Ex monastero delle Clarisse (Cerreto Sannita)
Ex monastero delle Clarisse | |
Esterno della chiesa. | |
Stato | Italia |
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Regione | Campania |
Regione ecclesiastica |
Regione ecclesiastica Campania |
Provincia | Benevento |
Comune | Cerreto Sannita |
Diocesi | Cerreto Sannita-Telese-Sant'Agata de' Goti |
Religione | Cattolica |
Sito web | Sito ufficiale |
Oggetto tipo | Monastero |
Sigla Ordine qualificante | S.B.P.S. |
Sigla Ordine reggente | S.B.P.S. |
Stile architettonico | barocco |
Inizio della costruzione | 1688 |
Completamento |
1705 (chiesa) 1729 (monastero) |
Coordinate geografiche | |
Campania | |
L'ex monastero delle clarisse di Cerreto Sannita è un antico luogo di culto fondato nel 1369 da Francesca Sanframondi, parente e ciambellana della regina Giovanna I di Napoli nonché parente di Giovanni III Sanframondi, Conte di Cerreto Sannita. Ricostruito dopo il terremoto di Benevento del 5 giugno 1688, il monastero ha ospitato l'ordine delle Clarisse Urbaniste dal XIV secolo al XX secolo quando è divenuto di proprietà delle Suore di Carità di Nostra Signora del Buono e Perpetuo Soccorso che vi hanno istituito un convitto e delle scuole, intitolando il plesso a papa Leone XIII. La chiesa annessa al monastero è uno splendido esempio di architettura barocca. Rimasta intatta nel corso dei secoli conserva nel pronao un pavimento in ceramica cerretese del XVIII secolo.
I verbali dei diversi processi avvenuti durante gli anni fra i vescovi e le monache, conservati nell'archivio della Curia vescovile, forniscono numerose informazioni circa la vita delle clarisse all'interno del monastero ed i loro rapporti con l'esterno.
Storia
La fondazione
Il monastero delle Clarisse Urbaniste di Cerreto Sannita venne fondato da Francesca Sanframondi, vedova di Pietro de Cadenet, collaterale e ciambellana della regina Giovanna I di Napoli. Secondo Nicola Rotondi[1] Francesca era figlia di Giovanni III, Conte di Cerreto Sannita dal 1285 al 1319 mentre secondo Dante Marocco[2] essa era sorella di Giovanni e figlia di Leonardo Sanframondi.
Il 3 gennaio 1369 fu emanata la lettera apostolica di fondazione del monastero, inviata al vescovo Giacomo da Cerreto e che Rotondi così traduce:
« | Alle cose, per le quali si procura l'accrescimento del Divin Culto, e della Sacra Religione, assentiam volentieri, ed aggiungiamo la saldezza dell'apostolico firmamento. La domanda a Noi rassegnata per parte della diletta figliuola in Cristo nobile donna Francesca di Sanframondi, vedova, della diocesi di Telese conteneva, che essa bramando cangiare per felice commercio le terrene nelle celesti cose, e le transitorie nelle eterne, dei beni a sé largiti da Dio, per la salvezza delle anime sua e dei suoi genitori, e passati, ha costruito ed edificato nel Castel di Cerreto della detta Diocesi in luogo da ciò, ed onorato, permettendo il Vescovo del detto luogo, un Monastero dell'Ordine di S. Chiara colla Chiesa, campanile, campana, ed altre necessarie officine, nel quale abbiano a vivere dieci Monache dell'Ordine di essa Santa, a servirsi in abito perpetuo della Religione il Signore delle virtù in onore, e sotto il nome della Beata Vergine Maria Madre di Cristo, e lo ha dotato di tanto, che dai frutti di essa dote possa sostentarsi con agio il detto numero di Monache. In nome dunque, della detta Francesca siamo stati supplicati umilmente a degnare per benignità Apostolica di dare a tal costruttura, ed edificazione l'Apostolica conferma. Noi, dunque, che del permesso non abbiam certo notizia, commentando assaissimo nel Signore la sopra detta opera pia di essa Donna, inchinati a tali suppliche, ingiungiamo, e commettiamo per Apostolico scritto alla tua fraternità, della quale in siffatte, ed altre cose abbiano nel Signore fidanza speciale, che se troverai il permesso, ti procacci di approvare, e confermare per nostra autorità siffatta costruttura, edificazione, e dotazione, ed altro indi venuto, salve sempre in tutto il diritto della Chiesa parrocchiale, e di qualsivoglia altra. » | |
(Nicola Rotondi 1844, op. cit., Del monastero)
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Il monastero però divenne pienamente funzionante solo alcuni mesi dopo dato che quando la fondatrice Francesca Sanframondi stilò testamento il 10 febbraio 1369, alla presenza della regina Giovanna I, essa dispose di essere sepolta temporaneamente nella cappella di San Giovanni Evangelista nella chiesa di Sant'Antonio in Cerreto, nel frattempo che fosse stato portato a termine l'edificio[3].
