Pietro Pappagallo

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Pietro Pappagallo
Presbitero
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battezzato
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Titolo
Incarichi attuali
Età alla morte 55 anni
Nascita Terlizzi
28 giugno 1888
Morte Roma
24 marzo 1944
Sepoltura
Conversione
Appartenenza diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi
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Ordinato diacono
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Ordinazione presbiterale 1915
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Incarichi ricoperti
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° vescovo di Roma
Elezione
al pontificato
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Fine del
pontificato
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(per causa incerta o sconosciuta)
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34 anni
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Cardinali creazioni
Proclamazioni
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Eventi
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Altre ricorrenze
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Erede
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Collegamenti esterni
Invito all'ascolto
Firma autografa
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Faccio dei documenti falsi con timbri falsi, delle carte di identità false, dei salvacondotti falsi per attraversare le linee a sud, è vero... Ma Tu sai, o Signore, perché lo faccio... Sono nelle Tue mani, mio Dio.
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(Don Pietro Pappagallo, descrivendo la sua opera di aiuto a ogni essere umano in pericolo di vita.)

Pietro Pappagallo (Terlizzi, 28 giugno 1888; † Roma, 24 marzo 1944) è stato un presbitero italiano, attivo nella lotta contro il nazi-fascismo.

Biografia

Quinto di otto fratelli, nacque a Terlizzi, in provincia di Bari, in una famiglia di modeste condizioni economiche: il padre (Michele), cordaio, fabbricava con canapa, iuta e giunco le funi; la madre (Maria Tommasa Guastamacchia), casalinga, intuisce e asseconda la precoce vocazione del ragazzo.

Collabora inizialmente con la sua attività di garzone nella bottega paterna, poi la madre gli permetterà di entrare in seminario, dando, con la cessione di beni immobili che le appartenevano, la "rendita sacerdotale", a quei tempi necessaria per chi intendeva diventare presbitero.

Cresimato il 20 maggio 1902, dopo aver compiuto tra il 1903 e il 1915 gli studi ginnasiali e liceali nel seminario di Molfetta e gli studi teologici nel Seminario regionale di Lecce, Pietro fu ordinato diacono il 5 luglio 1914 e fu ordinato sacerdote il 3 aprile 1915, Sabato Santo. Il giorno seguente, Pasqua di Risurrezione, distribuì l'immaginetta-ricordo della sua prima messa, sulla quale volle trascrivere la preghiera al "Dio delle misericordie", al "Re pacifico", composta da Benedetto XV per implorare la pace.[1]

Trascorre i primi dieci anni della sua vita sacerdotale nella cura pastorale del convitto Vito Fornari nella diocesi di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e, successivamente, viene nominato Vice rettore del seminario "Pio X" di Catanzaro.

In questo decennio, a causa dell'alto numero dei sacerdoti incardinati nella diocesi di terlizzi, Don Pietro non avrà mai un ruolo particolare in essa ma sarà per 10 anni Vicario della Parrocchia S. Maria in Sovereto. Desideroso di servire il Signore nel silenzio, nell'umiltà e nella mansuetudine rifiuta di unirsi alla competizione interna al clero per accedere al capitolo cattedrale e ai relativi benefici. Vivrà quindi nel nascondimento, svolgendo però con semplicità e totale dedizione le sue mansioni di Vicario e crescendo nella sua profonda convinzione che ogni vita umana vada onorata, rispettata e servita.

Finalmente, il 16 novembre 1925, chiede e ottiene di trasferirsi a Roma per studiare Diritto Canonico su indicazione del vescovo di Molfetta, Giovinazzo e Terlizzi, mons. Pasquale Gioia. Inizialmente, la permanenza avrebbe dovuto essere semestrale.

Tra il 1926 e il 1927, fu nominato Cappellano per gli operai fuori sede della Società Cisa Viscosa, azienda produttrice di seta artificiale posta alla periferia di Roma. Grazie a tale incarico, conobbe i gravi disagi che affliggevano un'ampia percentuale della popolazione urbanizzata e così descriveva la situazione:[2].

Allontanato forzosamente da quell'incarico, il 10 Marzo]] 1928 gli viene concesso di restare nella diocesi di Roma in modo stabile e a settembre viene nominato viceparroco della Basilica patriarcale di San Giovanni in Laterano, con lo specifico compito di amministrare il battesimo in San Giovanni in Fonte.

Il 19 novembre 1929, ottenne un nuovo permesso di permanenza in Roma per lo studio del Diritto Canonico e fu nominato padre spirituale e cappellano delle suore Oblate del Bambino Gesù, residenti nel grande istituto di via Urbana 1, nei pressi di Santa Maria Maggiore. Celebra per le suore la messa ogni mattina alle sei e trenta e l'adorazione eucaristica ogni domenica sera. Ospita gli amici nel terrazzino affacciato sull'antica Suburra e per la sua disponibilità e giovialità diventa un punto di riferimento per moltissimi nel quartiere. Da quel momento in poi - e fino alla fine della sua vita terrena - fissò la sua residenza al n. 2 di via Urbana.

Il 14 novembre 1930 venne definitivamente incardinato nella diocesi di Roma e il 9 febbraio 1931 venne nominato chierico beneficiato della patriarcale Basilica di Santa Maria Maggiore. Inizia allora a collaborare col cardinale Bonaventura Cerretti, arciprete della Basilica liberiana, il quale gli chiese di portare a termine delicate missioni diplomatiche presso rappresentanti di Stati esteri con cui la Santa Sede stava definendo rapporti concordatari e di organizzare il flusso dei pellegrini che nel 1933 raggiunsero Roma per l'Anno Santo straordinario della Redenzione indetto da Pio XI.

Tra settembre 1939 e giugno 1940, Adolf Hitler scatenò la seconda guerra mondiale e l'Italia entrò nel conflitto. Preoccupato per le sorti dei profughi terlizzesi emigrati a Roma, da gennaio a settembre 1942 tentò di aprire una scuola popolare nel quale impiegarli, ma il suo progetto non vide mai la luce a causa del divieto delle autorità fasciste.

Nel frattempo il suo ex allievo di un tempo, Gioacchino Gesmundo [1] - dirigente del Partito Comunista Clandestino - contattò don Pietro chiedendogli di attivarsi per la produzione di carte di identità false per salvare disertori e perseguitati. Don Pietro non si tirò indietro e da quel momento in poi si impegnò nel fornire aiuto a soldati, partigiani, alleati, ebrei e altre persone ricercate dal regime.[3]

Da quel momento in poi il suo appartamento di via Urbana 2 divenne rifugio per molti. Era lì, infatti, che distribuiva i documenti falsi con i quali nascondeva partigiani ed ebrei divenendo una figura di spicco della resistenza romana.

