Questione rosminiana
La Questione Rosminiana è il dibattito sorto intorno al sistema e al pensiero di Antonio Rosmini sull'ortodossia cattolica di alcune opere del Roveretano. Si svolse tra l'Ottocento e il Novecento.
Genesi della Questione in senso stretto
La Questione nacque dalla discussione su due pronunciamenti della Santa Sede, riguardanti il pensiero e le opere di Antonio Rosmini; i pronunciamenti apparivano controversi. I due decreti sono:
- il Decreto della Congregazione dell'Indice del 3 luglio 1854, conosciuto come Dimittantur, nel quale le opere del Roveretano vennero prosciolte da ogni accusa e dubbio di eresia e di errore contro la fede;
- il Decreto della Congregazione del Sant'Ufficio, conosciuto come Post obitum, del 14 dicembre 1887, reso pubblico il 7 marzo 1888, in cui venivano condannate quaranta proposizioni tratte dalle opere postume di Rosmini, "le quali non sembravano consone alla verità cattolica".
I due Decreti, per quanto non affrontassero le stesse opere ma comunque il pensiero del medesimo autore, presentavano due soluzioni diametralmente opposte: da ciò nacque la Questione Rosminiana.
Lo sviluppo del dibattito
La prima polemica e il Decreto del silenzio del 1843
La prima polemica e forte contestazione del pensiero rosminiano fu originata dalla pubblicazione di un'opera del Roveretano intitolata Trattato della Coscienza Morale, nei primi mesi del 1840.
Le accuse mosse in questa prima polemica nacquero dalla rigorosità con cui l'autore conduceva il suo discorso contro il lassismo, ma soprattutto da alcune interpretazioni date dall'autore sulle nozioni di "peccato" e di "colpa" nella trattazione della dottrina del peccato originale.
Questa prima polemica era conseguenza della "sfida che fin dal periodo giovanile Rosmini affronterà con tutte le sue forze, ed è quella relativa alla possibilità di tentare un fecondo innesto della fede cristiana nella modernità filosofica, attraverso un "progetto culturale" atto ad elaborare una enciclopedia cristiana da contrapporre a quella razionalistica del secolo dei Lumi e dei suoi rappresentanti"[1].
A questa prima polemica fu posto termine dalla Santa Sede: il 1 marzo 1843 il papa Gregorio XVI indisse una Congregazione di sette cardinali e, sentito il loro parere, impose con decreto il silenzio sia a Rosmini che ai suoi avversari.
La messa all'Indice del 1849
Con la salita al soglio pontificio di Pio IX la polemica contro Rosmini tornò ad incendiarsi, aggravata da motivazioni politico-ecclesiastiche che si aggiunsero a quelle teologiche. È di questo tempo il periodo romano di Rosmini, dapprima con la missione diplomatica presso la Santa Sede affidatagli dal governo piemontese, e quindi nel suo servizio alla stessa Santa Sede; sembra che il papa avesse l'intenzione di crearlo cardinale.
Entrambe le situazioni romane terminarono con un fallimento: la prima per il cambiamento di finalità della missione, e la seconda per l'accanimento contro il Rosmini dei suoi avversari.
La polemica si incentrò intorno a due opere che Rosmini aveva pubblicato nel 1848/49: Delle cinque piaghe della santa Chiesa e La costituzione civile secondo la giustizia sociale. Gli avversari ebbero la meglio e i due scritti furono posti all'Indice nel giugno 1849; la condanna fu notificata al Rosmini il 13 agosto, ad Albano, dove risiedeva. Egli prontamente si sottomise:
« | Coi sentimenti del figliolo più devoto ed ubbidiente alla Santa Sede, quale per grazia di Dio sono sempre stato di cuore e me ne sono anche pubblicamente professato, io Le dichiaro di sottomettermi alla proibizione delle nominate operette puramente, semplicemente, e in ogni miglior modo possibile: pregandola di assicurare di ciò il Santissimo nostro Padre e la Sacra Congregazione. » |
L'effetto di questa condanna si fece presto sentire e, di fronte al vivace dibattito, molti vescovi si preoccuparono di precisare al proprio clero e ai propri fedeli quale atteggiamento bisognasse tenere.
Una grave ombra di sospetto, non solo in campo scientifico, cadde su Rosmini e sulla vita delle case dell'Istituto della Carità da lui fondato.
La seconda polemica
Dopo il periodo romano le opposizioni alle dottrine rosminiane e le accuse di errori contro la fede si fecero più ardite e forti.
Fin dal gennaio 1848 era uscito un opuscolo anonimo intitolato Postille alle dottrine rosminiane; l'autore venne facilmente individuato: era il padre Antonio Ballerini, gesuita. Sempre del medesimo, ma con uno pseudonimo, era uscita nel 1850 a Milano un'opera in due volumi intitolata: Principi della scuola rosminiana esposti in lettere familiari da un prete bolognese.
A questi due testi si aggiunse nel 1851 un poderoso saggio del conte Avogadro della Motta sul socialismo. L'influsso di questi scritti antirosminiani sui vescovi fu notevole: si chiedeva a Pio IX di condannare al più presto in maniera definitiva le dottrine rosminiane.