Inoltre, non è certo se Sanframondi trascorse gli ultimi anni della sua vita nel monastero. Infatti Rotondi al riguardo dice che «Né appare da alcun monumento che in età grave ed inclinata vi si fosse chiusa a passarvi con sicurezza, e lungi dalle turbolenze della Corte, la vita che le rimaneva». Alla sua morte Francesca fu sepolta dietro l'altare maggiore della chiesa delle Clarisse in un sepolcro dove campeggiava lo stemma dei Sanframondo, costituito da una croce di Sant'Andrea in oro su campo azzurro, e da una statua in pietra che la ritraeva e che nel XIX secolo era ancora visibile in un pilastro dell'attuale chiostro[4].
Prima badessa del monastero fu Caterina Sanframondi, che, secondo Rotondi[5], fu figlia di Pietro e cugina della fondatrice Francesca, mentre per Marocco[6] era figlia di Giovanni e quindi nipote di Francesca. Fu nominata badessa con breve dell'8 gennaio 1369 dal cardinale Albanese con cui le fu ingiunto di trasferirsi dal monastero di Santa Maria di Donna Regina a Napoli a quello di Cerreto assieme alle suore Giovanna ed Agnese Sanframondi, Rita e Caterina di Cetano, Chiarella da Pietraroja e Francesca da Cerreto[7].
Caterina, durante i trent'anni in cui fu badessa, arricchì il il monastero di molte case e terre sparse nei comuni di Cerreto, San Lorenzello, Massa e Limata, ed ebbe l'esenzione dello stesso dal pagamento delle decime. Nel 1397 ottenne da papa Benedetto XII il permesso di uscire dalla clausura per motivi di salute e di trasferirsi a casa di Nicolò che nel breve viene indicato come suo fratello e che quindi fa propendere, secondo Pescitelli, per la genealogia di Rotondi[8].
Alla morte di Caterina, la seconda badessa Margherita Sanframondi fece realizzare un sepolcro in marmo oggi conservato nell'atrio dell'ex monastero. Esso venne rinvenuto nel 1842 in un locale dell'edificio essendo badessa Maria Beatrice Pacelli. Nel 1843 Rotondi ne interpretò la scritta sita al di sopra del bassorilievo raffigurante la Sanframondi che recita:
+ MRIS XP basiliae e q dit X De S.FRAYMUNDO
(Mater Christi Basiliae -regiae- aedes, quas ditavit Catharina de S. Fraymundo)[9]
Il monastero e la chiesa nella vecchia Cerreto
Secondo lo storico Pacichelli[10] il monastero, rivolto a mezzogiorno, occupava un'ala del castello dei Sanframondo assieme ai Padri Conventuali di Sant'Antonio, ed era sito precisamente di fronte a questi, tanto che in un processo conservato nell'Archivio della curia vescovile di Cerreto Sannita è scritto che: "di sopra una volta vedevasi le Suore, che nelle loro stanze davano in opera ai fatti loro"[11]. Prospiciente il complesso era una piazza sulla quale si affacciavano anche le rispettive chiese intitolate a Santa Maria Madre di Dio ed a Sant'Antonio di Padova.
Originariamente vi erano due porte di accesso, una verso la chiesa ed un'altra verso il monastero cui si aggiunse nel 1631 una nuova porta che immetteva nel parlatorio dove le suore tramite una grata parlavano con i parenti. Prima di allora l'accesso al parlatorio era sito nella chiesa ma monsignor Gambacorta volle chiudere questa entrata per evitare il passaggio della gente nella stessa[12].
Il portone dava accesso ad un chiostro da cui nasceva una scala che terminava in un corridoio e che nel 1596 risultava essere sbarrato da una porta che immetteva in un grande dormitorio, costituito da diciannove celle, illuminate da un finestrone che per ordine di mons. Savino fu in parte murato per evitare che dall'esterno potessero vedere le monache. Oltre a questo dormitorio vi era un'altra camera, superiore ad esso. Secondo il Pescitelli tale doveva essere stato l'edificio dalla sua fondazione alla fine del XVI secolo, senza grandi modifiche strutturali[13].
Al principio del XVII secolo si contavano due dormitori, uno rivolto a ponente con diciassette celle ed un altro a mezzogiorno con sette camerette mentre se ne stava portando a termine un altro costituito da cinque camere. Nel 1670 monsignor Marioni contò sei dormitori: il vecchio con otto camere; quello sotto la Torre con sei celle; un terzo al di sopra del refettorio con undici camere; un quarto che sovrastava il forno del monastero con otto camerette; un quinto che sporgeva sulla piazza antistante il complesso ed aveva quattro camere; un sesto sito sopra la torre con due celle, vicino al quale era una camera usata come carcere. Nel 1686 il vescovo Domenico Belisario de Bellis trovò altri due dormitori, il primo con nove camere ed il secondo con cinque che sporgevano sul fossato del castello. Infine De Bellis vide che il dormitorio della torre si era arricchita di un'altra camera, per un totale di cinquantacinque celle. Vi erano poi un forno, una cucina, un lavatoio, un refettorio, una dispensa, un granaio, una cantina ed un pollaio dove ogni suora, secondo un'antica consuetudine, aveva i propri polli[13].
