)

Note
  1. PewResearchCenter (2010), Muslim Publics Divided on Hamas and Hezbollah, p. 14, online.
  2. Tr. ing. 1, 2.
  3. Muhammad: Jews and the Jihad, sito peacewithrealism.org, online.
  4. Cf. anche la sura 59 e commento di Piccardo.
  5. Così anche Piccardo, Il corano, nota a 33,26.
  6. Da Al-Tartushi (m. 1127), Siraj al-Muluk (tr. dall'inglese).
  7. Epiteto onorifico derivato dal figlio: abu-, "padre di".
  8. Ye'or, B. (2002). Islam and Dhimmitude. Where Civilizations Collide. Madison/Teaneck, NJ: Fairleigh Dickinson University Press/Associated University Presses, p. 112-113, online.
  9. Piccardo, H.R. (1996). Il Corano, appendice 9: "A proposito del concetto di «jihâd»", p. 582.
  10. Cf. sito jihadwatch.org.
  11. Ye'or (2002: 82-85), online.
  12. Yeʼor, B. (1996). The decline of Eastern Christianity under Islam: from Jihad to Dhimmitude, pp. 88-91, online.
  13. Stillman, N. (1979). The Jews of Arab Lands: A History and Source Book, online.
  14. Littman, D. (1979). Jews Under Muslim Rule: The Case Of Persia. The Wiener Library Bulletin, XXXII, online.
  15. O'Neill, J.J. (2009). Holy Warriors, p. 127, online.
  16. Lal, K.S. (1973). Growth of Muslim Population in Medieval India (1000-1800).
  17. Online
  18. Online.
  19. Online.
  20. Così il parere di Ibrahim Habib, presidente dell'unione copti della Gran Bretagna, online.
  21. Online.
  22. Online.
Voci correlate
Collegamenti esterni
  • (EN) International Religious Freedom report, online, pubblicazione annuale sulla libertà religiosa nei vari stati del mondo, a cura del dipartimento di stato USA