Utente:Suor Maria Trigila/Sant'Eustochia Calafato
Sant'Eustochia Calafato, O.S.C. Religiosa | |
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al secolo Ismeralda Cofino | |
Santa | |
Età alla morte | 50 anni |
Nascita | Villaggio Annunziata Sant'Angelo di Brolo (Me) 25 marzo 1434 |
Morte | Monastero di Montevergine (Me) 29 gennaio 1485 |
Sepoltura | Monastero di Montevergine |
Professione religiosa | Messina, 1449 |
Iter verso la canonizzazione | |
Venerata da | Chiesa cattolica |
Beatificazione | 14 settembre 1782, da Pio VI |
Canonizzazione | 11 giugno 1988, da Giovanni Paolo II |
Ricorrenza | 20 gennaio |
Santuario principale | Chiesa del Monastero di Montevergine |
Collegamenti esterni | |
Sito ufficiale o di riferimento Scheda su santiebeati.it |
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Nel Martirologio Romano, 20 gennaio, n. 9:
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Sant'Eustochia Calafato, al secolo Ismeralda Cofino (Villaggio Annunziata Sant'Angelo di Brolo (Me), 25 marzo 1434; † Monastero di Montevergine (Me), 29 gennaio 1485) è stata una badessa, religiosa e fondatrice italiana. Nel 1464 fondò il monastero di Montevergine che alla morte di madre Eustochia contava 50 suore.
Biografia
Dalla nascita all'adolescenza
Eustochia Calafato al secolo Ismeralda Cofino, nacque il 25 marzo 1434 da una famiglia benestante a Villaggio Annunziata, frazione del comune di Sant’Angelo di Brolo a circa tre chilometri da Messina[N 1].
I genitori, Bernardo Cofino, detto Calafato e Mascalda Romana ebbero sei figli: Antonio, Baldo, Nicola, Ismeralda, Mita e Bitto.[N 2]
Ismaralda era nata nella proprietà di Villaggio Annunziata poichè i suoi genitori vi si trasferirono dal porto, dove era scoppiato un focolaio di peste.
Era mezzogiorno del Giovedì Santo quando la madre, con un travaglio difficile, partorì Ismeralda. Recita un'antica biografia che il parto si risolse positivamente perché in quel momento passava un uomo invitando i presenti a condurre la giovane donna in una stalla accanto dove si trovava la mangiatoia e lì avrebbe partorito immediatamente. E venne battezzata nella chiesetta di San Nicola. Dalla madre apprese la meditazione della Parola di Dio, l'annuncio messianico agli indigenti, la missione di Gesù di Nazaret morto e risorto, ma questi dati evidenti di innamoramento verso Gesù nella vita consacrata, non furono sufficienti per il padre che per lei disponeva il matrimonio. Mentre Ismeralda aveva già scelto Gesù, quale radice di una vita vissuta nella totale dedizione a Cristo.
Promessa sposa a Nicolò Perrone
All'età di dieci anni Ismeralda è promessa sposa al già vedovo trentaquattrenne Nicolò Perrone, di famiglia benestante. Questi era nato intorno al 1410 e aveva sposato una certa Grazia, a sua volta vedova di Giovanni Galla. A quel tempo erano i genitori che combinavano i matrimoni senza il consenso degli interessati e, talvolta, anche quando si opponevano. Difatti, a insaputa di Ismeralda il padre aveva sottoscritto il 13 dicembre 1444 il contratto d'intesa, redatto dal notaio Francesco Mallono. Il matrimonio si sarebbe dovuto celebrare quando Ismeralda sarebbe stata legalmente capace di effettuarlo, all'età di quattordici anni compiuti, ossia nel 1446, cioè tra gli undici e i tredici anni.
Nell'attesa il fidanzato continuava i suoi viaggi di affari. Salpò da Messina per l'Oriente i primi di aprile 1446 rientrando nel luglio 1447, recando regali per Ismeralda e buoni propositi per le nozze, ma improvvisamente morì.
Si spensero di conseguenza gli anni di fidanzamento dal dicembre 1444 al luglio 1446 e la data del matrimonio fu annullata.