La chiesa, posta a destra del monastero[14], era abbastanza grande. Secondo Rotondi[15] essa era intitolata allo Spirito Santo ma Pescitelli sconfessa tale tesi perché non vi è traccia di quella denominazione nei documenti storici ed optando invece per l'intitolazione a Santa Maria Madre di Dio, come l'attuale luogo di culto[16].
L'altare maggiore era sovrastato da una tela raffigurante la discesa nel Cenacolo dello Spirito Santo. Vicino ad esso, alla parete verso il monastero, era una grata dalla quale le clarisse ricevevano la comunione, e dietro l'altare maggiore era sita la sacrestia, assai angusta e dove era sito il sepolcro della fondatrice Francesca Sanframondi. Precedente tale altare ed a sinistra di esso era posto un primo confessionale ed un altro altare che venne abbattuto per ordine di monsignor Gambacorta perché troppo vicino al maggiore. Seguivano l'altare della Concezione dei Raho e quello della Navità della Vergine dei De Blasio. Accanto a quest'ultimo era un altro confessionale e la porta, murata nel 1631, che introduceva al parlatorio dove vi erano tre grate e la ruota dei rejetti tramite cui le suore scambiavano dei manufatti con l'esterno. Alla parete opposta erano una cappella dei De Niro intitolata a tutti i Santi. Seguivano l'altare del Crocefisso e quello dell'Assunta[17].
Le suore ed il terremoto del 5 giugno 1688
Il terremoto del 5 giugno 1688, che rase al suolo il vecchio abitato medievale, colse le suore mentre erano intente a recitare i vespri nel coro della chiesa secondo quanto raccontò una delle ventiquattro monache sopravvissute in una memoria raccolta da Mazzacane:
« | Nell'anno del signore 1688 al 5 giugno ad ore venti di sabato di Pentecoste [...] nel tempo che ci ritrovammo a cantare vespera solenne, nell'intonare lo primo salmo di vespera fu la prima scossa, quali ci vidimo tutte morte, però la Madre Abadessa sor Giuditta Mazzacane diede loco di silenzio, e seguitimmo colo vespera, nel Benedicamus domino fu così terribile il terremoto, che ce retrovassimo tutte sepolte vive nel detto Coro, quali ne rimasero quaranta monache vive con la Badessa sor Giuditta Mazzacane angora viva [...] » | |
(Vincenzo Mazzacane, Il terremoto di Cerreto del 5 giugno 1688: Memoria di una suora del monastero delle Clarisse, Samnium, 1953)
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Mazzacane aggiunge:
« | Molte suore furono trovate ginocchioni, rivolte al Cielo, quasi chiedendo Misericordia, e una di esse, tenuta in concetto di santa dalle compagne, dopo dodici giorni, mentre si apprestavano a comporla nel letto funebre, coprì da se stessa il petto che si era al quanto denudato, si gridò al miracolo, e accorsero il vescovo e gran numero di persone. » | |
(Vincenzo Mazzacane, Il terremoto.. op. cit.)
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Sotto le macerie perirono quaranta monache mentre ventiquattro, fra le quali la badessa, si salvarono anche se alcune di esse, scavate dopo alcuni giorni, non ricordavano nulla dell'accaduto. Delle converse ne morirono sette su undici. Perirono anche il cappellano ed il confessore mentre le suore sopravvissute, nella confusione e nello spavento dettato dall'evento, iniziarono a vagare nelle campagne circostanti, territorio a loro del tutto sconosciuto dato che le monache erano entrate in clausura da giovane età. De Bellis provvide tempestivamente ad esse raccogliendole nella masseria del barone Pietro Petronzi dove alloggiarono sotto la sorveglianza dei parenti e dello stesso Vescovo che vi si trasferì con tutta la Corte vescovile[18].
La sopravvissuta badessa, sulla quale secondo Pescitelli ricadeva la responsabilità del dramma non avendo permesso, dopo la scossa premonitrice, di far rifugiare le religiose in un luogo più sicuro, supplicò monsignor De Bellis perché «come ritrovandosi ritirate nel cortile del quon dam Pietro Petronzi sotto una miserabile capanna per causa del tremuoto» di trasferire le superstiti in un luogo più capace per accoglierle. De Bellis si mise allora in contatto con il conte Marzio Carafa e con l'assenso della Congregazione dei Vescovi si convenne di trasferire le monache nel monastero dell'ospedale di Maddaloni. Così nel luglio del 1688 le suore vennero trasportate in galesse, a due a due, nella loro nuova sistemazione, scortate dal vescovo in persona, dai familiari e dalle guardie del feudatario. Giunte a Maddaloni furono ricevute dal conte Marzio Carafa, da suo fratello Marino e dal viceré dell'epoca, Francesco Bonavides[19].
In quel di Maddaloni morirono nove suore: la badessa suor Giuditta Mazzacane, suor Teresa Petronzi, suor Anna Mazzacane, suor Maria Brigida Magnati, suor Agnese e Giovanna Ciaburro, suor Amalia e Grazia Nardella, suor Lucrezia Mattei e la conversa Camilla Meola. Di contro però si monacarono nove monache e due converse «con solenni feste di musica napoletana»"[20].