L'8 settembre 1943, con l'armistizio verso gli angloamericani, si concluse l'alleanza militare Italia-Germania. Vittorio Emanuele II e il governo Badoglio fuggirono da Roma lasciando l'esercito allo sbando. Il 10 settembre si costituì il Comitato di Liberazione Nazionale con a capo Ivanoe Bonomi. Gioacchino Gesmundo divenne suo membro di spicco e coinvolse anche Don Pietro.

Il 22 gennaio 1944, a seguito dello sbarco alleato, le SS intensificarono l'attività di infiltrazione nella resistenza e il 29 gennaio 1944 Don Pietro fu arrestato dalle S.S., dopo la delazione della spia tedesca Gino Crescentini e condotto nelle carceri naziste di Via Tasso. Fu imprigionato nella cella numero 13 in cui c'erano nove reclusi: quattro militari, un avvocato, un dottore in legge, un pittore, un partigiano. Alcuni testimoni hanno riferito che durante il periodo della prigionia, don Pappagallo condivise il proprio pasto con altri detenuti che non avevano ricevuto cibo. Il breviario fu l'unico oggetto personale da lui richiesto ai carcerieri, che glielo concessero solo dopo qualche giorno. Lo terrà sempre con sé, fino alla fine. Si distinse per la carità che seppe avere verso i suoi compagni di cella e verso gli stessi carcerieri. Più volte sottoposto a interrogatorio e gravemente umiliato - costretto a stare nudo in cella per alcune ore - non perse mai lo spirito di preghiera e non ruppe mai il suo legame con Dio. Il suo esempio sosterrà i compagni nella dura prova e nelle vessazioni fisiche.

Il 23 marzo una cellula dei Gruppi d'Azione Patriottica del Comitato di liberazione nazionale effettuò l'attentato di via Rasella in cui morirono 33 soldati della Wehrmacht. In risposta Hitler ordinò una feroce rappresaglia.

Il 24 marzo Don Pietro, insieme ad altri 334 detenuti di cui 70 ebrei, viene condotto dal carcere di via Tasso alle cave di pozzolana della via Ardeatina e li viene trucidato. Un solo condannato riesce a fuggire: è Joseph Reider. Suo il racconto di come Don Pietro - cui era legato per la mano destra - fu improvvisamente libero dalle catene e poté benedire e assolvere da ogni peccato i suoi compagni di martirio e i suoi stessi carnefici. Cadde, colpito alla nuca.

Le testimonianze ricordano che stava in ginocchio sul pavimento della cella, recitando il Sal 142 delle Lodi di quel quarto venerdì di Quaresima del 1944 quando venne prelevato per essere giustiziato. Caricato su un furgone, in una lunga fila di autoveicoli, fu portato sull'Ardeatina.

Il racconto del martirio: 24 marzo 1944

Uno dei più grandi amici e testimoni della vita di Don Pietro e del suo impegno per gli ultimi è il prof. Antonio Lisi, tuttora vivente.

Egli ha speso tutta la sua vita per ricostruire gli eventi che condussero alla morte il suo padre spirituale di quell'epoca ed ha scritto numerosi volumi sulla sua figura, intervistando anche i più alti gerarchi nazisti coinvolti nel massacro. Ebbe poi modo di intervistare lo stesso delatore che tradì Don Pietro.

In particolare ebbe occasione di intervistare Joseph Reider - l'unico scampato all'eccidio - e di raccogliere la sua testimonianza sugli ultimi istanti di vita del suo carissimo direttore spirituale e maestro di fede.

Dalle parole di Reider e dall'appassionata penna del Prof. Lisi, nacquero queste pagine intense che narrano la nascita al cielo di un Martire dei giorni nostri[4].


Il Prof. Antonio Lisi descrive così il martirio di Don Pietro:
Priebke chiamò: "Pappagallo Pietro!", Don Pietro scese dalla porta del furgone, prese il suo posto nella lunga fila. Dopo pochi passi si voltò indietro e dallo spazio che c'era tra la fiancata del furgone e la parete dell'ingresso della grotta, vide la lunga fila delle macchine in attesa sulla strada Ardeatina. Si fermò un momento a guardarla e mormorò l'assoluzione ai morituri:

"Ego vos absolvo a peccatis oestris in nomine patris et filii et spiritus sancti".

Il maresciallo Quapp lo spinse irritato con la canna del mitra: "Loss, loss!".

Don Pietro rientrato nella fila, si rimise in cammino come gli altri. Le loro mani erano legate dietro la schiena e procedevano lentamente, ognuno chiuso nei suo ultimi pensieri. I colpi di mitra e il pianto di qualche condannato riempivano il silenzio. Don Pietro procedeva pregando: calmo, rassegnato, si era già staccato spiritualmente dalla vita terrena e congiunto con Dio.

"Signore, soltanto adesso capisco perché mi hai voluto in questo luogo: senza di me, sarebbe mancata a questi Tuoi figli, che tra poco, come me, saranno al Tuo cospetto, l'ultimo Tuo perdono e a quelli già morti sarebbe mancata la Tua benedizione. Tante anime si salveranno con la Tua assoluzione e a questo compito hai voluto scegliere quest'umile Tuo servo. Questi condannati non dovevano morire senza l'assistenza religiosa, senza l'ultimo conforto. Quasi tutti quelli che erano chiusi con me nel mio furgone hanno voluto l'ultima confessione, lungo la strada e nell' attesa. Si sono salvati, ed hai voluto scegliere me per salvare tante anime: grazie Signore, per avermi prediletto. Perdona, o Signore, anche a quelli che non hanno voluto confessarsi, perdona anche a quelli che non ti invocano nel loro ultimo istante, perdona anche a quelli che muoiono nelle tenebre, senza conoscere la Tua luce. Hai voluto che io chiudessi la mia vita nel mio dovere di sacerdote: mi sento indegno di questo privilegio, o Signore. Grazie. Tra poco Ti vedrò, Signore e Tu mi giudicherai; perdonami le umane debolezze, perdonami se non ho compiuto il mio dovere di sacerdote ogni volta che avrei potuto, perdonami se ho avuto un impeto di odio contro questi carnefici che sono anche Tuoi figli".

Don Pietro continuava a pregare, muovendo appena le labbra: pregava sempre cosi.

In fondo alla spelonca, alla luce delle torce, i soldati uccidevano, uccidevano. Don Pietro chiese a Dio di perdonare i carnefici: "Signore, perdona loro ché non sanno quel che fanno".

I morti erano ormai una catasta alta e profonda.

In quel macabro ammasso, teste, gambe, braccia, mani, piedi, erano tutto un miscuglio informe di carne e di sangue ancora caldo in alcune parti ancora colante a gocce, a rivoletti. Don Pietro impartì ai molti morti la benedizione:

"Benedictio dei omnipotentis patris filii et spiritus sancti descendat super vos et immaneat sempre. Amen"

Il mitra continuava a picchiare. Ogni condannato era obbligato a salire sul mucchio dei morti prima di essere abbattuto. Ciò risparmiava ai carnefici la fatica di trascinare i cadaveri. La fila avanzava, uno dietro l'altro.

