San Calogero di Brescia

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San Calogero di Brescia
Laico · Martire
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San Calogero di Brescia (XVII secolo), affresco; Civate (CO), Chiesa di San Calocero, cripta
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San Calogero di Brescia († 121) è stato un soldato e martire romano il cui nome è spesso riportato anche nella forma di San Calocero, fu martirizzato ad Albenga sotto l'imperatore Adriano (117-138) e la cui memoria liturgica ricorre il 18 aprile.

Il racconto agiografico

La sua storia è riportata dagli atti dei santi Faustino e Giovita (Passio beatissimi martyris Faustini et Iovite - Epitome della I, II e III parte della "Legenda Maior").

Originario di Brescia, Calocero, che le fonti agiografiche chiamano anche col nome romano di Caio, si era convertito al Cristianesimo grazie all'opera missionaria dei due martiri. Anche loro infatti erano soldati bresciani e probabilmente i tre militavano nella medesima coorte, infatti, raccontano gli agiografi, vennero tutti e tre trasferiti a Milano per essere processati.

Il processo si svolse alle Terme d'Ercole e ovviamente nessuno dei tre abiurò la nuova fede. Fu così che, condannati a morte, vennero condotti presso un tempio fuori le mura, poco lontano dall'Anfiteatro, in uno spiazzo un tempo usato per le corse dei cavalli[1].

La zona in realtà si prestava ben poco alle corse, poiché era lasciata a prato e non aveva alcun tipo di pavimentazione che rendesse le corse sicure: correre coi cavalli in quella zona significava in realtà rischiare la morte o voler dimostrare un insolito coraggio. Era infatti il luogo delle cosiddette "corse dei plaustri", che si svolgevano a Milano (come in altre città dell'Impero) per soddisfare gli istinti morbosi della plebe, avida di passare il tempo tra spettacoli e gare che garantissero forti emozioni. La gente si accalcava esaltata per assistere alle corse dei plaustri, come ai combattimenti gladiatorii del resto, come alle corse nell'anfiteatro e come a tutti gli altri ludi circenses della tradizione romana; ma nel prato fuori la porta Ticinensis di Milano, in particolare, si trovavano ormai sempre meno coraggiosi (o pazzi) disposti a gareggiare, per cui, per non rinunciare al divertimento, era da tempo invalso l'uso di far correre i condannati a morte, legati a carri lanciati a folle velocità tirati da cavalli imbizzarriti. Il più delle volte, i poveri aurighi coatti finivano col ribaltarsi e rompersi l'osso del collo, tra gli applausi della folla.

Questa fu la sorte riservata a Caio, a Faustino e a Giovita, i tre ex ufficiali dell'esercito imperiale, colpevoli di alto tradimento; e tutti si aspettavano questa fine cruenta quando ognuno dei tre venne legato a un carro, opportunamente trainato da cavalli che si faticava a trattenere.

Al segnale convenuto, i cavalli vennero liberati e i carri partirono a rotta di collo, tra gli urli e i fischi della folla. Ma un prodigio deluse la turba: i tre Santi riuscirono a governare i propri carri e riuscirono a fuggire così dal patibolo, evitando (per questa volta) il martirio. Caio Calocero in particolare riuscì a prendere la strada per Vigevano per poi proseguire fino ad Asti, rifugiandosi nella comunità cristiana locale.

Lì convertì al cristianesimo Secondo, che andò a Milano a farsi battezzare e ad aiutare i vecchi amici Faustino e Giovita, che erano rimasti nella città, nascondendosi nella locale comunità cristiana, mentre Calocero, non si sa bene per quale ragione, si trasferì ad Albenga, dove continuò la sua opera missionaria.

Ma venne scoperto dalla polizia imperiale che stavolta pensò bene di decapitarlo senza affidarsi a cavalli o altri animali per evitare altre sorprese.

L'esecuzione avvenne presso l'antica foce del Centa, in località Campore, il 18 aprile dell'anno 121.

Culto

Reliquiario a busto di san Calocero (fine XIV secolo), argento dorato; Albenga, Museo Diocesano e Battistero paleocristiano

Il ricordo di Calocero divenne presto culto locale limitato alle diocesi di Brescia, Milano, Asti, Ivrea e Tortona. Presso Albenga, in località Monte Castelleremo, vi è una cappelletta detta di San Calocero. In regione Doria, in prossimità dell'imbocco della galleria dell'attuale strada statale Aurelia in direzione di Alassio, possono ancora osservarsi i ruderi della prima basilica cristiana di Albenga, eretta attorno ai secoli IV e V e dedicata a San Calocero. L'area archeologica relativa al sito pluristratificato di San Calocero comprende i resti di una chiesa tardo-antica con successive fasi altomedievale e medievale di un monastero di Benedettine e Clarisse, abbandonato alla fine del XVI secolo.