Il monastero e la chiesa nell'attuale Cerreto
L'edificazione del monastero e della chiesa nell'attuale Cerreto, progettata da Giovanni Battista Manni dietro incarico del conte Marzio Carafa, cominciò subito dopo il terremoto e fu iniziata dai muratori Andrea Pagano ed Orazio e Giuseppe Paduano. Il cantiere si fermò presto per mancanza di fondi ed i lavori furono ripresi solo nell'agosto del 1692 grazie alla vendita di un capitale di 2.000 ducati avuti dal Principe di Colubrano[21].
Subito dopo aver completato il primo dormitorio, corrispondente all'ala che affaccia su piazza Roma, l'8 dicembre 1696 le suore tornarono a Cerreto da Maddaloni nel loro nuovo monastero anche se ancora sprovvisto di qualsiasi agio. Esse temporaneamente costruirono delle piccole cucine di fronte gli ingressi delle celle mentre, raccolta la somma di 135 ducati, vennero edificati un corridoio ed una terrazza verso il cortile, corridoio intonacato nel 1705 dal maestro Antonio Calise, nello stesso anno in cui questi eseguì gli stucchi della chiesa. Suor Geltrude Corrado, inoltre, spese di tasca sua 25 ducati per la costruzione del forno[22].
Lo spazio era però insufficiente per ospitare tutte le monache e nelle celle ne dormivano più di una, contravvenendo ai dettami stabiliti dal Concilio di Trento. Così avvenne che le giovani che in quel periodo stavano per monacarsi dovettero prima edificare la propria cella, e la prima suora cui toccò questo destino fu Maria Celeste Bruno nel 1713. Ma tale comportamento portò ad irregolarità cui pose fine mons. Pascale anni dopo[22].
Nel 1711 fu completato il dormitorio che guarda a settentrione e la casa del Cappellano[23] dai maestri muratori Pietro Fazzino ed Ascanio e Nicolò Paduano mentre nel 1717, dopo una raccolta di denaro avvenuta fra le suore i maestri Angelo Paduano del fu Nicolò, Pietro Fazzino ed Ascanio Paduano fu Giuseppe convennero di terminare l'opera interrotta. Ma nonostante questi ampliamenti lo spazio era sempre insufficiente dato che nel 1728 le suore erano cinquantotto mentre le celle solo ventotto. Di fronte a tale situazione monsignor Baccari scrisse nello stesso anno alla Congregazione dei Vescovi denunciando la difficile situazione in cui versavano le monache e aggiungendo che «per ovviare alla soggezione nel spogliarsi» ordinò di separare i letti con un tramezzo di tela[24].
Nonostante tali difficoltà il monastero venne col tempo portato a compimento tanto che nel 1729 la badessa dell'epoca, Margherita Ciaburri, chiese all'Universitas di poter ottenere il terreno incolto retrostante il complesso che, subito donato loro, fu riattato, cinto da alte mura ed adibito a giardino e a cimitero[25].
Nel 1861 il Regio Decreto del 17 febbraio dichiarò soppresse tutte le Case di ordini monastici di ambo i sessi site nelle province napoletane ed in conseguenza il monastero delle clarisse di Cerreto Sannita assieme a quello dei Cappuccini fu incluso tra gli istituti da sopprimere. Le suore però si avvalsero del disposto dell'art. 8 della stessa legge che prevedeva un ritardo nell'attuazione di essa se entro il termine di tre mesi fosse stata presentata una richiesta apposita al Dicastero per gli Affari Ecclesiastici. Contestualmente i politici locali si adoperarono affinché fosse risparmiato almeno questo antico edificio sacro. L'argomento fu trattato da diversi consigli comunali ed in varie lettere e suppliche di intervento rivolte a deputati, al prefetto di Benevento ed alla Provincia[26].
Ma il Regio Decreto del 27 ottobre 1866 completava l'attuazione del precedente per cui il monastero venne incorporato nel fondo culto. Di fronte a tale situazione il sindaco Armando Ungaro chiese ed ottenne la cessione dell'edificio al comune per adibirvi delle scuole. Nel 1911 il complesso fu venduto per lire ottomila ai Reverendi Amedeo Franco, Matteo Gagliardi, Carluigi Di Lella, Francesco Ciaburri, Bartolomeo Di Paola, Domenico Amato, Giuseppe Di Crosta e Giuseppe Sanzari a patto che il monastero fosse stato adibito a scopi di beneficenza, istruzione ed assistenza. Infine, il 26 marzo 1930, la Congregazione delle Suore di Carità di Nostra Signora del Buono e Perpetuo Soccorso acquistò lo stabile di cui è tuttora proprietaria, adibendovi un convitto, una scuola materna, un liceo linguistico, una scuola ed un istituto magistrale[27].