Dopo la morte del fidanzato si aggiunse il dolore della perdita inaspettata del padre, durante un viaggio in Sardegna, a Cagliari.[N 3]
Frattanto nell'animo di Ismeralda si rinsaldava la decisione di scegliere Gesù nella strada del monachesimo e l'irradiazione intensa della santità di Dio invadeva la sua anima dotata del dono mistico.
La decisione della vocazione claustrale
L'esperienza complessa del lutto si mescolò con il groviglio dei suoi sentimenti, che la sconvolsero proprio il giorno in cui chiese ai fratelli di voler rivedere la casa natale. In quella casa del passato, Ismeralda, colse l'essenza della sua vita spirituale, alimentata dalla testimonianza di carità e di fede di sua madre e dall'ideale francescano di una vita essenziale che si lascia illuminare dall'esercizio delle virtù cristiane. Proprio l'azione dello Spirito la rese capace di amare Dio con tutto il suo essere. Da qui la ferma decisione di farsi monaca.
Anche l'elaborazione del lutto la maturò nella ricerca di senso della vita. Non fu scontata e senza ostacoli la scelta di Dio, poiché persistevano le richieste di promesse di matrimonio e i suggerimenti dei parenti ad accogliere le proposte di gentiluomini. Ma lei, a soli quattordici anni, aveva già maturato la sua opzione fondamentale: stringere un patto di alleanza con Dio. Il processo di discernimento spirituale la introdusse, alla fine del 1447, nel cammino ascensionale dei grandi mistici. Alle estasi seguì una vita austera: rigoroso digiuno e vita eremitica in una grotta.
Comprese che non era questo il progetto di Dio su di lei, se non quello di farsi monaca. Chiese allora all'Abbadessa Flora Milloso (1435-1482) del Monastero delle Clarisse di Santa Maria di Basicò a Messina, di far parte della comunità monastica. Iniziò le pratiche per l'ingresso pattuendo una dote di venti once[N 4] e il corredo.
Il monastero era tra i più prestigiosi in Sicilia perché luogo ambìto delle fanciulle nobili e oggetto dei privilegi dei re. Alla fine del 1449 la sua scelta totale per la vita contemplativa diventò un dato di fatto. E nella comunità claustrale, dove rimase per undici anni, prese il nome di suor Eustochia, aveva circa sedici anni.
A Basicò, in cui rimase sino al 1460, suor Eustochia si distinse per lo slancio e l'entusiasmo con cui tesseva la sua vocazione nella preghiera e nella costante meditazione della passione di Gesù. L'ambiente rifletteva da un lato l'impegno delle monache verso la santità e, al contempo, velleità per un governo monastico invischiato negli affari terreni e temporali. La vita austera a cui tendeva Eustochia non era supportata dall'atmosfera spirituale che si respirava in convento. Le pene corporali, infatti, a cui si sottoponeva erano per configurarsi a Cristo flagellato. Indossava il cilicio e si legava a una colonna, flagellandosi e sciogliendo la cera delle candele su tutto il corpo. Scelse come cella un sottoscala al buio, dormendo a terra poche ore della notte.
Suor Jacoba Pollicino, biografa fedele e attenta, ricorda che la santa passava ore intere dinanzi all'Eucaristia. Non appena poteva, « si recava in Chiesa davanti al corpo di Cristo e, a una certa distanza - perché non si riteneva degna di avvicinarsi del tutto - si gettava per terra con somma riverenza e ringraziava il Signore». Il suo programma di vita era di vivere unita con Cristo in croce.
Dalla Consacrazione all'incontro con Signore della vita
Eustochia era decisa nel seguire con austera osservanza lo Spirito delle origini della Regola di Santa Chiara, ossia dei Francescani Osservanti e tutto ciò fino al momento in cui, con due decreti del 1457 e 15 aprile 1458, Papa Callisto III autorizzò con la Bolla Piis fidelium votis la richiesta di adattare l'edificio dell'ospedale inagibile della Santa Ascensione in monastero dell'Accomandata. Così l'arcivescovo Giacomo Tedeschi (4 novembre 1450-14 marzo 1473) notificò all'abadessa Milloso che suor Eustochia potesse con quattro monache erigere il nuovo monastero. Alla notizia, l'abbadessa reagì con disapprovazione, ma ormai il progetto aveva preso la strada per l'attuazione[N 5].