La presunta tomba di San Calocero è conservata ad Albenga nel Museo Civico Ingauno, mentre nel Museo Diocesano è esposto il busto reliquario di San Calogero (fine XV secolo) e nella Cattedrale di San Michele è conservata l'urna con le reliquie del Santo (fine XVII secolo). Secondo un'altra tradizione, verso la metà del IX secolo le reliquie del martire furono trasferite nell'Abbazia di San Pietro al Monte, a Civate. In realtà attualmente a Civate le supposte reliquie del Santo sono conservate nella chiesa edificata all'interno delle mura del paese, dedicata appunto al nome di San Calocero. A lui è anche dedicato il pregevole oratorio d'epoca romanica di Caslino d'Erba (CO).

Basi storiche e elementi folkloristici del racconto agiografico

A Milano è probabilmente sopravvissuta fino ai giorni nostri la memoria del (mancato) martirio di San Calocero nella toponomastica viaria del centro storico della città: non lontano da Porta Ticinese infatti si trova Via S. Calocero, dove ora si trova la chiesa di San Vincenzo in Prato. Appunto il nome di questa chiesa, in cui sopravvive il riferimento a un non meglio precisato "prato", fa pensare che in quella zona fosse da sempre presente un'area non edificata - lasciata a prato, appunto - ma il fatto che comunque lì sia stata eretta una chiesa legittima l'ipotesi più specifica che quell'area non fosse stata edificata perché ritenuta per tradizione sacra. Giovanni Antonio Castiglione, vicario presso la basilica di San Vincenzo (1620-1631), in "Mediolanenses Antiquitates", descrive una lapide da lui rinvenuta nelle fondazioni della chiesa, che successivamente il Mommsen interpretò come una dedica a Giove Ottimo Massimo - a testimonianza dell'esistenza di un tempio d'epoca romana.

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In effetti, la tradizione agiografica circa i Santi Faustino e Giovita parla di un tempio romano nella zona, un edificio sacro pagano che sarebbe crollato in seguito a un periodo di forti piogge, rivelando tra l'altro l'esistenza di una sorgente; sul luogo del crollo allora venne riedificata in seguito una chiesa cristiana, dedicata alla Madonna (Santa Maria della Rotonda, sarebbe stato il nome dato successivamente). Questa chiesa probabilmente esisteva già ai tempi di Sant'Ambrogio - ed è a essa verosimilmente che egli si riferisce quando parla della Basilica Vecchia fuori le mura. L'edificio sacro fu poi il nucleo attorno al quale si costruì un nuovo quartiere. La sorgente pare diventasse rinomata per la salubrità delle acque che ne sgorgavano e il punto preciso della fonte pare fosse custodito sotto l'altare della chiesa. La fonte era nota col nome di Fonte di San Calocero. Successivamente, la chiesa venne ampliata e dedicata a San Vincenzo, il cui nome è tuttora legato all'edificio sacro e in cui un affresco tramanda la testimonianza del miracolo della fonte. Si ha notizia però di un Oratorio di San Calocero, eretto a fianco della chiesa di San Vincenzo, attorno al quale venne poi costruito un monastero femminile. L'Oratorio di San Calocero venne irreparabilmente danneggiato durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e fu purtroppo demolito.

Ad Albenga, d'altronde, nel cui nome si ravvisa la radice "alb" che in celtico raffigura l'oppidum e che guarda caso ritroviamo in uno dei primi nomi dati, secondo Paolo Diacono, all'insediamento urbano di Milano (Alba Insubrium), è sopravvissuto fino ai nostri giorni il complesso del monastero di San Calocero, ormai abbandonato e trasformato in zona archeologica, che si vuole sorto presso il luogo del martirio e che avrebbe custodito le spoglie mortali del Santo evangelizzatore della zona, finché queste non vennero traslate nella chiesa della città. Ma un'altra tradizione, che sembra cozzare con quella ligure e che ha diviso gli studiosi, ci dice anche che il luogo di sepoltura attuale delle spoglie mortali di San Calocero è Civate, paese del Lario Lecchese. La tomba attuale è custodita nella chiesa, dedicata appunto al Santo, edificata all'interno delle mura del paese; ma pare che originariamente le spoglie fossero state traslate nella chiesa di San Pietro al Monte, eretta in una zona verosimilmente sacra fin dai tempi dei Celti, come sembra dimostrare la Leggenda di San Pietro al Monte di Civate, in cui parte rilevante ha la presenza di una fonte d'acqua dai poteri miracolosi.