La vita delle suore Clarisse ed i loro rapporti con la Società
Sino alla fine del XVI secolo sono pochi i documenti che forniscono dettagli sulla vita delle clarisse all'interno del loro monastero e sui loro rapporti con l'esterno. Infatti, dopo le prime badesse Caterina e Margherita Sanframondi e Rita d'Acquavia, non si hanno altre notizie sino all'avvento di mons. Savino che nel 1596 denunciava l'inesistenza di un vero e proprio archivio nella Curia vescovile a causa del continuo vagare dei vescovi telesini, alla ricerca di una sede stabile, trovata in Cerreto agli inizi del XVII secolo[28]. Si sa solo che con breve del 21 luglio 1465 papa Paolo II scomunicò chiunque deteneva "decime, novellizzie, livelli, o sia censi, entrate, proventi, annue pensioni, poderi, case, giardini, campi, vigne, prati, pascoli, selve, boschi, monete [...]" di proprietà del monastero. Pescitelli suppone che tale atto sia scaturito a seguito di un furto avvenuto a causa della ribellione di Giovanni Sanframondi, conte di Cerreto Sannita, contro gli Aragonesi e conclusasi con la sua sconfitta e con l'avvento dei nuovi feudatari di casa Carafa. Confuta tale tesi il fatto che nel 1525 la badessa suor Chiara Cusano chiese permesso a Papa Clemente VII di poter vendere un vano terraneo ed alcuni calici per sovvenire alle necessità più urgenti della comunità[29].
Il monastero intanto continuava a crescere tanto che con lettera del 31 gennaio 1589 la S. Congregazione dei Vescovi fissava a venti il numero massimo delle clarisse decretando inoltre che la dote delle monacande si sarebbe dovuta versare in denaro contante per essere poi investita in beni che dessero frutto ogni anno. In deroga a tali norme il Vescovo poteva commutare tale versamento, allora consistente in una somma con valore fra 100 e 200 ducati, in beni immobili. Le doti venivano poi incamerate dal monastero per pagare le spese comuni[30].
La vita quotidiana delle suore si teneva fra la messa, il coro ed il lavoro dedicato al ricamo, alla tessitura ed alla confezione di dolciumi. Ad ognuna di esse era assegnata una certa quantità di pane che le doveva bastare per una settimana, mezza bottiglia di vino al giorno ed un pasto completo il martedì, il giovedì e la domenica. Se si ammalavano, ognuna di esse doveva badare a se stessa e spendere del suo per provvedere ai propri bisogni[31].
Oltre alla badessa nel monastero vi erano anche due discrete, nominate ogni primo gennaio dalla badessa per consigliarla ed assisterla nel suo esercizio, le maestre delle educande, le converse che erano delle suore non coriste al servizio delle coriste ed infine la vicaria che curava la panificazione e conservava le chiavi del granaio e della cantina. Le educande invece, pur vivendo nel monastero, non vestivano l'abito ed erano rinchiuse in esso sin dalla più giovane età con la speranza che si monacassero. Esse prima di entrare in clausura venivano dotate oppure erano sostenute dai familiari o da una o più suore, caso avvenuto molto spesso nei secoli[32].
Dal 1607 al 1610 il monastero di Cerreto ospitò suor Giuliana De Marco, tenuta dal popolo in odore di santità. Assieme al suo confessore P. Aniello Arciero ed ad un avvocato, Giuseppe de Vicariis, fondò una congregazione segreta. Secondo quanto lei stessa diceva, "l'intima unione che aveva con Dio", le permetteva di fare lunghi digiuni che insospettirono il vescovo Gentile di Caserta. Informatone il [[Sant'Uffizio]] questi ordinò all'Arciero di non uscire dallo Stato Pontificio ed alla De Marco di trasferirsi nel monastero di Sant'Antonio in Napoli dove però continuava ad essere venerata dal popolo mentre il De Vicariis le procurava degli scritti che suor Giulia diceva essere dettati da Dio. Nel 1607 fu trasferita a Cerreto dove, a detta del Rotondi, non terminò di d'ingannare le clarisse "[...] né si restò mai di seminare la sua zizania". Scoperta dalle altre monache a rubare del cibo durante uno dei suoi lunghi digiuni, fu trasferita a Nocera de' Pagani per essere poi processata assieme agli altri congregati con l'accusa di commerci carnali[33].
Mons. Gambacorta nel 1614 dettò alle clarisse nuovi provvedimenti e tolse le chiavi del monastero allUniversitas, ponendo fine a tale strana usanza nata a seguito della morte di mons. Cotugno nel 1583. Un eletto dellUniversitas, Giovan Tommaso Magnati, fece ricorso alla S. Congregazione dei Vescovi contro tale provvedimento dicendo che era un antico diritto e denunziando che copia della chiavi era stata consegnata a don Pasquale de Liso, prete di dubbi costumi. Accusava inoltre il vescovo di aver permesso ai Padri Conventuali di aprire delle finestre dal campanile della loro chiesa e di non aver fatto chiudere le finestre delle case dei sacerdoti site nelle vicinanze del complesso e dalle quali potevano essere spiate le monache. La S. Congregazione rispose rapidamente dando ragione al vescovo, dichiarando impertinente l'istanza del Magnati e suggerendo a mons. Gambacorta di dare le chiavi nemmeno al canonico della Collegiata di San Martino De Laurentis, perché avente 26 anni, ma a persona più anziana[34].