Martiri d'Italia, voi non moriste una sola volta, ma cento volte, quando le disumane torture vi facevano crollare nelle carceri, quando vi strappavano le unghie delle mani e dei piedi, quando le staffilate cadevano a centinaia sulle vostre spalle nude e sul vostro volto, quando i pugni di quell'inesorabile pugile tedesco vi deformavano l'aspetto, livido e con gli occhi tumefatti, quando un martello vi spezzava i ginocchi o vi rompeva le costole o quando vi strappavano i denti con le tenaglie; e ora, in queste spelonche, qui almeno avreste avuto il diritto di morire una sola volta. E invece continuaste ancora a morire cento volte: una volta per ogni colpo di mitra, una volta per ogni compagno che cadeva sotto i vostri occhi, una volta per ogni passo che avanzavate per riempire il posto lasciato vuoto dal compagno che vi precedeva, mentre contavate quanti ce n'erano davanti a voi e diminuivano, diminuivano: ancora tre, poi due, poi quell'ultimo, poi il vostro colpo al cervelletto!

Don Pietro si avvicinava sempre più al posto del supplizio, un passo alla volta, un passo alla volta.

Pregava per i caduti, per i carnefici, per i morituri. Arrivò il suo turno: scansò una pozzanghera di sangue rappreso, si fermò un attimo, sollevò gli occhi verso l'alto e raccomandò a Dio l'anima sua con l'ultima preghiera di Cristo morente sulla Croce:

"Signore, nelle Tue mani affido lo spirito mio".

Salì sui cadaveri e si inginocchiò, come gli era ordinato. Il colpo alla nuca lo abbatté. Cadde sul fianco sinistro. Così fu trovato.

Ecco come chiuse la sua vita terrena Don Pietro Pappagallo, vittima della sua bontà, della sua carità di uomo e di sacerdote, della sua innata generosità.

Tu non sei ancora morto, tu vivi nel doloroso ricordo di tutti quelli che ti conobbero e ti amarono, che ti piangono ancora, che ti piangeranno sempre. Sul tuo sepolcro non c'è il silenzio: la tua voce sommessa, il tuo sorriso semplice continuano anche di là a insegnar ci che la bontà, anche se procura la morte, dà un senso alla vita.

La testimonianza di Joseph Reider: 10 giugno 1944

La figura di Joseph Reider - unico sopravvissuto all'eccidio delle Fosse Ardeatine -, per l'eccezionalità sua e degli eventi storici che si trovò a vivere e per la testimonianza unica che ha potuto consegnare alla storia sull'ultimo momento di vita di Don Pietro e dei suoi compagni di Martirio, merita di essere conosciuta. E particolare risalto merita l'episodio, a dir poco straordinario, della benedizione di don Pietro ai morituri.
Joseph Reider, austriaco della regione di Salisburgo, medico, arruolato per obbligo nell'esercito germanico, fu pacifista ante litteram, quando essere contro la guerra in un mondo che era tutto nella guerra e nell' odio, poteva costare la vita. Infatti, il coraggio della coerenza col suo ideale di pace lo portò ad abbandonare l'armata tedesca e poi al carcere di Via Tasso e al processo di diserzione concluso con la condanna a morte, alla quale scampò per la seconda volta, all'ultimo momento, per il provvidenziale arrivo degli Alleati.

Ecco il suo racconto in prima persona dei lunghi mesi di fuga e prigionia... e dell'incontro con Don Pietro:[5].


...di costoro si farà del letame...
Velletri situata fra ubertosi vigneti e uliveti, era una volta una graziosa Città di provincia. In una delle sue vigne trovai ricovero per lunghi mesi dall'11 settembre 1943 e ivi mi nascosi alle orde naziste provenienti da nord e da sud. Dopo il 22 gennaio abbandonai la cittadina, già distrutta e saccheggiata dalle bande terroristiche tedesche, in una rigida e piovosa notte d'inverno, salendo su un carro italiano pieno di sfollati, diretto a Roma... L'aspetto di Velletri, che, illuminata dalla luna e dalle brillanti stelle nelle meravigliose e serene notti invernali italiane, era sempre stato calmo e tranquillo, appariva ora mutato. Da ogni finestra uscivano vampe infuocate da. lontano si udiva ancora il rumore degli edifici crollanti mescolato alle grida di terrore dei disgraziati e innocenti cittadini che invano cercavano di salvare i loro averi nel momento in cui stavano piombando nella più squallida miseria. Le terrificanti truppe tedesche, quelle che avevano promesso la vittoria, a quanto si diceva, colte e istruite, dopo aver spaccato porte e finestre, si erano date al saccheggio e sfogavano la loro ira dando fuoco agli ultimi residui delle case e delle culture del già beato suolo italiano...

E cosi che lasciai Velletri per recarmi a Roma, incontro a un miglior avvenire. Non andò così e dal mio arrivo cominciai ad accorgermi delle prepotenze e degli abusi, dirò meglio del bestiale comportamento delle S.S., il corpo scelto di Hitler.

lo dovevo assumere un impiego come medico presso una clinica di Monte Mario, ma, fiutato il pericolo, decisi di ritornare a Velletri, uccel di bosco come prima. Mi misi in cammino e arrivai una sera verso le 19 a Velletri. Tutte le mie carte di identità e i documenti italiani erano in perfetto ordine. Improvvisamente, sulla strada della vigna fui fermato da una pattuglia tedesca. Mi legittimai e potei proseguire. Il mio cammino venne interrotto una seconda volta nello stesso modo. Mi trovavo sulla via Ariana, a duecento metri di distanza dalla mia meta, quando un selvaggio tedesco mi assalì col suo fucile mitragliatore (rubato agli italiani) ed eccitatissimo mi spiegò che senza un permesso speciale non potevo girare a quell' ora. Cercai di fargli comprendere che non avevo da fare che pochi passi sino alla vigna, ma probabilmente egli era troppo stupido per seguire il mio ragionamento. Dovetti seguirlo sino al Comando di divisione, donde, dopo varie ore di attesa, fui consegnato alla gendarmeria.

Il giorno seguente venne un capitano in divisa di paracadutista, un certo dottor Fuchs e sbraitando mi disse: "Ora siete coi prussiani". Egli opinava forse che ne dovessi andare orgoglioso, mentre per me, come austriaco, ciò rappresentava il massimo del disonore. Mi tolsero tutti gli oggetti che avevo indosso e, chiuso in un pertugio, rimasi in attesa di disposizioni. Il mio pensiero si fissò su un unico obiettivo: liberarmi da quella situazione; ma quando vidi che ero sorvegliato da quattro "prussiani" armati, considerai vano ogni tentativo di evasione e mi accucciai in un angolo.