Dall'altro versante del Monte di Civate, poi, sorge un altro paese, Caslino d'Erba, la cui principale attrazione è data dalla chiesa romanica della Madonna di San Calocero, in un'area sacra ove venne rinvenuta un'interessante lapide romana in cui, seppur con qualche dubbio e difficoltà, sembra potersi leggere il voto che un fedele fa "alle Linfe e alle Acque", sembrando darci la conferma così del fatto che l'area in questione fosse in origine un vero e proprio monte sacro, sede terrena degli spiriti delle acque.

Va poi ricordato che il luogo dell'effettivo martirio del Santo è situato dalla tradizione di nuovo presso l'acqua - alla foce di un fiume. E a questo proposito infine va notato che sia la piana di Albenga, creata dal fiume Centa, che la zona di Civate e Caslino, erano in passato soggette a frequenti alluvioni e frane (Caslino ad esempio venne addirittura abbandonato e ricostruito metri più a valle - restando l'unico edificio dell'insediamento originario proprio la chiesa della Madonna di San Calocero), dalle quali le popolazioni esasperate speravano di potersi proteggere affidandosi all'intermediazione delle divinità - che originariamente erano di tradizione celtica, per fondersi poi con quelle cristiane.

Da tutto ciò sembra potersi suggerire che il culto di san Calocero, attraverso la mediazione del folklore, si sia sovrapposto a un preesistente culto pagano delle acque, ristretto in ambito locale, probabilmente tramandato da una particolare comunità celtica che si era insediata nel territorio tra il Lario, la piana milanese e le terre verso i Liguri.

Interessante in tal senso riferirsi anche al culto milanese di San Calimero che la tradizione vuole martirizzato mediante affogamento in un pozzo tuttora visibile nella cripta della Basilica di San Calimero.Peraltro San Nazaro e San Celso sarebbero stati affogati, analogamente, in un pozzo custodito nel monastero della poco lontana chiesa di Sant'Apollinare.

Note
  1. In effetti a Mediolanum esisteva un circo, per le corse dei carri; era un tratto rettilineo e costeggiava le mura nei pressi del palazzo imperiale. L'anfiteatro, dove si tenevano gli spettacoli dei gladiatori, era invece fuori le mura. Fino a cent'anni fa si metteva in dubbio non solo la sua ubicazione, ma anche la sua esistenza, nonostante il toponimo "Via Arena". Oggi c'è un parco, con interessanti resti delle fondazioni dell'edificio. Dall'Anfiteatro, procedendo verso sud ovest, lasciandosi sulla destra la Porta Ticinese, si arrivava in uno spiazzo, dominato da un tempio ormai diroccato. Era probabilmente un'area che in origine, quando Milano era ancora la Midland dei Celti, era considerata sacra: un nemeton, ossia una radura circondata da olmi verosimilmente consacrata a Taranis, dio del fulmine; è anche molto verosimile che lì sgorgasse una sorgente, ritenuta miracolosa dalla popolazione. Nel 222 a.C., alla conquista di Milano, il console Marcello aveva sostituito il tempio celtico con uno dedicato a Giove (anch'esso divinità del fulmine) e l'area era rimasta sacra per secoli, conservando un ampio spiazzo tutt'attorno dove i fedeli potevano radunarsi per pregare innanzitutto, ma anche semplicemente per riposare, far festa e ritrovarsi come comunità. Col passare del tempo e il mutare delle consuetudini, i passatempi della comunità erano diventati più rozzi e l'area sacra del tempio di Giove fuori le mura era diventata pista per le corse, mentre il tempio, abbandonato a sé stesso, aveva subito sempre più i danni del tempo.
Bibliografia
  • AA.VV., Historia Sanctorum
  • Giuseppe Brunati, Leggendario, o vite di santi bresciani con note istorico-critiche, Brescia, 1834
  • G. Cappelletti, Le chiese d'Italia, Venezia, 1857
  • Giovanni Battista Semeria, Secoli cristiani della Liguria, ossia Storia della metropolitana di Genova, Torino, 1843
  • Fedele Savio, San Calocero e i monasteri di Albenga e Civate, in "Rivista storica benedettina", 9, 1914
  • Paolo Guerrini, Memorie storiche della diocesi di Brescia, Brescia, 1940
  • Paolo Tomea, Tradizione apostolica e coscienza cittadina a Milano nel medioevo: la leggenda di san Barnaba, Milano, 1993
  • Giorgio Fumagalli, Milano celtica e i suoi cittadini, Milano, 2005
Voci correlate
Collegamenti esterni