Un episodio molto grave avvenne il 3 dicembre 1634 quando la baronessa Altabella Petronzi, vedova del notaio Annibale Dalio, per evitare che due sue nipoti (Giovanna e Margherita Ciaburro di 14 e 15 anni, orfane) si sposassero contro la loro volontà secondo il dettato dello zio paterno Pietro, le spinse alla clausura in combutta con la badessa ed alcune suore. Il vescovo Gambacorta, relazionando alla S. Congregazione, descrisse l'evento narrando che mentre il cappellano don Geronimo d'Avantino stava dove si teneva il legname, entrarono la Petronzi e le sue due nipoti. All'invito del cappellano ad uscire esse non se ne andarono e mentre la baronessa tratteneva l'anziano cappellano, urlando agli accorsi per le grida del sacerdote "[...] dite che crepa don Geronimo, iatevenne allo coro e llà videte, dite che crepa", le giovani superarono la porta della clausura ed entrate nella cucina esclamarono alle astanti "beate voi che havete bon foco" e si sedettero felici. Seguì un processo conclusosi con la scomunica ad Altabella Petronzi, alla badessa Giovanna Dalio, all'inserviente Altabella Giameo ed alle due protagoniste Giovanna e Margherita Ciaburro. Queste però supplicarono il vescovo di ritirare la scomunica versando una cauzione di cento ducati in attesa della risposta Apostolica che disponeva di ritirare la scomunica a tutte, di far uscire dal monastero le due giovani e di procedere o meno, a discrezione del vescovo, contro la badessa[35]. Il 13 dicembre 1635 il vicario vescovile si recò al monastero assieme ad alcuni canonici dove in presenza di tutte le suore, rivolgendosi alle Ciaburro disse:
« | Io sono venuto qui apposta, a farvi uscire dal monastero, voi zitelle Giovanna, e Margarita Ciaburro, come havete mandato a dire [...] ier sera et già si apriranno le porte della clausura, e consegnarvi a Madonna Aurelia Ciaburro, vostra zia, acciò possiate andare alla vostra casa.[36] » |
Le due sorelle risposero:
« | Signore, noi non volimo uscire in modo alcuno dal monastero ma semo risolute di morire nella clausura, et se bene ier sera dicessimo di voler uscire, ci suggerì et persuase a dire a questo modo sore Giovanna Dalio, nostra zia carnale, ma la volontà nostra è di farci monache e morire in questo monastero.[36] » |
Aperta la porta della clausura il vicario invitò nuovamente le giovani ad uscire ma al loro ennesimo rifiuto dichiarò che sarebbe venuto il vescovo a risolvere la questione. Ed il 20 gennaio mons. Gambacorta si portò nel monastero e chiedendo alle ragazze se avevano avuto ripensamenti, queste risposero negativamente ed il vescovo provvide ad accettare la loro volontà dandole l'abito e cambiandole i nomi, ponendo fine a questa vicenda[37].
Alla metà del XVII secolo risultavano essere numerose le istanze di cittadini che da tutte le parti della Diocesi chiedevano di far entrare nel monastero le loro figlie. Nel 1655 la S. Congregazione dei Vescovi sollecitò mons. Marioni alla risoluzione di tale problematica dopo aver ricevuto una lettera, a firma delle suore clarisse, che chiedeva di aumentare il numero massimo di suore di tre unità. Ma interrogate le monache esse smentirono di aver scritto quella lettera, redatta invece da un genitore che aveva visto negarsi l'ingresso di una sua figlia nel monastero[38]. Anche l'Universitas di Cerreto si era interessata della questione protestando anche per l'eccessivo aumento della dote, dai 200 ducati del 1596 ai 400 del 1609, diventando talmente alta da non permettere ai cerretesi di far monacare le loro figlie. Unica eccezione fu suor Francesca Raetano, figlia del fu Vincenzo, la quale portò in dote ben mille ducati[39].
Nel 1638 mons. De Rustici, nella sua visita al monastero, rimproverò le suore Antonia Salomone e Girolama Corrado che si contendevano la direzione del coro arrivando addirittura all'uso di parole ingiuriose. Ma visto che tale comportamento fu commentato, anche se sottovoce, da altre tre monache, il vescovo condannò tutte a sei mesi di carcere senza che avessero nessun rapporto con le altre clarisse; solo una suora era autorizzata a portare loro mattino e sera del mangiare. La loro poca esperienza del mondo e della vita portava spesso queste monache ad avere una caparbietà ed una ostinatezza tipica dei bambini[40]. Esempi di questo comportamento sono due episodi avvenuti nel 1672 e nel 1676.
Dopo la morte di suor Rita Corrado, la sua cella (per diritto di anzianità) doveva toccare a suor Evangelista Gizzi ma se ne impossessarono le nipoti della defunta, Rita e Geltrude, che la diedero a suor Romana Mastracchio. A nulla valsero le preghiere della badessa e le minacce della Gizzi a far desistere la Mastracchio nonostante fosse stata scomunicata dal vescovo. Solo dopo che le altre monache l'avevano isolata, la Mastracchio abbandonò la camera temendo più l'isolamento che la scomunica[41].
