Abbazia di San Vittore alle Chiuse (Genga)
Abbazia di San Vittore alle Chiuse | |
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Abbazia di San Vittore alle Chiuse | |
Altre denominazioni | Chiesa di San Vittore alle Chiuse |
Stato | Italia |
Regione | Marche |
Provincia | Ancona |
Comune | Genga |
Località | San Vittore Terme |
Diocesi | Fabriano-Matelica |
Religione | Cattolica |
Indirizzo | Via San Vittore, 5 Loc. San Vittore Terme 60040 Genga (AN) |
Telefono | +39 0732 90055 (parroco); +39 0732 973014 (turismo) |
Posta elettronica | info@turismo.comunedigenga.it |
Oggetto tipo | Abbazia |
Oggetto qualificazione | benedettina |
Dedicazione | San Vittore il Moro |
Sigla Ordine qualificante | O.S.B. |
Data fondazione | XI secolo |
Stile architettonico | Romanico |
Inizio della costruzione | 1007 |
Soppressione | 1406 |
Strutture preesistenti | Tempio romano |
Pianta | croce greca |
Materiali | pietra calcarea |
Altitudine | 204 m.s.l.m. |
Coordinate geografiche | |
Marche | |
L'Abbazia di San Vittore alle Chiuse o delle Chiuse è un complesso monumentale, che ospitò un monastero benedettino, situato a San Vittore Terme, località del comune di Genga (Ancona): è posto nei pressi della confluenza del fiume Sentino nell'Esino e all'inizio della Gola di Frasassi, all'interno di un "anfiteatro" di montagne dalle quali risulta completamente circondato, lungo una direttrice viaria antica come testimoniano i ritrovamenti di età preistorica e preromana, oltre che romana, nel sito.
Toponimo e denominazione
Il primitivo monastero era intitolato a Santa Maria e San Benedetto in fundo Victoriano, la dedicazione a san Vittore arriverà in epoca più tarda.
Nel 1110 viene menzionata per la prima volta in un documento l'aggiunta de clusa al nome dell'abbazia; mentre il plurale de clusis comparirà solo nel 1234, contestualmente alla nuova l'intitolazione a san Vittore: questo aggettivo secondo alcuni studiosi fa riferimento alla Gola di Frasassi composta appunto da più "chiuse", mentre secondo altri richiama il luogo morfologicamente impervio e completamente "chiuso" dai monti circostanti.
La scelta della dedicazione della chiesa al Santo martire deriva presumibilmente dalla denominazione con la quale, già in epoca romana, veniva indicato questo luogo, ossia victorianum; è possibile quindi che l'appellativo finì per essere associato al nome di san Vittore.
Storia
Origini
Il complesso abbaziale, secondo alcuni studiosi, venne edificato sui resti di un antico tempio romano, dedicato a Jupiter Victor: questa ipotesi deriva dal nome di un colle, vicino alla Gola, conosciuto da sempre come della Colle della Battaglia, nei pressi dei quali si svolse la celebre vittoria romana di Sentino del 295 a.C. sui popoli italici (Etruschi, Sanniti, Galli Senoni ed Umbri). Anche se non ci sono documenti a supporto di tale tesi, è comunque certo che in epoca antica il sito era una stazione termale sfruttata a lungo dai romani, ed ancora attiva, e forse per costruire il primo nucleo vennero utilizzati i materiali di spoglio della struttura termale. Secondo altri storici, invece, l'abbazia fu costruita nell'XI secolo sui resti di una precedente chiesa, che però non aveva la monumentalità odierna, per questo venne completamente ricostruita. Di certo, che i resti del ponte sul Sentino, costruito dai romani, diventano parte del borgo e si trasformano in un valico, difeso da una torretta fortificata con arco d'entrata. Il fiume stesso è parte importante di questo luogo, tant'è che in alcuni documenti d'epoca il complesso viene citato come Monasterium iuxto fluvio Sentino, ossia "Monastero vicino al fiume Sentino".
Sviluppo e affermazione sul territorio
Il primo documento che menziona l'Abbazia di San Vittore alle Chiuse risale al 1007, quando viene citata in un atto di compravendita con il quale vengono ceduti all'abate Morico alcuni beni di feudatari locali. All'epoca, il monastero si trovava in un area tra la Pentapoli ravennate e i limiti nord-orientali del ducato longobardo di Spoleto, e fra l'altro questo cenobio serviva proprio come baluardo di difesa e di controllo dei confini del ducato stesso.
Nel 1010 il complesso è per la prima volta ricordato come monastero benedettino, mentre nell'anno successivo tre altari vengono dedicati a Maria Vergine, a san Vittore martire e san Benedetto da Norcia. A partire dal 1011 il cenobio vive una particolare stagione di espansione, desumibile da alcuni atti che registrano importanti donazioni fino al 1104: questo è l'epoca in cui il monastero è sotto il controllo e la protezione di potenti famiglie locali.