Da Basicò a Santa Maria Accomandata a Montevergine
Ad agevolare la soluzione del luogo furono tra l'altro la mediazione di Bartolomeo Ansalone e di altri nobili presso la signora Beatrice vedova del cav. Virgilio Giordano, in quanto aveva ereditato dal marito il giuspatronato dell'ospedale della Sacratissima Ascensione. Questa lo concesse per abitazione alle suore autorizzate dal Rescritto Apostolico[N 6]. Anche se erano intervenute Mascalda e Mita Calafato, la madre e la sorella, che scrissero a Papa Callisto III per ottenere il permesso di formare un nuovo monastero aderente alla Prima Regola di Santa Chiara in quanto la Regola del convento di Basicò si uniformava alla seconda regola approvata da papa Urbano IV il 18 ottobre 1263, ossia più mitigata[N 7].
Al monastero vi abitarono anche Mascalda e la sorella Mita con il permesso dell'arcivescovo.
Non mancarono comunque a Eustochia le amarezze anche del fratello Baldo che rivendicava una parte consistente di eredità. Mascalda per evitare una causa civile con il figlio, con Atto del notaio Matteo Pagliarino del 13 febbraio 1460, cedeva a Baldo la casa della contrada Calefato e della contrada detta dei Setaioli.
A far parte della nascente comunità monastica erano tutte monache giovani, la più anziana suor Eustochia che contava ventisette anni, cinque in più della monaca Pollicino. L'amarezza che aleggiava nell'animo di Eustochia era dovuta al fatto che nessuno dei Padri Osservanti si recasse al monastero per celebrare l'Eucaristia nei giorni festivi o nelle solennità o si prendesse cura della loro vita sacramentale. Per otto mesi la comunità non ebbe il sostegno e il conforto dei Sacramenti, fino al 15 agosto 1461. Ulteriori preoccupazioni erano legate all'osservanza della Regola, all'abito da indossare, al malcontento dei parenti delle postulanti. Ostacoli che via via si attenuarono con l'accoglienza di nuove vocazioni e la comprensione del Papa a cui suor Eustochia si era rivolta per risolvere la cura della vita sacramentale. E con un nuovo Breve pontificio, l'arcivescovo di Messina impose ai Frati Osservanti, sotto pena di scomunica, di assumere la cura spirituale delle suore riformate.
La comunità contava dodici monache e si poneva la questione della nomina dell'abadessa perché senza questa le postulanti non potevano professare. Eustochia era vicaria perché non aveva l'età richiesta per la nomina di Abadessa. In verità non si sentiva all'altezza di tale compito, ma il Papa « vedendo tanta humiltate e insolita adimanda, per nullo modo volse consentire tale domanda overo petitione, et essa, non havendo sue adimande, iterum supplicò che la Abbatessa se mutasse ogni tre anni, como fanno li frati, et foli concesso». E come Vicaria fu eletta suor Jacoba Pollicino. Eustochia non si fece mai chiamare superiora. Da abbadessa riservò per sé le mansioni più umili, la cura delle suore ammalate, i lavori riservati alle novizie per umiliare e disprezzare sé stessa. Era questo il suo impegno ascetico per configurarsi a Cristo.
Dopo alcuni anni, il crollo del tetto della chiesa e di parte del fabbricato, costrinse Eustochia e la sua comunità a trasferirsi in una casa offertale dal benefattore Bartolomeo Ansalone, nella località dove attualmente è ubicato il Monastero di Montevergine. Così nel primo semestre dell'anno 1464, tra il 25 marzo e il 10 agosto, le monache, attraversando la Magistra ruga del pendio di Montevergine e si trasferirono. La casa era accogliente e comoda, ma non funzionale alle loro esigenze di [[preghiera]«, di solitudine e di crescita vocazionale. Così, l'acquisto delle case limitrofe da parte del benefattore Ansalone risolsero le esigenze della vita comune di monache di clausura.
A Montevergine rifiorì il movimento francescano, sotto l'autorevole e saggia guida della fondatrice, che insegnava con la parola e con la testimonianza l'ideale di una sequela povera, amante del Crocifisso, adorante dell'Eucaristia. Le vocazioni affluirono numerose e suor Eustochia per alimentare la vita spirituale sia delle giovani, sia della comunità scrisse un libro sulla Passione oltre che a pensare come costruire altri spazi per rendere il monastero più funzionale.