Venni poi destinato al lavoro e allora mi rinacque la speranza di poter fuggire. Purtroppo invano.

Decisi così di commettere qualche atto a danno di quei cani. Infatti, mi riuscì di far fondere la valvola principale della luce elettrica che scialbamente illuminava l'ambiente. Tutto l'edificio rimase al buio e si dovette ricorrere a un'illuminazione di fortuna con delle candele. Stavo per accingermi al lavoro quando, a mia meraviglia, mi venne offerta una sigaretta. il mio compito consisteva in un lavoro di sterro nel giardino. Allontanatasi un momento la sentinella per andare a prendere un badile, girai lo sguardo attorno e scorsi a pochi passi da me, nascosto sotto il fogliame, un fusto di benzina. Mi avvicinai in un baleno, tolsi il tappo e gettai entro il fusto il mozzicone della mia sigaretta. Benzina e frasche presero subito fuoco e anche un altro tetto di fogliame che trovavasi vicino. Accorse la sentinella che si mise a gridare e io... salvato dalla mano di Dio, saltai in un fosso che adocchiai in quel momento e protetto dal fumo riuscii a rimanere celato.

Durante la notte raggiunsi la strada attraverso un canale di scolo e mi ritrovai libero. Attraversai la strada, entrai in una vigna e vi rimasi sino all'alba, incurante del freddo, dell'umidità e delle altre noie, poiché si trattava di porre in salvo la vita e di sfuggire agli odiati nazisti. Ripresi il cammino a giorno fatto e giunsi sino al cimitero. Appena lì un italiano m'incitò a fuggire ammonendomi che i tedeschi stavano eseguendo una retata e accalappiavano tutti gli uomini.

Svoltai subito a sinistra lungo la stazione, ma venni nuovamente fermato da una pattuglia tedesca che mi richiese i documenti. Una nuova disposizione proibiva di trattenersi nel territorio di Velletri senza autorizzazione speciale. Venni quindi arrestato e condotto, ammanettato, al posto della gendarmeria segreta; una piccola villa a destra della via dei Castelli, un po' internata. Venni rinchiuso in una rimessa senza luce e priva di aria e messo a un regime di acqua e rape. Passò così la notte. Fui chiamato verso le 9 del mattino e sottoposto a un interrogatorio. Diedi il mio nome in base alle carte di identità italiane e il tenente Seifert, nativo di Francoforte sul Meno, si rallegrò di scoprire in me un sabotatore e una spia, autore di mille misfatti immaginari. Mi spiacque di dover negare ogni cosa, pure nei successivi tre interrogatori. Durante l'ultimo esame venni schiaffeggiato non avendo potuto trattenere le risa alle parole del suddetto ufficiale. Egli mi aveva domandato se sapessi qualche cosa sulla Gestapo, ché altrimenti egli me ne avrebbe edotto. Un segretario della banda, sopraggiunto in quel punto, mi minacciò di morte se non avessi finalmente confessato la verità. "Mi spiace", dissi, "ma io non posso che confermare la mia precedente deposizione". Egli parve accontentarsi e si allontanò facendomi rinchiudere nella cella.

Avevo raccolto di soppiatto, durante i vari interrogatori, alcune cicche e con carta di giornale feci una sigaretta che fumammo beatamente io e i miei compagni di sventura rinchiusi nella medesima cella.

Tre giorni appresso, il 10 marzo, fummo tirati fuori tutti da quel buco e condotti in uno spiazzo. A eccezione di me e di un altro compagno che fummo condotti a Roma alla S. D., gli altri vennero giudicati dal Tribunale di Velletri. In quel tempo io ancora nulla sapevo di Via Tasso, ma mi bastò la prima impressione, subito dopo il mio arrivo. Nella cosiddetta camera di ammissione venni richiesto delle generalità, indi fui affidato ai brigadieri Ender e Krausnitzer. Essi mi tolsero l'orologio, le stringhe delle scarpe, gli anelli, il temperino, alcune briciole di tabacco e altre cosucce e così depauperato venni condotto in una cella. Mi presentai ai miei colleghi, tutti dal viso pallido ed emaciato e dall' aria disperata. In pari tempo, assieme al dolore e alle pene, scorsi pure dell'allegria e del buon umore e anzitutto un'incrollabile fede in una potenza suprema. Così presi visione della vita e delle opere di queste bande naziste e decisi di rimanere fedele alle mie precedenti deposizioni.

Due ore dopo la mia consegna venni rinchiuso in una cella sotterranea e da solo. Rimasi lì sino alle 8 di sera indi, risalite le scale e passato il corridoio, fui fatto entrare nella stanza n. 11. Davanti a me stavano due individui che mi fecero sedere. Alla mia sinistra un altro alla macchina da scrivere, alla mia destra l'interprete, all'angolo due armati di fucile mitragliatore, sul tavolo un panno rosso, una frusta metallica e una spazzola. Incominciò l'interrogatorio: "Come vi chiamate? Ecc. ecc. Tutto andò bene e tranquillamente sino a che non si volle che denunziassi il nome di una persona a me del tutto ignota: avendo negato di conoscerla ebbi due frustate in testa seguite da alcuni colpi col calcio del fucile. Dopo circa 25 minuti mi fu detto che "bastava per oggi" e che riflettessi bene sino all'indomani, perché altrimenti si sarebbe tenuto con me un altro linguaggio Ritornai nella cella. Il giorno seguente, verso le 21, venne ripreso l'esame.

Si presumeva in me una spia americana è si voleva che lo ammettessi. Negai. Dopo avermi dato qualche schiaffo mi legarono un panno rosso attorno al naso e giù legnate a tripudio degli sgherri S.S. L'udienza durò un'ora, poi venni riportato in cella, questa volta incatenato. Vi languii oltre 24 ore, indi venni ancora interpellato. "Signor S." mi dissero, "noi sappiamo molto bene chi voi siete e abbiamo le prove che siete inglese, di nome Armstrong; confessatelo". Purtroppo, dovetti negare anche questa volta. Venni colpito al viso con ceffoni, un dente volò via; inoltre, i signori si divertivano a strapparmi i baffi, pelo per pelo. Sopportai tutto sino a che venni riportato in cella. Quarantott'ore dopo venne nella mia cella una guardia delle S.S. che non avevo ancora conosciuto, la quale, rivoltami benevolmente la parola, anche con lusinghe e promesse e persino lasciandomi delle sigarette nella cella, voleva a ogni costo ch'io confessassi di essere il nominato Armstrong. La stetti ad ascoltare con calma e dopo circa 20 minuti se ne andò; lo udii ancora informare il secondino, il poliziotto Pietz, delle sigarette che mi aveva lasciato. Questi si affrettò a venire da me, mi colpì alle mani incatenate e gonfie e ancora sulla faccia e mi portò via le sigarette.