Nel 1676, invece, successe che mons. Cito nominò cappellano don Pietro Varrone, canonico della Cattedrale, revocando il mandato a don Mario Cappella, indicato come cappellano dalla badessa. Quando il Varrone andò al monastero trovò le religiose che gli intimarono di andarsene perché esse non volevano nessun altro che don Mario Cappella, aggiungendo che chiunque fosse venuto al suo posto lo avrebbero ammazzato. Dopo alcuni giorni il Varrone tornò dalle suore ma le monache vennero alla grata e lo insultarono "con parole pessime et indegne" ed il sacerdote scappò "non potendo soffrire più dette parolacce". Si portò dunque dalle clarisse il vicario vescovile per portare le suore all'obbedienza ma esse risposero al vicario "Signor no, non volemo obedire, non volemo obedire" gridando più volte tali parole ed aggiungendone altre contro il vescovo, definite nel verbale del processo alquanto piccanti. Di fronte a tale comportamento mons. Cito interdì l'edificio facendo affiggere davanti la porta della chiesa il cedulone dell'interdizione. Le suore contrattaccarono facendo ricorso alla S. Congregazione dei Vescovi che in data 22 luglio 1677 prosciolse le stesse dalla scomunica riconoscendo alla badessa il diritto di nomina del cappellano. Mons. Cito non digerì bene tale decisione dato che nello stesso anno non dette il suo assenso affinché il monastero riscuotesse un credito dall'Universitas di circa 100 ducati[42].
Mons. De Bellis nel 1686, due anni prima del terremoto che distrusse la vecchia Cerreto, continuò l'opera riformatrice dei suoi predecessori ponendo fine ad alcuni usi che avevano luogo nel monastero come quello di trattenersi a lungo nel parlatorio, di non ascoltare la messa ogni giorno, di introdurvi fanciulli e di non vestire uniformemente. Quest'ultima disposizione venne male accettata dalle clarisse ma alla fine esse obbedirono al vescovo. Successe diversamente per un altro editto che mons. De Bellis scrisse nel 1687 e che vietava alle suore di lavare la propria biancheria all'esterno dell'edificio. Infatti l'editto, affisso nel parlatorio tra le due grate, fu bruciato con l'ausilio di una canna passata tra le sbarre e che portava alla sommità "un poco di candela accesa". Le autrici del gesto, suor Andreana Gizzio e suor Romana Mastracchio, spedirono i resti bruciati dell'editto al vescovo, che le condannò al carcere. E visto che le altre clarisse "strepitando fortemente" supportarono la Gizzio e la Mastracchio, furono tutte scomunicate. Ma la badessa dell'epoca, suor Giuditta Mazzacane, chiese perdono a nome suo e delle altre clarisse, ottenendo il ritiro della scomunica dal Vescovo[43].
La cerimonia in cui le educande diventavano monache, detta "professione", era un importante evento dove intervenivano le più autorevoli autorità civili ed ecclesiastiche locali. Al termine del rito un oratore leggeva un'orazione in latino e volgare che veniva poi distribuita anche ai presenti. Non fu un momento di festeggiamento e di gioia la professione che doveva toccare a Maria Cecilia Mazzella di Vitulano il 3 luglio 1740. In quel giorno accadde che il sacrestano Domenico Tacinella pose per errore, contravvenendo alle volontà del vescovo, due sedie di cuoio "per il Sig. Governatore della Contea, avanti la prima fila delle sedie di paglia" che però vennero subito tolte. Giunto il Governatore Gennaro de Porres e suo nipote, egli, forse già prevenuto, ordinò al sacrestano di riportare le poltroncine in cuoio dove si accomodò con il suo accompagnatore. Le suore e la gente intervenuta iniziarono sottovoce a commentare il fatto mentre nessuno osava contraddire la prepotenza del De Porres. Arrivato il vescovo mons. Falangola ed informato dell'accaduto dal cappellano don Francesco Cerro, interdì la chiesa e annullò la cerimonia ordinando di essere riportato nell'Episcopio[44].
Alla fine del XVIII secolo il monastero fu al centro di due diverse vicende di cronaca. La prima riguardò Maria Antonia Cestaro, una giovane suora che fu costretta a prendere il velo a soli sedici anni con la promessa del padre di averla successivamente portata in un monastero a Napoli. Morto il padre, questi non solo dimenticò la promessa fatta alla figlia ma addirittura le assegnò solo 36 ducati annui di rendita contro i 144 del suo cameriere. Di fronte alla caduta di questa speranza, la Cestaro, nel 1783, supplicò mons. Pascale ed il Re Ferdinando IV di trasferirla a Napoli, ma il Sovrano, sentito il parere negativo del vescovo, ricusò la supplica, facendo così trascorrere alla monaca il resto della sua vita nel monastero di Cerreto. Nel 1778, invece, successe che a seguito della morte di suor Maria Angela d'Adona, sua nipote suor Maria Serafina si impossessò delle chiavi della cella dichiarando che "sua zia, quando venne fabbricato il monastero", contribuì con la somma di 40 ducati. La badessa e le altre clarisse fecero ricorso al vescovo mons. Pascale che bocciò l'atteggiamento della d'Adona[45].
