San Giobbe
San Giobbe Personaggio dell'Antico Testamento | |
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Santo | |
Fra Bartolomeo, Giobbe (1514 - 1516), olio su tavola; Firenze, Galleria dell'Accademia | |
Nascita | V secolo a.C. |
Morte | ? |
Ricorrenza | 10 maggio |
Devozioni particolari | Invocato dai lebbrosi e dagli ipocondriaci |
Patrono di | Allevatori dei bachi da seta |
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Scheda su santiebeati.it |
Nel Martirologio Romano, 10 maggio, n. 1:
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San Giobbe (V secolo a.C.; † ...) è il protagonista dell'omonimo libro[1] sapienziale dell'Antico Testamento; è una figura della letteratura sapienziale del popolo ebraico e anche dei popoli vicini.
Il suo nome si scrive in ebraico אִיּוֹב, Iyyov. Esso significa "perseguitato", "che sopporta le avversità". Giobbe rappresenta l'immagine del giusto la cui fede è messa alla prova da parte di Dio.
Personaggio biblico
Nonostante le sue caratteristiche di giusto, il nome di Giobbe viene dalle prove che Satana gli ha fatto subire. Giobbe sopporta con rassegnazione la perdita dei suoi beni, dei suoi figli e anche le sofferenze dovute alla sua malattia. Inoltre egli sopporta i rimproveri di tre suoi amici, senza bestemmiare una sola volta il suo Dio. Dio gli spiegherà in seguito che non bisogna giudicare l'operato divino dal punto di vista umano. Infine lo ristabilirà in tutti i suoi averi raddoppiandoglieli.
Egli ebbe sette figli e tre figlie che morirono nel crollo della casa di uno di loro all'inizio delle sue prove. Dopo ebbe di nuovo sette figli e tre figlie quando Dio lo riabilitò al termine della sua vicenda. Le sue ultime tre figlie sono chiamate: Colomba, Cassia e Fiala di Stibio (cfr. Giobbe 42,14)
Giobbe, la sofferenza del giusto
Per approfondire, vedi la voce Libro di Giobbe |
Giobbe rappresenta la contraddizione tra il giusto che soffre senza colpa e il malvagio che invece prospera: egli è la metafora di una ricerca della giustizia che dovrebbe colpire chi fa il male e assolvere e premiare il giusto.
Presso gli ebrei, nel periodo dell'esilio babilonese vigeva la convinzione che il malvagio venisse giustamente punito con il dolore o la perdita di beni materiali, come effetto immediato, quasi meccanico, delle sue cattive azioni mentre il buono, quando agiva bene, veniva subito premiato con l'abbondanza e la fecondità.
Per gli ebrei (come per le popolazioni semitiche) l'amicizia con Dio dell'uomo giusto è portatrice di una ricompensa terrena. Il caso di un giusto colpito dalla sofferenza doveva essere ritenuto come un incidente limitato nel tempo da superare con la prudenza, la pazienza, le virtù del saggio che avrebbero portato alla fine del dolore e al premio immediato.
Quando si constatava che l'uomo ingiusto godeva e prosperava nonostante la sua malvagità, la morale ebraica, come anche quella greca, come emerge dalle tragedie del ciclo di Edipo, sosteneva che la fortuna di questi sarebbe stata di breve durata e che la giustizia divina sarebbe intervenuta a riportare in equilibrio i piatti della bilancia condannando se non lui, la sua progenie secondo il principio che i figli pagano per le colpe dei padri. Questo poteva accadere anche per il giusto che, forse inconsapevolmente, stava scontando l'effetto di azioni malvagie commesse dai propri padri. Questo quando Geremia (VII secolo a.C.), ma soprattutto Ezechiele (VI secolo a.C.), avevano invece in modo chiaro detto, in anticipo su il Libro di Giobbe, probabilmente del V secolo a.C., che i figli non pagano per le colpe dei padri e i padri non pagano per le colpe dei figli, ma ognuno paga per sé. (cfr. Ezechiele 14,14-20). Fatto poi riconfermato nei vangeli da Gesù nella pericope della guarigione del cieco nato Gv 9,1-41 .
Ma nel testo biblico di Giobbe, si nota come il problema del male viene trattato con una totale assenza di preconcetti di carattere religioso che possono spiegare la convinzione di un giusto che paghi per le colpe di altri. La ricerca di Giobbe non si accontenta di spiegazioni superficiali o di quelle della teologia ufficiale, convinta di poter capire Dio e il suo agire secondo principi razionali e teologici.
Tale spregiudicatezza è dovuta soprattutto alla cultura dello stesso autore; infatti, Giobbe, che nel testo risulta vivere in una zona tra l'Arabia e il paese di Edom, doveva essere in parte non appartenente al popolo d'Israele: era probabilmente un ebreo-arabo rappresentante della cultura laica e in quanto scriba, la classe da cui il re prelevava i suoi funzionari, era in contrapposizione alla stessa cultura sacerdotale ebraica.[2]
Culto
Il suo nome compare già nel Martyrologium Hieronymianum e successivamente in tutti gli altri martirologi. È spesso raffigurato negli affreschi degli antichi cimiteri cristiani come in numerosissimi sarcofagi d'Italia e della Gallia.
La pellegrina Eteria ci parla di una chiesa eretta in onore di Giobbe nella città di Carneas, ai confini tra l'Arabia e l'Idumea, e della scoperta della sua tomba:
« | Al vescovo di quella città, considerata come terra natale di Giobbe, si presentò un giorno un monaco dicendogli di aver ricevuto, in una visione, l'ordine di scavare in un luogo determinato. Il vescovo allora, assecondando il desiderio del monaco, fece iniziare i lavori di scavo e quasi subito si trovò una grande caverna, lunga cento metri, alla fine della quale vi era una lapide con il nome di Giobbe che ne indicava il sepolcro. Sul luogo fu poi iniziata la costruzione della chiesa. » |
Giobbe fu venerato anche in Occidente. Gli furono dedicate delle chiese, come a Venezia, a Bologna e in Belgio, degli ospedali e lebbrosari. Nella liturgia latina è soltanto ricordato nel breve elogio del Martirologio Romano il 10 maggio.
Le liturgie orientali invece hanno anche un Ufficio in suo onore, e precisamente il 27 aprile in Abissinia, il 6 maggio nelle Chiese greca e melchita, il 22 maggio a Gerusalemme e il 29 agosto nella Chiesa copta.
Note | |
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Bibliografia | |
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Voci correlate | |
Collegamenti esterni | |
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