L'XI secolo è il momento di crescita e affermazione dell'abbazia, che però non avviene in modo omogeneo e continuativo, ma attraverso tre fasi, caratterizzate da una diversa attività ed individuabili grazie ai documenti pervenutici:
- La prima fase si colloca intorno al secondo decennio e segue la grande donazione avvenuta nel 1011 ad opera di Gozo di Raco: in questo periodo prevalsero lasciti da parte di feudatari locali, imparentati o legati politicamente alla famiglia dominate dei Gonzoni, che continuarono a finanziare il cenobio in modo costante per tutto il decennio.
- La seconda fase contraddistinta da una minore attività, registrabile tra il 1049 e 1058, che è da ricondurre alla mancanza di un abate all'interno del cenobio.
- La terza fase, che si sviluppa nell'ultimo quarto del secolo, definita da un drastica ripresa che si ebbe sotto l'abate e vescovo Morico (1058-1098), in particolar modo fra il 1076 e il 1084, quando si registrano ingenti donazioni sia da parte della famiglia fondatrice, sia di quelle ad essa imparentate. Nei primi anni novanta queste elargizioni si consolidarono grazie alla stesura di importanti contratti, trasformando il cenobio in un importante centro di potere.
Nel XII secolo, si verifica un interessante inversione dei ruoli, poiché le famiglie feudatarie locali concedono piena autonomia al monastero, che acquista così una posizione di assoluto predominio, e nel contempo queste ne diventano vassalli. È questo il periodo in cui i monaci dimostrano grande capacità di allacciare rapporti economici, politici e strategici: questo ha reso possibile al cenobio stesso di esercitare un costante controllo amministrativo su un vasto patrimonio, che nel tempo si è accresciuto e si è arricchito, anche con acquisti e permute: appartenevano al monastero, o erano ad esso asserviti, piccoli e medi appezzamenti di terra, possedimenti, borghi circostanti, castelli feudali, chiese e loro pertinenze, proprietà lontane, spesso non contigue tra loro, che si estendevano in buona parte della valle dell'Esino e del fiume Giano.
È all'inizio del XIII secolo, che l'abbazia raggiunse il periodo di maggiore splendore, quando arriva ad esercitare la giurisdizione su 42 chiese e su vasti beni e territori. Dall'esame dei documenti storici relativi a San Vittore emerge una precisa situazione ambientale ed economica, ma prima di tutto si evidenzia la competenza amministrativa dei monaci, testimoniata anche dalle tante, copiose e consistenti donazioni ricevute: un riconoscimento alla loro capacità di ottenere il maggior riscontro economico dal massimo sfruttamento delle pertinenze. Era così che i religiosi garantivano ai proprietari dei beni stessi un tenore di vita più alto, un flusso di denaro nelle casse di famiglia ed un prestigio maggiore, se a questo si somma la speranza di salvare l'anima (pro remedio anime), a cui tutti ricchi o poveri anelavano, si può ben capire perché i monaci hanno potuto esercitare un controllo così vasto.
Decadenza e restauro
L'impossibilità di controllare e amministrare egregiamente i vasti possedimenti avvia il monastero ad un lento declino, tanto che nel 1308 viene venduto alla famiglia dei conti Chiavelli di Fabriano. I nuovi proprietari impongono come abate un loro familiare, una tale Crescenzio, figlio di Alberghetto, che approfittando del potere della sua carica, diventa simoniaco, ossia non esita a vendere e comprare cariche ecclesiastiche che gli garantiscano un modo di vivere dispendioso e mondano. Il suo comportamento influisce sul rigore monastico ed anche i monaci cominciano a si disinteressarsi della Regola dell'ordine, concentrando i propri interessi sui beni materiali, un comportamento che insieme alla fallimentare gestione economica, ai conflitti d'interesse con altri monasteri e castelli, alle lotte sanguinose fra guelfi e ghibellini, proseguirà fino al 1348 con risultati disastrosi.
A seguito di questa lenta ma inesorabile decadenza, nel 1406, su richiesta di Chiavello Chiavelli, l'abbazia viene definitivamente soppressa da papa Innocenzo VII con un bolla che ne decreta anche l'aggregazione al monastero olivetano di Santa Caterina a Fabriano. Il Chiavelli incamerò quindi le proprietà superstiti ed i monaci rimasti si stabilirono nei cenobi limitrofi.[1]
Per alcuni secoli l'abbazia è stata completamente lasciata in abbandono e alla fine trasformata in fattoria, finché i restauri eseguiti tra il 1925 e il 1932 l'hanno riportata al suo originario splendore.
Descrizione
L'abbazia è costituita da alcuni corpi di fabbrica, dei quali si evidenziano:
- Chiesa abbaziale
- Monastero
Ingresso e ponte
Si entra nel complesso monastico attraversando il ponte sul fiume Sentino e l'antica torre fortificata di guardia: la struttura oggi si conserva nelle forme medievali, ma è stata probabilmente ricostruita sui resti di un antico ponte romano. Infatti, alcuni scavi archeologici condotti nella seconda metà del XX secolo hanno portato alla luce diversi reperti romani, anche se sul periodo di edificazione del ponte e della torre fortificata non si hanno notizie certe supportate da documenti storici precisi.
