Pietro Donà
Pietro Donà Vescovo | |
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Montagna Bartolomeo Affresco di Petrus Donatus, Palazzo vescovile, Padova | |
Età alla morte | 57 anni |
Nascita | Venezia 1390 |
Morte | Padova 7 ottobre 1447 |
Sepoltura | Cattedrale di Padova |
Ordinazione presbiterale | in data sconosciuta |
Nominato vescovo | 1426 da Martino V |
Consacrazione vescovile | in data sconosciuta |
Incarichi ricoperti | |
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Pietro Donà (Venezia, 1390; † Padova, 7 ottobre 1447) è stato un vescovo italiano.
Cenni biografici
Nacque a Venezia nel 1390, terzogenito del patrizio veneziano Nicolò Donà. Studiò all'università di Padova dove il 30 gennaio 1410 ottenne la licenza in artibus. Conseguì il dottorato solo il 19 ottobre 1418. In quello stesso anno pronunciò nella cattedrale di Padova l'orazione funebre di Francesco Zabarella che forse fu suo insegnante.
Primi incarichi
Intraprese una rapida carriera ecclesiastica. Già nell'estate 1411 risultava protonotario apostolico. Alla fine dello stesso anno chiese alla Curia romana (mediante il suo messo Florio Valerio) che gli fossero concessi dei benefici, nonché la dignità di vescovo. Le sue aspirazioni furono esaudite e nel 1415 fu eletto arcivescovo di Candia, anche se fu necessaria una dispensa di papa Giovanni XXIII non avendo ancora raggiunto l'età canonica.
A partire dal 1420 lo si ritrova direttamente impegnato presso la Curia romana. Il 25 marzo 1423 papa Martino V lo mandò a presiedere il concilio di Pavia assieme a Giacomo di Campli, vescovo di Spoleto, Leonardo di Stagio Dati, generale dei domenicani e Pietro, abate di Rosazzo. L'assemblea, che fu presto spostata a Siena a causa di una pestilenza, mise in luce le divisioni interne alla Chiesa e non portò a nessun risultato rilevante. Così il 7 marzo 1424 il Donà e altri legati pontifici si portarono di nascosto nel territorio di Firenze e fecero affiggere sulla porta della cattedrale cittadina il decreto con cui si scioglieva il concilio.
Governatore di Perugia
Questa scelta trovò il pieno favore del Papa che il 25 ottobre 1425 lo nominò legato a latere di Perugia e dell'Umbria e il seguente 5 dicembre venne eletto Sede titolare di Castello. Anche in questo caso il Donà non prese possesso della diocesi e rimase ad amministrare la turbolenta città umbra, da poco riannessa allo Stato pontificio. Si occupò dell'ampliamento della cattedrale, istituì il collegio "Nuova Famiglia" e appoggiò il Gattamelata[1] che tentava di restituire al Papa, Montone e Città di Castello, occupate dalla famiglia da Varano[2].
Nel 1428 fu trasferito alla diocesi di Padova ma il Donà rimase a Perugia delegando dei vicari al governo della diocesi. Nel 1430 fu in lite con i Priori che non intendevano consegnare il monaco Angelo di Pascuccio alle autorità romane. Nello stesso anno fu richiamato in Curia dal pontefice e l'anno seguente prese possesso della sua diocesi.
L'episcopato a Padova e il concilio di Basilea
Nella città euganea il Donà si dimostrò un pastore zelante. Cercò di riordinare il clero e di favorire le corporazioni, in particolare attraverso la riforma delle costituzioni del capitolo e della cattedrale. Nel 1431, con lo scopo di incentivare la residenza dei detentori dei benefici minori, istituì una rendita extra, detta canevetta, per quanti rispettavano gli obblighi previsti dal proprio titolo. Nel 1432 convocò un sinodo generale.
Nel giugno 1433 raggiunse il concilio di Basilea: così attestava Ambrogio Traversari, giunto a Padova per visitarlo. L'adunanza era stata convocata da Martino V il 10 febbraio 1431 ma sin dall'inizio tra essa e il pontefice erano sorti dei gravissimi attriti. Le cose non erano migliorate con il successore Eugenio IV che ribadiva con forza la propria superiorità nei confronti dell'assemblea. Alla fine il Papa fu costretto a cedere alle richieste dei padri conciliari ma questo non risolse la lite: Eugenio infatti impose dei propri legati a presiedere il concilio e tra questi figurava il Donà, assieme all'arcivescovo di Genova Giovanni Berardi e all'abate di Santa Giustina Ludovico Barbo.