Anche la madre di Eustochia chiese di entrare come novizia in monastero il 10 agosto 1464, per condividerne i criteri evangelici. A essere abbadessa dal 1467 al 1469 era sempre suor Eustochia che lasciò l'abbadessato in favore di suor Jacopa Pollicino che compiva trent'anni, ossia l'età adatta per adempiere tale servizio. Poi il 21 aprile 1472 venne nominata ancora abbadessa, per poco tempo perché si ammalò senza più guarire. I medici, infine, le diagnosticarono la tubercolosi.
La morte
A partire del 1468 le sue condizioni di salute si aggravarono impedendole di fondare un nuovo monastero a Reggio Calabria per il quale aveva già avuto l'assenso papale. Nonostante i gravi problemi di salute sopravvisse alla peste del 1482.
Giovedì 20 gennaio 1485 giorno di San Sebastiano, suor Eustochia tornò alla Casa del Padre. Le sue ultime parole furono: « Prendete, figlie mie, il Crocifisso per Padre, ed Egli vi ammaestrerà in ogni cosa». Le esequie furono celebrate nella Chiesa di San Nicola e improvvisamente apparve una moltitudine di colombe in volo.
Lasciò una fervente e stimata comunità religiosa di circa cinquanta religiose.
Dopo la morte
Erano trascorsi cinque giorni e il suo corpo rimaneva elastico e morbido al tatto. Dal suo naso usciva abbondante sangue, come se fosse ancora viva. E il suo corpo emanava profumo. Sono tanti i fatti inconsueti, tra cui la candela che illuminava la testa, rimase accesa, senza mai consumarsi. Le monache, infatti, ne conservarono il moccolo come reliquia di un fatto straordinario.
La sera di venerdì il corpo doveva essere deposto nella bara, ma le suore notarono il colore roseo del viso e la morbidezza delle mani. Costrette dal confessore, però, dovettero chiudere il corpo nella bara e il sabato la seppellirono.
Altri fatti inspiegabili accaddero: dopo alcuni giorni, la suora sacrestana mentre preparava per la celebrazione eucaristica sentì provenire dal camposanto limitrofo alla chiesa tre colpi proprio dalla bara di suor Eustochia. Per non destare sospetti le monache praticarono un foro nella bara per accertarsi se l'abbadessa fosse ancora viva. Dissipato il dubbio, la sera udirono nuovamente altri colpi. A quel punto le monache aprirono la bara e notarono che dal naso uscivano due rivoli di sangue, come se fosse viva e le dita erano piegate in segno di benedizione. Le monache con del cotone idrofilo asciugarono l'epistassi dal naso, che non cessava. Decisero allora di richiudere la bara. Una monaca ammalata, però, chiese a suor Eustochia di essere guarita: e lo fu non appena toccò un po' di quel sangue. In verità, Eustochia era viva anche da morta. E fu un andirivieni di suore, di religiosi, di medici, di studiosi, di uomini di scienza e di legali perché il corpo di suor Eustochia emanava sudore e ciò si protrasse fino al trigesimo.
Il sudore divenne il toccasana per gli ammalati, certamente in proporzione alla fede che riponevano nell'intercessione di suor Eustochia. Simili episodi avvennero anche quando il corpo tu traslato dalla tomba al sepolcro, fino alla teca in cui ancora oggi è deposto il corpo.
L'arcivescovo di Messina, nel 1690, scrisse in Vaticano alla Congregazione dei Riti affermando: « Il suo corpo, da me diligentemente veduto e osservato, è integro, intatto e incorrotto ed è tale che si può mettere in piedi, poggiando sulle piante di essi. Il naso è bellissimo, la bocca socchiusa, i denti bianchi e forti, gli occhi non sembra affatto che siano corrotti, perché sono alquanto prominenti e duri, anzi nell'occhio sinistro si vede quasi la pupilla trasparente. Inalterate le unghie delle mani e dei piedi. Il capo conserva dei capelli e, quello che reca maggiore meraviglia, si è che due dita della mano destra sono distese in atto di benedire, mentre le altre sono contratte verso la palma della mano accenno a una benedizione che la Beata avrebbe dato con quella mano, dopo la sua morte, a una suora. Le braccia si piegano sia sollevandole che abbassandole. Tutto il corpo è ricoperto dalla pelle, ma la carne sotto di essa, si rileva al tatto disseccata».