Sulla riva del fiume si trovano due case, appartenenti al complesso abbaziale, anche se notevolmente trasformate in epoche successive.
Chiesa
La chiesa, edificata in pietra calcarea tra il 1060 e il 1085, è unanimemente considerata una delle più complete e convincenti espressioni del romanico italiano giunta fino ai nostri giorni nella sua pienezza espressiva.
Esterno
L'ingresso principale alla chiesa (sul lato occidentale) ha un portale a doppia ghiera con arco a tutto sesto, lavorato con conci di pietra calcarea. L'entrata è preceduta da un corpo di fabbrica (realizzato in un momento posteriore rispetto al resto del complesso), che si apre con un arco a sesto leggermente acuto e composta da una campata voltata a botte. Ai lati si trovano una bassa torre scalare cilindrica, posta a sinistra, e una torre quadrangolare più imponente, a destra: quest'ultima, costruita con evidenti scopi difensivi, ha sostituito nel XIV secolo una seconda torre cilindrica. Le torri di forme e grandezze diverse generano disomogeneità e asimmetria nella facciata. Tale mutamento è da ricondurre, come già detto, ad una successiva modifica del progetto originario che invece prevedeva l'erezione di due corpi gemelli. L'avancorpo compresso tra le due torri è stato, da molti studiosi, interpretato come una libera ripresa del westwerk nordico,[2] dimostrando così la particolare attenzione di questo cantiere non solo all'orbita orientale, ma anche a quella di ascendenza germanica.
La cortina esterna, scandita da piatte lesene e da archetti pensili, presenta lungo il perimetro cinque absidi semicircolari: tre solidi absidi si levano sul lato posteriore, mentre sporge un'absidiola su ciascun fianco. Sopra la costruzione, al centro, è il tiburio ottagonale decorato da arcatelle cieche.
Le due torri e la compatta volumetria contribuiscono a dare alla chiesa l'aspetto di una fortezza.
Interno
La chiesa, orientata (ossia con l'abside rivolto a Est), presenta una pianta a croce greca iscritta in un perimetro quasi quadrato, secondo un modello di derivazione bizantina: lo schema perimetrico, pur nei diversi risultati formali d'alzato, non è del tutto insolito nelle Marche ripetendosi con poche varianti in altre tre chiese: S. Maria delle Moie, S. Croce a Sassoferrato e S. Claudio al Chienti.[3]
Il centro della chiesa è delineato da quattro grandi colonne cilindriche di travertino, sormontate da capitelli cubici, che la dividono in nove campate (di uguale altezza) coperte da volte a crociera, a parte quella centrale sulla quale s'imposta una cupola semisferica inglobata nel tiburio ottagonale, poggiante sulle colonne, tramite arconi e pennacchi a tromba; l'insieme, di grande slancio, è movimentato dalle absidiole laterali (in corrispondenza dei bracci della croce greca iscritta) e dalle tre absidi della parete di fondo.
La chiesa è illuminata da alcune finestre di piccole dimensioni. Una monofora si apre sull'abside centrale ed una su quella del lato settentrionale. Una porta voltata a tutto sesto conduceva dalla chiesa al campo di sepoltura.
L'interno è sobrio, privo di apparato decorativo, presentava soltanto un polittico, attualmente custodito alla Pinacoteca Civica di Fabriano, raffigurante:
- Madonna con Gesù Bambino in trono tra san Venanzio di Camerino, san Vittore martire, san Fiorenzo e sant'Andrea; Gesù Cristo in pietà tra la Madonna e san Giovanni evangelista (seconda metà del XV secolo), tempera su tavola, attribuita a Neri di Bicci.[4][5]
All'interno, inoltre, non è presente alcuna decorazione scultorea, fatta eccezione per una particolare figura incisa, raffigurante un 8 (otto o simbolo dell'infinito, in verticale), ubicata a sinistra dell'altare maggiore nei pressi di una finestra, che in origine era una porta laterale della chiesa, come testimoniano i gradini interni che non hanno più corrispettivi all'esterno. Su questa immagine, sul suo scopo e significato (che oltretutto non si conosce se sia stata volutamente eseguita per questa chiesa o recuperata da un altro sito), vi sono state molte discussioni e avanzate varie ipotesi, anche le più fantasiose, ma gli studiosi sono giunti alla conclusione che è solo un semplice elemento decorativo, senza nessun significato in particolare.
Monastero
Del monastero benedettino, a destra della chiesa, che presentava un edificio composto di due ali su due livelli, rimangono solo alcuni ambienti che attualmente ospitano il Museo Speleopaleontologico.
Note | |
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Bibliografia | |
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Voci correlate | |
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