L'assemblea reagì duramente a questa imposizione e solo con la mediazione dell'imperatore Sigismondo di Lussemburgo si giunse a un accordo. Così il 24 aprile 1434 i tre presidenti vennero accettati, a patto che rispettassero la superiorità del concilio sul Papa e la divisione interna in deputazioni e che non imponessero alcuna giurisdizione coattiva. Le condizioni erano molto dure e presto i presidenti iniziarono a disattenderle.
Dal marzo 1435 il Donà e il Berardi si opposero alla decisione che assegnava al concilio il potere di concedere indulgenze, allo scopo di consentire la riunificazione tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa. I due sostenevano che era una prerogativa del pontefice, facendo altresì notare che egli non aveva bisogno di tramiti essendo direttamente impegnato nelle trattative con i Greci. Nel frattempo cominciarono a spingere sulla proposta di trasferire il concilio in Italia.
Il 9 giugno 1435 si ebbe la definitiva rottura: in occasione di una discussione attorno all'abolizione delle annate (i diritti goduti dalla Santa Sede durante la provvisione o la conferma di benefici), il Donà e il Berardi accusarono il concilio di eresia e se ne andarono. Tornarono il 26 agosto successivo, solo dopo numerose intimidazioni e senza ritirare le proprie rimostranze. Nel frattempo si era riaperta la questione delle indulgenze e ancora i due non nascosero il loro dissenso. Infine, nel maggio 1439 lasciarono Basilea.
Nei due anni successivi rimase a Bologna presso il pontefice, visitando di tanto in tanto la sua sede. Nel 1438 partecipò al concilio a Ferrara e lo seguì nel suo successivo spostamento a Firenze. Nel 1439 era nuovamente a Padova e ottenne un privilegio papale per l'università. Nel 1440 tornò a Firenze e vi rimase altri due anni, per poi tornare definitivamente nella sua diocesi. Questa scelta di rompere con la Curia fu probabilmente dettata dalle rivalità nei suoi confronti, legate alle gelosie che il suo prestigio aveva suscitato.
Ultimi anni
Disilluso e amareggiato e certamente affaticato dopo tanti anni di carriera, impiegò gli ultimi anni di vita all'istituzione di un collegio universitario, detto Domus Sapientie, aperto a venti studenti bisognosi di diritto canonico. Il progetto incontrò delle difficoltà, tant'è che il 14 settembre 1447 aggiornò il suo testamento dando possibilità agli esecutori di erigere, come alternativa alla Domus Sapientie, un monastero di certosini o di altri monaci; si orientò, alla fine, per la fondazione della certosa di Padova.
Nel 1446 convocò un sinodo che sentenziò contro la libera distribuzione degli oli santi ai secolari, esprimendosi altresì a favore di un abbigliamento modesto del clero e dell'efficace sfruttamento dei beni ecclesiastici, che furono confermati inalienabili. Nello stesso anno finanziò la cattedra di Bartolomeo Cipolla all'università e istituì due benefici per l'insegnamento di grammatica e musica ai chierici. Nel 1447 liberò da ogni tassazione il Santuario di Monteortone e iniziò il restauro dell'episcopio.
Morì forse di peste il 7 ottobre 1447 e fu sepolto nella cattedrale.
Successione degli incarichi
Predecessore: | Vescovo di Castello (titolo personale di arcivescovo) |
Successore: | |
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Marco Lando[3] | 1425 - 1428 | Francesco Malipiero[4], O.S.B. |
Predecessore: | Vescovo di Padova (titolo personale di arcivescovo) |
Successore: | |
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Pietro Marcello | 1428 - 1447 | Fantino Dandolo |
Predecessore: | Legato a latere di Perugia e dell'Umbria | Successore: | |
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Antonio Correr | 25 ottobre 1425 - maggio 1430 | Domenico Capranica |
Note | |
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Bibliografia | |
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