Figlio dell'uomo

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Ambito carolingio, Volto Santo (X - XI secolo), legno intagliato policromo e dorato; Sansepolcro, Concattedrale di San Giovanni Evangelista

Figlio dell'Uomo è un'espressione ricorrente dell'Antico Testamento: essa si trova soprattutto nel profeta Ezechiele, dove si riferisce alla condizione di fragilità del profeta stesso. Con lo stesso significato l'espressione è stata ripresa da Gesù in riferimento a sé stesso; la riflessione cristologica della Chiesa apostolica l'ha poi usata, sulla base di Dn 7,13 , per riferirsi alla glorificazione di Cristo.

Oltre che nella Bibbia, l'espressione si trova anche nella letteratura apocrifa: per esempio nel Libro di Enoch e in 4 Esdra.

L'espressione nelle lingue bibliche

La forma ebraica è ben-adhàm e la variante aramaica bar ʿenàsh.

La LXX traduce ὑιός του ἀνθρὸπου, hyiós tou anthròpou e tale forma è usata anche dagli agiografi del Nuovo Testamento.

Antico Testamento

Nell'Antico Testamento l'espressione significa semplicemente uomo (cfr. Is 51,12;56,2 ; Sal 8,5;79,18 ; Nm 23,19 ).

Al di là di questo, l'espressione presenta più di una sfumatura semantica:

  • in Ez 2,1 indica un singolo individuo del genere umano; la maggioranza delle traduzioni bibliche rende questa occorrenza semplicemente con "uomo";
  • altrove (Sal 8,5;146,3 ; Ger 49,18;49,33 ) indica l'umanità nel suo complesso (comprendendo indirettamente anche la persona che parla);
  • in Sal 144,3 (ben-ʿenòhsh) ha il significato di "figlio dell'uomo mortale";

In Ezechiele figlio dell'uomo compare 93 volte (cfr. per es. 2,1.3.6.8;3,1.3.4.10.16.25): è l'espressione con cui YHWH si rivolge al profeta. Essa indica il profeta stesso nella sua vocazione di latore del messaggio di rinnovamento al popolo in esilio a Babilonia, affinché comprenda che la sua salvezza dipende dal solo rinnovamento interiore degli uomini interessati: essendo anch'egli un figlio d'uomo, cioè un essere meschino e debole, potrà benissimo immedesimarsi nella situazione di fragilità del popolo a cui sta inviando il messaggio di conversione.

In Daniele (7,13) invece il termine attesta un rimando apocalittico: il figlio dell'uomo rappresenta l'Israele escatologico ("il popolo dei santi dell'Altissimo" di 7,27) alla fine dei tempi, il cui dominio si estenderà fino ai limiti estremi della terra.

Nuovo Testamento

Nei Vangeli l'espressione ricorre circa 80 volte; al di fuori di essi ricorre in At 7,56 , in Eb 2,6 e in Ap 1,13;14,14 .

Contrariamente al titolo di Cristo, che Gesù non pronuncia mai, l'attribuzione di Figlio dell'Uomo è sempre sulla bocca di Gesù: essa corrisponde all'aramaico bar enasha, che fu usata da Gesù per riferirsi a sé in maniera indiretta. In tali logia Gesù difende sé stesso in una maniera sottile e ironica, evitando di fare una rivendicazione messianica aperta.

I detti autentici contenenti l'espressione sono nove. In essi Gesù non intendeva identificarsi con il Figlio dell'uomo di Dn 7,13 . Tale identificazione è da far risalire alla successiva riflessione cristologica ecclesiale[1]. In tale riflessione l'espressione indica il giudice definitivo escatologico: il giudizio alla fine della storia spetterà a Dio, ma già adesso in Cristo vi è il preludio del giudizio finale atteso.

L'espressione figlio dell'uomo viene considerata quindi come un modo discreto al quale Gesù ricorreva per rivendicare la sua messianicità senza indurre false aspettative (di tipo politico) tra i suoi ascoltatori.

Di fatto Gesù utilizza l'espressione in contesti diversi:

  • in relazione all'idea del trionfo escatologico (Mc 8,38 );
  • in relazione all'ineluttabilità delle sue sofferenze (Mc 8,31 );
  • in relazione alle sue pretese messianiche (Mc 2,27-28 ).

Risulta comunque che anche l'uso di questa espressione rimane enigmatico a molti degli ascoltatori (Gv 12,34 ).

Note
  1. Angelico Poppi (1990) 225.
Bibliografia
Voci correlate
Collegamenti esterni