Eustochia fu subito venerata dai messinesi e il 14 settembre 1782, a conclusione del processo, Papa Pio VI la proclamò beata.
L'11 giugno 1988 Giovanni Paolo II la proclamò santa.
Da oltre cinquecento anni Santa Smeralda Eustochia Calafato veglia sulla città e sui messinesi, della quale è copatrona. Il suo corpo è meta di incessanti pellegrinaggi che testimoniano la profonda venerazione dell'umile Clarissa che in vita consacrò tutto il suo essere a "Gesù zuccarato", come amava definirlo[N 8].
La spiritualità
Il vissuto concreto della fede di suor Eustochia s'inserisce, da una parte, nella spiritualità francescana delle Clarisse della prima ora, dall'atra affonda le radici nella testimonianza dei valori evangelici della mamma Mascalda. Così, per Eustochia, l'amore a Gesù crocifisso, alla Parola di Dio, all'Eucaristia erano i tre nuclei della sua preghiera che scandiva un quotidiano vissuto con umiltà e gioia.
Si tratta di punti nodali su cui è articolata la stesura del "Libro della passione", scritto da suor Eustochia in cui annota, tra l'altro, guidata dallo Spirito Santo, le visioni, le ispirazioni, i colloqui. Dagli scritti si comprende che prima di tutto lasciarsi accompagnare da Gesù significa assecondare l'azione dello Spirito perché la persona ami Dio con tutte le sue forze, con tutta la sua mente, con tutto il cuore e con tutta l'anima, come sollecita il Primo comandamento.
Così scrive Eustochia: « Fermati e medita devotamente sulla tenerezza e l'amore di Gesù verso le care Marta e Maria e parla all'amato: "O dolcissimo Signore, quanto beate furono quelle tue amiche, che tu rendesti degne di ospitarti! [...] O dolce Gesù, inonda della tua acqua la mia testa e i miei occhi fonte di lacrime che arrivino a bagnare completamente i tuoi piedi [...]».
È una storia sponsale, mistica, di una cercatrice d'infinito. Di una pellegrina verso la luce. Da ogni visione e da ogni sofferenza raccoglie la resina dalle ferite guarite perché capace di offrirle al volto sofferente di Gesù. Proprio la ferita, anche fisica, diventa per lei dono prezioso e luogo d'incontro e di comunione con Dio e con il prossimo. Avverte che Dio la sostiene e si fa suo Cireneo. In tal senso si consegna a Dio la fatica e il dolore che la aprono a una conoscenza più profonda del mistero. Si lascia spogliare da Cristo perché Egli muta il suo lamento in danza e sostituisce l'abito di sacco in veste di gioia, come recita il Template:Pc.
Santa Eustochia, come abbiamo già detto, fondava la sua preghiera sulla [[Celebrazione Eucaristica, Ella spiegava che in ogni persona c'è Gesù, ma per riuscire a vederlo anche nelle persone poco profumate, prima bisogna nutrirsi del Signore per questo trascorreva molte ore in adorazione. Perché la carità, espressione della Passione di Gesù, conquisti i cuori. Questa la matrice del suo curare gli ammalati perché stare vicino alla persona che soffre equivaleva a stare vicino a Gesù. Il suo insegnamento era agire con concretezza in unione e contemplando la Passione di Gesù. Da questa origine riconosceva la centralità di Dio nel corso della e pregava per essere fedele alla sua vocazione. Al primo posto c'è sempre Dio. In tal senso comprendeva il progetto di Dio, che non era sulla terra per caso. Eustochia aveva una sola finalità: essere uno spazio dell'amore infinito di Dio. Aveva, infatti, compreso che senza rispetto e senza fiducia non c'è amore, non c'è futuro.
In questa cornice di spiritualità assumono significato le sue intuizioni e le sue visioni. Attraverso di essi ha consapevolezza di essere destinata all'eternità. E su questa logica accompagna le consorelle a non desistere, perché l'Amore non si arrende.
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