Rimasi esattamente per altri nove giorni chiuso nella cella senza potere dormire e neanche riposare e a mezza razione di cibo. Al nono giorno si ripetè l'inchiesta, sempre con le medesime domande e mi si prospettò la fucilazione. Ai malandrini delle S.S. Hotop e Preusser replicai che preferivo la morte piuttosto che rimanere ancora un minuto fra loro. Ne seguì una tempesta di colpi e alla fine firmai la mia sentenza di morte, cioè il protocollo dell'interrogatorio in cui come austriaco negavo dall' A alla Z ogni imputazione. Fui ricacciato nella cella, sempre a mezza razione. Passarono vari giorni senza che si venisse a prendermi e sembrava che nulla più si volesse rilevare da me.

Il 24 marzo, un venerdì, si aperse la porta della cella e venni riportato alla luce. Mi vennero tolti i ferri e fui condotto in un' anticamera alla presenza di un sacerdote: don Pietro Pappagallo. Questi mi rivolse la parola e mi benedisse con grande ilarità dei poliziotti Schneider e Rippkens. Indi venne il brigadiere Krausnitzer con una corda e legò la mano destra di don Pietro alla mia sinistra, poi, passato il cortile, fummo condotti in istrada e fatti salire in un omnibus pieno di prigionieri.
Ci scambiammo degli sguardi muti coi compagni di sventura e mentre un poliziotto diceva all'altro: "Di costoro si farà del letame...", il furgone si mosse. Durante il tragitto, sebbene approfondito in tristi pensieri, riconobbi una parte della via Appia antica. Don Pietro, trattenendo a stento le lagrime, recitava a bassa voce le preci. Passò certamente parecchio tempo, poi il carro si fermò. Discendemmo tutti e schierati a due a due procedemmo scortati da guardie della S.-S. bene armate. A circa duecento metri da noi un gruppo di prigionieri arrivato prima, stava entrando in una spelonca, seguito da un secondo e così via. Si trattava di generali, ufficiali, partigiani; franchi tiratori, carabinieri e ebrei. La spelonca doveva essere già piena, perché a un tratto ci fu un ingorgo. lo con don Pietro rimasi un po' indietro, mentre gli altri si adunarono in un semicerchio. Sembra che alcuni, non ancora consci della sorte che li attendeva, se ne fossero accorti appena allora. Da principio si poteva percepire un lieve mormorio, indi sempre crescenti e più eccitati lamenti dei poveri diavoli, di null'altro rei che di amare la pace. Vicino a me stavano, oltre a don Pietro, col quale ero sempre legato, il colonnello Rampulla, il generale Simoni, l'avv. Martini, un giovane napoletano di nome Forti e altri. Il semicerchio si trasformo lentamente in un gruppo sempre più compatto di gente ammassata attorno a me e a don Pietro.

Non oso descrivere i visi supplichevoli e disperati, né ricostruire in pieno il momento tragico e crudele. Accennerò soltanto a un colonnello che stava davanti a me, credo un certo Montezemolo, dal volto già gonfio per le percosse e i colpi ricevuti, con un enorme borsa sotto l'occhio destro, il cui aspetto stanco ma tuttavia marziale ed eroico non poteva nascondere le passate sofferenze. Tutti avevano i capelli irti e molti erano incanutiti nel frangente per le perdute speranze, assaliti dal terrore o colti da improvvisa pazia. In mezzo al frastuono udii esclamare con voce mesta e supplichevole: "Padre, benediteci!".

In quel momento accadde qualche cosa di sovrumano: deve avere operato la mano di Dio perché don Pietro riuscì a liberarsi dai suoi vincoli e pronunciò una preghiera, Impartendo a tutti la sua paterna benedizione.

Presso l'ingresso della grotta dovevano essere stati fatti già prima dei lavori di sterro, poiché nelle immediate vicinanze c'era della terra già secca che formava un muro. Dietro a questo c'era uno spazio, un praticello erboso cioè, che portava al disopra della grotta. Fui preso da una certa inquietudine quando credetti di scorgere nella configurazione del terreno un'ultima possibilità di salvezza. Poiché dopo la benedizione tutti si erano accalcati attorno a don Pietro, non fu possibile evitare una certa confusione che si ripercosse pure negli organi di polizia. Approfittai del momento; con uno sforzo supremo saltai sopra il muricciuolo di terra e arrampicatomi sopra l'antro mi lasciai andare giù rotolando in mezzo all' erba. Rimasto alcuni secondi senza far moto, mi decisi poi a scomparire dal sito. Tanto, non avrei potuto portare alcun aiuto a quei poveri diavoli.

Quando mi alzai, per svignarmela venni sorpreso da una guardia delle S.S. il cui nome purtroppo mi sfugge. Comunque, la sorte volle che io lo riconoscessi poiché avevo fatto la sua conoscenza durante la mia passata attività di interprete. Anche egli mi riconobbe subito e fu molto sorpreso di trovarmi in quella situazione. Sopraggiunsero altre due guardie delle S.S. e il mio conoscente disse enfaticamente: "Qui, miei signori, vi presento un disertore che ci ha ingannato con un nome straniero". I "signori" si rallegrarono visibilmente. Mi caricarono su un carro e mi riportarono in via Tasso. Strada facendo mi sovvenne che dalla mia mano sinistra pendeva sempre la corda vuota; percepii l'anima di don Pietro, chiusi gli occhi e recitai un Paternostro per lui.

Intanto eravamo giunti in via Tasso e il personale del carcere ironizzava sulle ore felici che mi attendevano. Citerò i sergenti Preusser e Tilpitz e il presidio della camera delle "lucciole" del quarto piano. Ritornai così nella mia cella, davanti alla quale una sentinella passeggiava ora su e giù; ciò malgrado mi sentivo felice d'essere sfuggito alla morte. D'un tratto mi colse un nodo alla gola e piansi al pensiero dei miei genitori e dei miei cari di famiglia. Passarono 24 ore, poi fui chiamato. Mi trovavo di nuovo nella stanza n. 11 davanti ai ben noti aguzzini delle S.S. Nominerò particolarmente Rueb, Wedner, Wieser e Bodenstedt. Dopo due ore di percosse a punizione del mio inganno, venni nuovamente incatenato e ricondotto in cella.

I "signori" mi prendevano in giro perché mi dichiaravo austriaco. Ma il tragico è che il mio corpo si consumava essendo rimasto due giorni senza mangiare e senza riuscire a dormire o riposare. Venni poi chiamato a firmare il nuovo protocollo in cui si accennava a una condanna a morte per diserzione durata sei mesi, circostanza rivelata da quel traditore che m'aveva riconosciuto. Rientrai in cella, questa volta senza catene.