Descrizione
Ex monastero (Istituto Leone XIII)
L'Ex monastero delle clarisse, Istituto Leone XIII dal 1930, è un imponente complesso a pianta quadrata con un chiostro interno vasto 1.500 m2 ed un ampio giardino retrostante. Dell'edificio originario destinato ad ospitare le suore Clarisse restano solo, oltre la Chiesa, alcuni usci delle celle sulla facciata verso piazza Roma, il parlatorio e il "carcere", avendo subito l'edificio radicali trasformazioni architettoniche nel XX secolo.
Nell'atrio di ingresso è sito il monumento funebre della prima badessa, Caterina Sanframondi, costituito da un bassorilievo con la sua effige e gli stemmi degli Angioini e dei Sanframondi, e da una lunga iscrizione in latino, aggiunta nel 1846. A sinistra vi è l'accesso al locale dove un tempo era sita la ruota dei rejetti[46] che permetteva alle monache di scambiare dei manufatti con l'esterno. Il locale successivo è invece il parlatorio. Qui le suore discutevano, tramite una grata, con i parenti. Interessante è il percorso che le clarisse facevano per giungere al parlatorio, dietro le grate. Esso, ancora intatto, è costituito da un lungo insieme di corridoi scuri, illuminati solo al termine da un piccolo uscio sito in alto nella parete. La cella del "carcere", destinata ad ospitare le suore disobbedienti, è angusta e non ha nessuna finestra né apertura verso l'esterno.
Il refettorio era ospitato in un vasto locale oggi divenuto sede delle riunioni del Consiglio Generale della Comunità Montana del Titerno mentre sotto l'attuale cucina vi sono il granaio ed una serie di cunicoli che passando al di sotto del vasto chiostro univano le diverse ale del complesso. Un alto muro cinge invece il retrostante giardino dove sono site le sepolture delle suore ed un edificio oggi in abbandono dove vi sono diverse vasche per il lavaggio delle vesti, un grande forno e l'antica cucina[47].
All'angolo fra piazza Roma e via Telesina, nell'isolato del monastero, è sita la "Vecchia fucina", un'antica bottega di fabbri.
Chiesa
La chiesa delle Clarisse o di Santa Maria Mater Christi, annessa al monastero, è ad aula unica con pronao, altari laterali e cupola. L'esterno precedentemente ai recenti lavori di restauro era in tufo grigio a vista.
Nell'interno, sui cornicioni delle pareti a sinistra e dietro l'altare maggiore sono site delle grate lignee dorate da cui le suore clarisse ascoltavano la messa. Il pronao della chiesa è costituito da un'ampia sala pavimentata interamente in riggiole (mattonelle) in ceramica cerretese del XVIII secolo).
Altari a sinistra
- Primo altare: venne costruito dalla badessa Anna lucia De Nigris originariamente in legno per poi essere rifatto in marmi policromi intarsiati nel 1738, a seguito di ordine vescovile. Sull'altare è posta una tela barocca raffigurante l'Assunzione della Vergine e con in basso lo stemma dei De Nigris.
- Secondo altare: fatto erigere da suor Marianna Mazzacane nel 1746 e consacrato da Mons. Falangola l'anno successivo, con un dipinto raffigurante l'Adorazione dei Magi;
- Terzo altare: voluto dalle suore Angela Teresa e Maria Maddalena Cestari, con una tela settecentesca raffigurante l'Immacolata fra i Santi Vincenzo e Gregorio.
Presbiterio
Precede il presbiterio l'arco maggiore sui cui pilastri sono due dipinti ovali raffiguranti Santa Chiara e San Francesco. L'altare maggiore, discostato dalla parete di fondo, è in marmi policromi intarsiati e risale al 1738. Alla sua base vi è un bassorilievo raffigurante il Buon pastore. Sulla parete di fondo è una tela settecentesca raffigurante la Pentecoste con la Vergine attorniata dagli apostoli.
Dietro l'altare maggiore sono i resti dell'antico pavimento della chiesa, in ceramica cerretese, con motivo a rosa dei venti. A sinistra di chi vede l'altare è una finestrella dalla quale le suore ricevevano l'eucaristia.
Sacrestia
In un vasto locale attiguo alla sacrestia vi è un'esposizione di reperti di interesse storico ed artistico che ripercorrono la storia del monastero ed in particolar modo quella delle Suore di Carità di Nostra Signora del Buono e Perpetuo Soccorso, dalla loro venuta a Cerreto Sannita nel 1888 sino ai giorni nostri.
Altari a destra
- Primo altare: vi è un Crocifisso ligneo. Il tendaggio retrostante copre un affresco del XIX secolo raffigurante Gerusalemme, di mano poco felice
- Secondo altare: dipinto settecentesco raffigurante Santa Maria degli Angeli
- Successivo al secondo altare vi è il pulpito barocco in legno riccamente intagliato e dorato, con decorazione a racemi.
Cappella
Parallela alla chiesa, ma più piccola, è una Cappella contenente un altare ligneo e delle sculture settecentesche.
Note | |
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Bibliografia | |
+ Renato Pescitelli, La Chiesa Cattedrale, il Seminario e l'Episcopio in Cerreto Sannita, Laurenziana, 1989
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Voci correlate | |
Collegamenti esterni | |
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