Pio IX commise nel 1850 alla Congregazione dell'Indice il compito di esaminare le Postille e di giudicare delle accuse contenute in esse. Il 19 dicembre 1850 si ebbe il rescritto della Congregazione Generale col quale le Postille vennero rigettate riconoscendone la falsità; ma non furono proibite perché, a detta di alcuni, nessuno le aveva denunciate, o perché, a detta di altri, non vi si riscontrarono i caratteri di libello infamante.
Il livore delle accuse però crebbe di tono, e divenne così aspro e virulento da indurre Pio IX nei primi mesi del 1851 a rinnovare ad ambedue le parti il decreto di silenzio che già il suo predecessore Gregorio XVI aveva imposto nel 1843.
L'esame delle opere di Rosmini e il decreto del 1854
Pio IX intendeva arrivare a risolvere definitivamente l'aspro contrasto, e non si accontentò di imporre il silenzio; a metà del 1851 affidò alla Congregazione dell'Indice il compito di esaminare le Lettere bolognesi con l'Appendice del Della Motta e tutte le opere del Rosmini. Scelse lui stesso sei consultori, e successivamente aggiunse altri due consultori; l'esame si protrasse per quattro lunghi anni.
Il 3 luglio del 1854 si tenne la Congregazione Generale con la presenza di tutti i consultori e di otto cardinali; il papa stesso, fatto straordinario, volle presiederla. Tutti, eccetto uno, convennero che le opere di Rosmini erano immeritevoli di censura, ma non si trovò concordia in merito all'esprimere una formale condanna dei libelli antirosminiani.
Dopo cinque ore di discussione, raccolti tutti i pareri, il papa decise di riservare a sé il giudizio definitivo sulla questione.
Il papa esitò tra diverse soluzioni tra cui un breve pontificio, e la pubblicazione aperta della sentenza. Tenuto conto dei vari aspetti della situazione e della somma delicatezza dell'affare, Pio IX decise di far redigere dalla Congregazione la sentenza di dimissione dalle accuse secondo la sua mente, e di farla comunicare in secretis, e non pubblicamente, alle due parti.
Il Decreto noto come Dimittantur fu comunicato a voce al procuratore di Rosmini a Roma, don Bertetti, il 10 agosto. Ai primi di settembre don Bertetti lo ebbe per iscritto. In esso venivano assolte le opere di Rosmini, ma non venivano condannati i libelli diffamatori.
Dopo il Dimittantur
Il decreto della Congregazione dell'Indice non ebbe l'esito sperato da Pio IX.
Gli avversari di Rosmini si adoperarono per mezzo dei giornali culturali di allora perché non si diffondesse la notizia della sentenza di assoluzione, e quando ciò divenne impossibile, incominciarono a far circolare interpretazioni riduttive od accomodate ai propri fini.
Neppure la morte di Rosmini, avvenuta il 1 luglio 1855, ad un anno di distanza dal Dimittantur, valse a stemperare e gli attacchi e le difese.
Dopo un breve periodo di apparente quiete, quando cominciarono ad essere pubblicate alcune opere postume del Roveretano, lo scontro si riaccese, giungendo via via a toni sempre più aspri, soprattutto intorno all'affermazione di un contrasto sostanziale tra Rosmini e San Tommaso d'Aquino.
La Santa Sede dovette intervenire più volte per ribadire il vero senso del Dimittantur, o attraverso il Maestro del Sacro Palazzo, o attraverso la stessa Congregazione dell'Indice, ma con scarsi risultati[2].
Oltre alle polemiche portate avanti sui periodici culturali di entrambe le parti, uscirono vari studi e libri, a favore di Rosmini o contro di lui.
Tra le opere contrarie si cita Il rosminianismo, sintesi dell'ontologismo e del panteismo, del gesuita Giuseppe Maria Cornoldi (1881)[3]. Afferma, però, il Lorizio che l'opera del Cornoldi "non può non aver influenzato il lavoro dei censori e in particolare quello di coloro che hanno provveduto alla stesura delle Quaranta proposizioni"[4].
Tra le opere a favore si ricordano:
- il poderoso e vasto lavoro di monsignor Pietro Maria Ferrè, vescovo di Casale, intitolato Degli universali secondo la teoria rosminiana confrontata con la dottrina di San Tommaso, ed uscita dal 1880 al 1886 in undici volumi;
- ed anche il corposo testo Antonio Rosmini e i gesuiti dinanzi a San Tommaso d'Aquino di Pietro De Nardi, pubblicato a Torino nel 1882, in polemica diretta contro le posizioni del Carnoldi.