Il 16 maggio i "signori" si ricordarono nuovamente di me e mi portarono presso la sezione della Wehrmacht nella pensione Santa Caterina in via Po, ove tornarono a addebitarmi le varie accuse. Di nuovo dovevo venire interrogato dalla A alla Z. Questa volta rifiutai decisamente di rispondere e quando fui invitato a esporre i fatti, dissi semplicemente che nulla avevo da aggiungere. L'ufficiale Schuster, l'attuario, segnò queste parole e dovetti apporre la mia firma sotto il suo scritto. Verso le 6 di sera fui portato a Regina Coeli dove il sergente carcerario, un vecchio bavarese, dopo molti insulti, mi assegnò una cella, il n. 463, terzo braccio, terzo piano. Lì trovai due compagni, tutti e due giovani di 18 anni, i quali attendevano la loro condanna per viltà di fronte al nemico e per illecito allontanamento dalla truppa. L'uno, un certo Kuhl, uno stupido pomerano, deve avere nutrito una certa antipatia verso di me perché ripeté un'infinità di volte in modo chiaro e inequivocabile: "Sì, sì, voi, canaglie austriache, verrete sperabilmente presto fucilate". L'altro, nativo della Slesia, non parlava bene il tedesco e litigava continuamente con l'idiota della Pomerania. Così, io attendevo la sentenza fra aspre, sconsiderate e stupide parole naziste.

Fra le 10 e le 11 di ogni mattina venivamo condotti all' aria fresca, ove m'incontravo con numerosi disertori. Ben presto si rese evidente il fatto che il pericolo per le nostre teste aumentava a misura che si avvicinavano i tanto attesi amici americani. I mendaci giornali riferivano naturalmente, dal fronte meridionale, soltanto di grandi ritirate e di gravi perdite degli alleati e di nuove avanzate e di estese occupazioni territoriali dei tedeschi. Tutte queste notizie riportavano i giornali, sulle quali noi non mancavamo di esercitare la nostra critica. Ci consigliammo così di trovare una via di scampo e riuscimmo ad accordarci in proposito.

Fra il personale carcerario, un buon amico nostro, un viennese, avrebbe dovuto abbattere mediante una spranga di ferro la sentinella notturna durante la sua ronda, incatenarla, portarle via le chiavi e aprire le nostre celle. Tutto era bene organizzato e si attendeva il momento propizio per attuare il piano. Sembra che non fossimo stati abbastanza prudenti durante le nostre confabulazioni poiché un nazista ci udì e ci tradì. L'impresa cadde così nell'acqua. È ovvio che chi più ne sofferse fu il nostro amico viennese.

Il 31 maggio s'iniziò il mio processo. Verso le 9 di mattina mi trovavo di nuovo in Via Po, nel magnifico palazzo dell'ex giornalista italiano Perrone. Colà aveva sede il tribunale di guerra tedesco. Alle 9,30 si aperse il dibattimento, previo un breve colloquio di forse due minuti fra me e il mio difensore. Il campanello squillò e la causa ebbe inizio. Nella sala delle udienze, che era quella da ballo del giornalista, Croci uncinate, simulacri di Hitler e simili ornamenti intendevano abbellire la sala. Venne un assessore, un appuntato e disse, rivolgendosi a me: "Sì, sì, mio caro, le teste di voi austriaci devono rotolare". Presenti erano inoltre il consigliere superiore del tribunale supremo di guerra, nonché delinquente di guerra, dottor Kehl, un procuratore di stato e altri banditi. Pareva dall' accusa del procuratore di stato che io avessi ucciso lo stesso Hitler con tutto il suo stato maggiore, sicché si decise immediatamente di condannarmi a morte. Non c'era bisogno di un esperto per comprendere che si trattava di una commedia inscenata in precedenza. Il difensore balbettò poche parole e la corte si ritirò per deliberare. Dopo circa mezz' ora ricomparvero i signori della corte pronunziando la mia condanna a morte. Così la pena mi venne inflitta per la seconda volta, ma ora in via giudiziaria. Venni invitato a esprimere la mia ultima volontà. Io dissi di avere due desideri, l'uno privato e l'altro personale. Ciò destò l'ilarità della corte, che dovette però prendere atto delle mie parole.

lo chiesi di non dare relazione, sotto alcun riguardo, ai miei genitori della mia infelice fine. Quale volontà personale espressi il desiderio di venire messo al muro non ammanettato, senza benda sugli occhi e di potere io stesso comandare il fuoco. Con sorrisi di scherno e sguardi maligni la corte prese atto di ciò e anche questa volta dovetti firmare un protocollo. Rientrai poi a Regina Coeli.

Dalla finestra della mia cella potevo chiaramente percepire i tiri dell' artiglieria e gioivo dell'avanzata degli amici americani. Passava un giorno dopo l'altro.

Finalmente, era il 3 giugno, alle 11,30 di notte, tutti venimmo svegliati:

L'ordine era di approntarsi alla partenza. Venimmo tutti adunati, noi candidati alla morte e portati fuori di città con un camion. Sembra che si trattasse della nostra testa. Il capitano, che era pure il direttore delle carceri, stava con noi. Egli aveva da sbrigare ancora delle pratiche presso il Comando militare di Roma e recatovisi vi si intrattenne a lungo. Un ufficiale delle guardie che era sul camion ci comunicò che gli americani si trovavano a cinque chilometri dalla città. Non posso descrivere i nostri sentimenti. Ricomparve il nostro capitano e con nostra meraviglia impartì l'ordine di fare ritorno a Regina Coeli. Quando i guardiani italiani delle carceri, dopo averci veduti partire, ci scorsero di ritorno, rimasero istupiditi. Sembra che avessero avuto sentore della sorte che ci era riserbata. Ci venne comunicato che saremmo definitivamente partiti per il nord alle 9 di sera, probabilmente per Firenze. Ma alle 7 del mattino ci fu un nuovo appello e ci schierammo nel terzo braccio del nostro reparto. Eravamo circa in duecento. Constatai che una diecina d'uomini si erano nascosti sotto i letti o sotto i pagliaricci e anche nei canali di scolo. Davanti la casa, nuovo schieramento. Vennero distribuite delle frattaglie e del pane e in questa occasione sparirono altri due.

Data la grande confusione e l'eccitazione comprendemmo che la liberazione di Roma non poteva tardare che qualche ora. Il mio pensiero ricorse di nuovo alla fuga e con questa preoccupazione mi misi in colonna. Prendemmo la direzione nord per la via Flaminia, naturalmente a piedi, poiché l'armata di Hitler non disponeva più di veicoli a motore già da tempo.

