Vizi capitali

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Hieronymus Bosch, Sette peccati mortali (1500 - 1525 ca.), olio su tavola; Madrid, Museo del Prado

I vizi capitali sono desideri non ordinati verso il Bene Sommo, cioè verso Dio; la tradizione cristiana, che li ha codificati sulla base della sapienza dei filosofi dell'antichità, insegna che sono all'origine di tutti i peccati.

La denominazione di vizi capitali risponde al fatto che essi vengano considerati come abitudine o propensione; quando invece essi vengono considerati come atti si parla di peccati capitali. Prima del vizio vi è l'atto peccaminoso: è la ripetizione a creare l'abitudine e quindi il vizio[1].

L'aggettivo "capitali"

Questi vizi sono detti capitali non perché siano i più gravi dei peccati (alcuni di essi non superano la colpa veniale), ma perché sono origine e guida di molti peccati. L'uso dell'aggettivo capitali riprende metaforicamente l'accezione del termine "capo" come colui che presiede e che guida[2].

La causalità di cui si parla non è però né fisica né morale, ma solo impulsiva e occasionale, a motivo particolarmente, a detta di San Tommaso, del fine: colui che è dominato da qualche vizio capitale è capace di commettere qualunque peccato o delitto pur di soddisfare la sua viziosa passione[1].

Le radici bibliche e i primi secoli

La Bibbia nomina molte volte i vari vizi, singolarmente o in gruppo, ma sono enunciazioni che precedono ogni sistemazione settenaria o ottenaria[1].

Un qualche fondamento per la classificazione che diventerà classica può essere stato fornito dai testi Sir 10,13 [3]; 1Tim 6,9-10 ; 1Gv 2,16 . E difatti i primi scrittori che tentano la classificazione pongono la superbia come prima fonte universale, sulla base del primo di tali testi, che nella Volgata suona: "initium omnis peccati est superbia", "la superbia è l'inizio di tutti i peccati". Dietro la superbia enumerano gli altri sette vizi: la vana gloria, l'avarizia, la lussuria, l'invidia, la gola, l'ira e l'accidia, dando il numero otto, che prevale in Oriente.

Il numero settenario (Occidente)

In Occidente viene seguito San Gregorio Magno[4], ed è quindi comunemente è accettato il numero settenario, sia pure con qualche dissenso[5]. Neanche in Oriente, del resto, erano mancati autori che si attenevano per una ragione o l'altra al numero di sette[6].

Enumerazione

In Occidente pertanto i vizi/peccati capitali sono i sette seguenti:

  • Superbia: il desiderio disordinato di essere superiori agli altri, fino al disprezzo degli ordini e delle leggi.
  • Avarizia: il desiderio disordinato dei beni temporali.
  • Lussuria: la dedizione al piacere e al sesso.
  • Invidia: la tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio.
  • Gola: l'abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola.
  • Ira: il desiderio disordinato di vendicare un torto subito.
  • Accidia: il lasciarsi andare al torpore dell'animo, fino a provare fastidio per le cose spirituali, e in particolare l'abbandono della preghiera e dell'amicizia verso Dio perché faticosa.

La sintesi di Tommaso

San Tommaso d'Aquino osserva[7] che il numero sette risponde alle sette fondamentali tentazioni viziose dell'uomo, il quale disordinatamente desidera quattro specie di beni, e rifugge da tre altri beni, perché a questi è congiunto il male.

  • Il primo bene desiderato è di ordine spirituale, ed è la propria eccellenza, l'onore e la gloria, che, desiderati disordinatamente causano la superbia e la vana gloria.
  • Altro bene è quello del corpo, che è duplice:
    • la conservazione dell'individuo; il disordinato uso dei cibi e delle bevande è causa del vizio della gola (secondo bene);
    • la conservazione della specie; il disordinato uso della sessualità è causa della lussuria (terzo bene).
  • Il quarto bene sono le ricchezze, l'attaccamento alle quali e l'uso non secondo la retta ragione è causa dell'avarizia.

Vi sono poi i tre beni da cui l'uomo rifugge disordinatamente:

  • il proprio bene spirituale, che si trascura a causa della fatica, e in ciò consiste l'accidia;
  • il bene altrui, che si rifugge in quanto menoma la nostra eccellenza, da cui l'invidia;
  • ancora il bene altrui, che si fugge e spinge alla vendetta; ciò causa l'ira.

Gli otto vizi capitali dell'Oriente

Gli Orientali, seguendo Evagrio Pontico e San Massimo il Confessore, conoscono otto vizi capitali[8]. Tra essi gli autori orientali sostengono con forza l'esistenza di un vizio comune, radice degli altri, la φιλαυτία, philautía ("amor proprio").

L'elenco tipico in Oriente è il seguente:

  1. γαστριμαργία, gastrimarghía ("gola")
  2. πορνεία, porneía ("lussuria")
  3. φιλαργυρία, philargyría ("avarizia")
  4. λύπη, lýpe ("tristezza")
  5. ὀργή, orghé ("ira")
  6. ἀχηδία, achedía ("pigrizia", "accidia")
  7. χενοδοξία, chenodoxía ("vanagloria")
  8. ὑπερηφανία, hyperephanía ("superbia")

Rispetto all'elenco occidentale si notano subito varie differenze:

  • i peccati o vizi sono disposti in ordine diverso;
  • sono presenti la vanagloria e la tristezza, assenti nella tradizione occidentale;
  • la superbia e la vanagloria appaiono uno sdoppiamento rispetto all'elenco occidentale;
  • non è inclusa l'invidia, anche se essa è certamente inclusa, secondo i diversi autori, a volte nell'ὀργή (ira), altre nell'ἀχηδία (accidia).
Note
  1. 1,0 1,1 1,2 Gennaro Moretti (1952) 1572.
  2. San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I-II, q. 84.
  3. Nella Volgata questo versetto corrisponde a 10,15, e come tale si trova citato in molti testi sull'argomento dei vizi capitali.
  4. Moralia, XXXI, 45: PL 76, 620.
  5. Ad esempio Sant'Isidoro di Siviglia (Differentiarum, II, n. 161 e seguenti: PL 83, 96 e seguenti) e Alcuino (Liber de virtutibus et vitiis, 27-34: PL 101, 653-736).
  6. Ad esempio San Giovanni Climaco (Scala paradisi, 30: PG 88, 948-1164) e San Massimo il Confessore (Questiones ad Thalassium, prologo: PG 90, 255).
  7. Summa Theologiae, I-II, q. 84, a. 4. Si veda anche: Quaestiones disputatae de malo, VIII, art. 1[1].
  8. Emanuele Candal (1952) 1573.
Bibliografia
Voci correlate
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Il contenuto di questa voce è stato firmato il giorno 19 marzo 2012 da Don Paolo Benvenuto, baccelliere in Teologia.

Il firmatario ne garantisce la correttezza, la scientificità, l'equilibrio delle sue parti.