Negli ultimi decenni del XIX secolo la polemica prese anche un'ulteriore grave risvolto al di fuori del dibattito teologico e filosofico:
« | (..) dopo l'occupazione di Roma, a rendere ancora più profondo il solco – se non addirittura l'abisso – tra accusatori e difensori di Rosmini, si aggiunse il fatto che i "rosminiani" erano generalmente in favore di un'intesa fra Stato e Chiesa: "conciliatoristi", come si chiamavano. E gli "antirosminiani" erano schierati sull'altra sponda, quella degli "intransigenti" (..). In particolare, poi, non poteva non preoccupare le autorità ecclesiastiche il fatto che i riflessi della polemica entravano anche nei seminari (..). Infine, quel "battagliare" tra esponenti del clero, sia diocesano, sia regolare, non poteva essere di edificazione ai fedeli (..). Un intervento autorevole era ormai sentito necessario e improrogabile. » | |
(Remo Bessero-Belti, La questione rosminiana, Stresa, 1988)
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La condanna delle Quaranta proposizioni (1888)
La pubblicazione dell'enciclica Aeterni Patris di Leone XIII (4 ottobre 1879) fu salutata dagli avversari di Rosmini come un'implicita condanna del suo sistema, e si parlò esplicitamente ed apertamente di un sistema affetto da errori di ontologismo, panteismo, confusione dell'ordine naturale col soprannaturale, traducianismo o generazionismo.
Il 7 marzo 1888 una lettera del segretario della Congregazione del Sant'Ufficio, Cardinal Raffaele Monaco La Valletta comunicava a tutti i vescovi il Decreto Post Obitum con cui venivano condannate quaranta proposizioni tolte dalle opere postume di Antonio Rosmini. Il Decreto portava la data del 14 dicembre 1887.
Due consultori vennero chiamati ad esprimere il loro giudizio: il gesuita Camillo Mazzella e Monsignor Francesco Satolli.
- Mazzella propose due possibilità: "Un atto Pontificio, col quale si condannasse la Teosofia di Rosmini indicandone i precipui errori come [[papa Pio IX|Pio IX] aveva fatto nel 1857 con Anton Günther". Oppure "un mezzo più mite, cioè dichiarare una serie di proposizioni della Nota e del suo Voto con la qualifica: tolerari non possunt ovvero tuto doceri non possunt". Mazzella stesso quindi oscillava fra la qualifica di erroneo e quella di non tuto ("non sicuro").
- Satolli, pur essendo molto critico, si orientò diversamente: ritenne infatti che Rosmini avesse mantenuto "razionalmente tutti i dogmi", ma che il suo sistema non potesse essere approvato.
I due censori concordarono indirettamente nel ritenere che Rosmini avesse inteso mantenere tutte le verità cattoliche, senza negarne alcuna, e che fosse, piuttosto, il suo sistema a risultare inaccettabile[5].
Comunque, pur dopo tante aperte imputazioni degli avversari di Rosmini, non si faceva cenno alcuno di eresie o di errori, né si ritenne di introdurre neppure la più tenue delle note teologiche, riguardo alle Quaranta Proposizioni, ricorrendo invece a una formula piuttosto generica e forse non molto usitata: "haud consonae videbantur catholicae veritati ("non sembravano consone alla verità cattolica")[6]
Delle Quaranta Proposizioni condannate dal decreto del Sant'Uffizio, ventuno sono tratte dalla Teosofia, lasciata incompiuta da Rosmini, e che rappresenta senza dubbio la sua più alta speculazione filosofica; nove sono tratte dall'Introduzione del Vangelo secondo Giovanni commentata, una profonda meditazione filosofica, teologica ed ascetica sul prologo di San Giovanni, anch'essa lasciata incompiuta dall'autore; le altre dieci proposizioni sono prese da altre opere già esaminate e prosciolte dal decreto Dimittantur del 1854; il Decreto spiega che in dette opere le dottrine condannate si trovavano già "in germe", e che per questo anche da dette opere sono state tratte proposizioni da condannare.
La formulazione delle Proposizioni risulta composita e complessa: alcune risultano composte prendendone parte da un contesto e parte da un altro contesto della stessa opera, altre addirittura prendendone parte da un'opera e parte da un'altra.
Dal Post Obitum alla Nota del 1 luglio 2001
Mentre gli avversari, facendosi forti del Decreto, continuarono ancora a sostenere che l'intero sistema rosminiano era gravemente infetto da errori contro la fede, i suoi sostenitori lavorarono per dimostrare come queste proposizioni non rispecchiassero il vero pensiero di Rosmini.
Con il passare dei decenni, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, a poco a poco la polemica si fece più pacata e serena, permettendo studi più oggettivi.
Questa proficua indagine scientifica approdò il 1 luglio 2001 alla pubblicazione di una Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sul Valore dei decreti dottrinali concernenti il pensiero e le opere del Rev.do Sacerdote Antonio Rosmini Serbati. Essa afferma che
« | si deve riconoscere che una diffusa, seria e rigorosa letteratura scientifica sul pensiero di Antonio Rosmini, espressa in campo cattolico da teologi e filosofi appartenenti a varie scuole di pensiero, ha mostrato che tali interpretazioni contrarie alla fede e alla dottrina cattolica non corrispondono in realtà all'autentica posizione del Roveretano. » | |
(Nota, n. 6)
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Note | |||||||
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