Raggiungemmo il Foro Mussolini. A circa due chilometri da me vidi una fila di case ed ebbi subito la sensazione che lì giunti si sarebbe deciso il mio destino: o vita o morte. Finalmente vi arrivammo: l'intera colonna si fermò proprio vicino a quel blocco, per dissetarsi a una fontana. Di nuovo risuonarono, fra eccitazione e confusione, le imprecazioni bestiali dei guardiani prussiani. Era il momento giusto per me. Un'occhiata davanti e un'altra dietro a me: a tergo la via era libera mentre dovevo guardarmi di fronte. Sgattaiolai in una sartoria e dall'uscita posteriore del locale in un cortile, nascondendomi dietro una siepe.

Restai lì in attesa dei miei persecutori, ma nessuno apparve.

Il sudore mi colava dalla fronte, il cuore pareva mi martellasse sino in testa.

Per 20 minuti rimasi in forse sulla mia situazione, indi venne una donna, la padrona della sartoria e mi comunicò che i tedeschi se n'erano andati. Me ne assicurai di persona e, preso posto su una sedia che la brava donna mi offerse, mi feci raccontare come era andata la faccenda. Appena capite le mie intenzioni, essa aveva chiuso dietro di me la porta di comunicazione fra locale e cortile e l'aveva mascherata con una tenda. Il trucco era riuscito così bene che un ufficiale delle guardie che aveva avuto sentore della mia fuga e che aveva anche ispezionato il locale, nulla scorgendo di sospetto, se n'era andato. A questa buona e intelligente signora devo la massima riconoscenza per avere contribuito a salvarmi la vita.

Verso sera m'incamminai in direzione della città e incontrai vari nazisti nella loro vittoriosa ritirata. Presi alloggio all' albergo Perugia, non distante dal Colosseo. Dopo essermi alquanto rimesso dallo spavento, salii sul terrazzo ad ammirare il panorama della Città Eterna, mentre gli ultimi residui delle scompaginate bande naziste la stavano abbandonando.

Ogni tanto si udiva il crepitìo delle mitragliatrici, poi si ristabiliva il silenzio. Alzati gli occhi verso il cielo, seguii il volo vorticoso delle rondinelle e affidai a loro i saluti per i miei genitori. Scesi poi nel vestibolo, intrattenendomi con gli altri ospiti. All'improvviso udimmo alte grida di giubilo e un rumore festoso. Che cosa poteva essere accaduto? Uno di noi uscì in fretta e ritornò subito. "Correte," disse, "arrivano gli americani, entrano in città, sono già qui!".

Corsi fuori e mi rincantucciai in un angolo presso il Colosseo. Dal mio osservatorio vidi il giubilo di un'infinità di persone, udii le loro esclamazioni di esultanza e di gioia. In quel momento della mia vita, si fusero in me insieme gioia e felicità, dolore e sofferenza, riconoscenza e brama del paese natìo. Dal mio tranquillo cantuccio, alzai le mani verso il cielo, ringraziando l'Onnipotente per il Suo aiuto, per la sua grazia, per tutto il bene che gli uomini devono a lui... Ho pure versato una lagrima silenziosa da quel piccolo, indimenticabile angolo presso il Colosseo donde rinacqui a una vita nuova, gioiosa, felice e benedetta.

Roma, 10 giugno 1944.

Giuseppe Reider

Il giorno in cui il mio difensore mi fece la comunicazione che ogni rapporto con KesseIring era interrotto e che la mia domanda di grazia al comandante tedesco, giunta a Roma, era stata respinta, mi disse anche che era stato dato l'ordine che l'esecuzione della sentenza dovesse aver luogo il 10 giugno. In questo giorno stesso ho preso carta e matita e ho compilato la presente relazione di avvenimenti da me vissuti durante un intervallo della mia vita pieno di episodi indimenticabili. Così il 10 giugno, anziché la mia fine, segnò l'inizio di una nuova vita.

G. R.

Eventi e riconoscimenti successivi alla sua morte

Il 25 marzo il chierico Giuseppe Perrinella, oggi sacerdote salesiano, si reca alle cave e constata la carneficina.

Il 13 maggio Joseph Reider racconta le vicissitudini di quel giorno e di come si sia salvato liberandosi all'ultimo momento dalla corda che legava il suo polso sinistro al polso destro di don Pietro.

Tra il 4 ed 5 giugno il generale Clark entra a Roma.

Il 10 luglio Maria Teresa Nallo, domestica di don Pietro, denuncia Gino Crescentini, la spia che lo tradì.

Il 26 luglio, dopo ben 4 mesi dal massacro, il prof. Attilio Ascarelli incaricato del recupero delle salme avvia le operazioni e compie una ricognizione su ciascuna di esse.

Ad agosto, dopo 5 mesi, viene esumata per il riconoscimento e la ricognizione anche la salma di don Pietro Pappagallo, la 114. Sarà riconosciuta dai fratelli Giuseppe e Onofrio e dal cognato Michele Tangari.

1945

28 febbraio. Viene arrestato Gino Crescentini. Sarà condannato a 18 anni di reclusione. Viene infine scarcerato nel '51. Morirà a Civitavecchia il 24 settembre 1981. Alla figura di don Pietro Pappagallo viene dedicato il personaggio interpretato da Aldo Fabrizi in Roma città aperta, capolavoro cinematografico del regista Roberto Rossellini.

1948

5-7 novembre. La salma di don Pietro viene trasferita a Terlizzi.

1998

13 luglio. Medaglia d'oro al merito civile alla memoria di Don Pietro Pappagallo. Attribuita dall'allora presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro, sarà consegnata il 24 marzo 2000 dal presidente Carlo Azeglio Ciampi al cardinale Camillo Ruini, Vicario di Roma.

1999

31 ottobre. La fondazione Carnegie attribuisce un riconoscimento alla memoria di don Pietro. La Fondazione Carnegie per gli atti di eroismo (Hero Fund) è un Ente morale con sede presso il Ministero dell'Interno, istituito con regio decreto 25 settembre 1911, allo scopo di premiare gli atti di eroismo compiuti da uomini e donne in operazioni di pace nel territorio italiano, per mezzo del fondo elargito dal filantropo americano di origine scozzese Andrew Carnegie. La Fondazione è amministrata da un Consiglio di Amministrazione composto da nove membri, dei quali uno è l'ambasciatore pro tempore degli Stati Uniti d'America e gli altri otto sono nominati a vita. Le ricompense della Fondazione Carnegie consistono nella concessione di medaglie d'oro, di argento e di bronzo, con relativo diploma, attestati di benemerenza ed eventuali premi in denaro.

2000

7 maggio. Don Pietro Pappagallo viene solennemente commemorato da Giovanni Paolo II a Roma insieme ad altri 12.691 "manovali della santità": sono i nuovi martiri del XX secolo.

2007

19 maggio. Il vescovo mons. Luigi Martella si raccoglie in preghiera sulla tomba di don Pietro. Al termine, afferma: "Il mio doveroso omaggio alla tomba di Don Pietro Pappagallo, martire della fede e dei valori alti, civili e sociali. In occasione della Visita pastorale in Terlizzi, ai piedi di un sì nobile testimone, l'offerta di un'umile e sentita preghiera".

2011

Il 27 marzo, sua santità Benedetto XVI si reca alle Fosse Ardeatine. Sosterà lungamente in preghiera proprio sulla tomba di don Pietro Pappagallo. Lo accompagnerà il Card. Montezemolo, parente del colonnello Montezemolo, figura di spicco della resistenza e vittima del massacro.

2012

9 Gennaio. All'interno della terza edizione della manifestazione "Pietre d'Inciampo" tenutasi a Roma, l'artista tedesco Gunter Demnig installa 72 Stolpersteine (pietre d'inciampo) in memoria dei deportati razziali, politici e militari. Una delle Pietre d'Inciampo ricorderà don Pietro Pappagallo. Il sampietrino è commissionato da don Francesco Pesce, parroco della chiesa Santa Maria ai Monti, che fu sede della Confraternita dei Catecumeni e Neofiti fino alla chiusura del ghetto romano. La confraternita venne istituita formalmente nel 1543 da Paolo III Farnese, presso un'altra chiesa di Roma, oggi non più esistente, con lo scopo di favorire la conversione degli ebrei. Nei luoghi adiacenti la chiesa di Santa Maria ai Monti furono successivamente stabilite la Pia Casa dei Catecumeni e dei Neofiti dove avevano luogo i battesimi, spesso sotto costrizione, degli ebrei, ma anche di mussulmani e di luterani o "protestanti". In quegli stessi luoghi, durante l'occupazione nazista, religiosi e religiose di vari ordini si distinsero per l'asilo e la protezione offerti ai perseguitati.

Altri riconoscimenti

Al sacerdote è intitolata la Sezione "Esquilino-Monti-Celio" dell'ANPI di Roma; sulla casa di via Urbana, dove abitò, una lapide lo ricorda.

In sua memoria, il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi ha conferito il 13 luglio 1998, la medaglia d'oro al merito civile con la seguente motivazione:

In sua memoria, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito, il 13 luglio 1998, la medaglia d'oro al merito civile:

Medaglia d'oro al merito civile - nastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro al merito civile
«Sacerdote della Diocesi di Roma, durante l'occupazione tedesca collaborò intensamente alla lotta clandestina e si prodigò in soccorso di ebrei, soldati sbandati, antifascisti e alleati in fuga dando loro aiuto per nascondersi e rifocillarsi. Tradito, fu consegnato ai tedeschi, sacrificando la sua vita con la serenità d'animo, segno della sua fede, che sempre lo aveva illuminato.»
— Roma, 24 marzo 1944

Giovanni Paolo II, in occasione del giubileo dell'anno 2000, ha incluso don Pietro Pappagallo tra i martiri della Chiesa del XX secolo.

Filmografia

La vita di don Pietro Pappagallo ha dato spunto a Roberto Rossellini per il suo film Roma città aperta, nel quale la figura del sacerdote è interpretata da Aldo Fabrizi.

Anche la TV si è interessata al suo martirio: Gianfranco Albano ha firmato la regia di "La buona battaglia - Don Pietro Pappagallo", una fiction trasmessa dalla Rai nella quale il personaggio di don Pappagallo è interpretato da Flavio Insinna. In questa ricostruzione si è cimentato uno scrittore-sceneggiatore di fama internazionale come Furio Scarpelli, aiutato dal figlio Giacomo, professore di filosofia presso l'Università di Modena.

Il formato originario è quello della miniserie composta da due puntate; in questo formato, Raiuno la mandò in onda in prima visione TV il 23 e il 24 aprile 2006 e in seguito SAT 2000 la mandò in onda in replica; la rete Raiuno ha anche proposto una versione ridotta, cioè in formato film TV, andata in onda il 24 marzo 2008 e attualmente disponibile gratuitamente su Rai.tv. Tutto il cast ha lavorato nei vicoli del ghetto di Roma.

Note
  1. "Mentre eravate su questa terra, Voi aveste palpiti di tenerissima compassione per le umane sventure", si legge nell'orazione: questa espressione è il filo rosso che attraverserà l'esistenza del presbitero pugliese, il cui inizio di sacerdozio, osserva Renato Brucoli nella sua biografia di don Pappagallo (Pane e cipolla e santa libertà, prima parte (1888-1939), Regione Puglia, Terlizzi 2007), coincide paradossalmente con l'inizio della Prima guerra mondiale e verrà portato a compimento, al prezzo della vita tutta intera, in conclusione della Seconda guerra mondiale
  2. "Il lavoro degli operai in azienda è disumanizzante: i tempi vengono protratti all'inverosimile, il licenziamento scatta automaticamente in caso di rifiuto degli straordinari, il processo industriale che prevede l'applicazione di sostanze chimiche è potenzialmente nocivo per la loro salute, la discriminazione retributiva è evidente al raffronto fra gli operai del Sud e i loro colleghi della capitale. Io non trovo giusto tutto questo. Né possono rabbonirmi le ragioni di opportunità politica, che anzi non mi interessano affatto. So soltanto che la fede e il senso di umanità non possono contrappormi ai miei fratelli, al cui servizio sono stato posto. Se lei non è con loro, posso solo dire che rimango sconcertato e nella confusione". Queste le parole della lettera indirizzata a monsignor Ferdinando Baldelli, all'epoca responsabile di Curia dell'assistenza ecclesiale ai lavoratori.
  3. Così diceva del suo operato: "Faccio dei documenti falsi con timbri falsi, delle carte di identità false, dei salvacondotti falsi per attraversare le linee a sud, è vero, ma Tu sai, o Signore, perché lo faccio... Sono nelle Tue mani, mio Dio".
  4. Tratto da: Lisi Prof. Antonio, "Don Pietro Pappagallo: un eroe, un santo", Libreria Moderna, Rieti, 2009 (2), pp.160-161. Riprodotto con autorizzazione dell'autore.
  5. Tratto da: Lisi Prof. Antonio, Don Pietro Pappagallo: un eroe, un santo, Libreria Moderna, Rieti, 2009 (2), pp.29-40. Riprodotto con autorizzazione dell'autore.
Bibliografia
  • Antonio Lisi, Don Pietro Pappagallo, martire delle Fosse Ardeatine, Tau Editrice, Todi 2006
  • Antonio Lisi, Don Pietro Pappagallo: un eroe, un santo, Libreria Moderna, Rieti 2009
Voci correlate
Collegamenti esterni