Ira
L'ira o collera è un desiderio disordinato di vendetta che accompagna un disordine della sensibilità[1]; in quanto tale è male, e, se abituale, viene considerato vizio, uno dei sette vizi capitali. Al proposito Gesù insegna nel Discorso della Montagna: "Chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio" (Mt 5,22 ).
Se l'ira si spinge fino al proposito di uccidere il prossimo o di ferirlo in modo brutale, si oppone gravemente alla carità, ed è un peccato mortale[2].
Esiste anche un'accezione buona del termine, secondo la quale l'ira "è una deviazione dell'istinto che porta a difendersi, quando si è assaliti, respingendo la forza con la forza"[3].
Nella Bibbia
Mentre alcune correnti filosofiche antiche, come lo stoicismo, riprovavano ogni impeto di collera in nome del loro ideale di apàtheia ("apatia"), la Bibbia conosce "ire sante", che esprimono in concreto la reazione di Dio contro la ribellione dell'uomo.
L'ira di Dio
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Propriamente, la Bibbia insegna che solo Dio può adirarsi: nell'Antico Testamento i termini di ira sono usati per Dio circa cinque volte più che per l'uomo.
Paolo, che tuttavia dovette incollerirsi più d'una volta (At 15,39 ), consiglia con saggezza: "Non fatevi giustizia da soli; lasciate fare all'ira divina, perché sta scritto: a me la vendetta, io darò la giusta paga, dice il Signore" (Rm 12,19 ). L'ira non è compito dell'uomo, ma di Dio. Gesù stesso proverà reazioni di ira (cfr. Mc 3,5 ).
Per accedere veramente all'amore di Dio il credente deve accostarsi al mistero della sua ira. Voler ridurre le espressioni che parlano dell'ira di Dio a espressioni mitiche di un'esperienza umana significa misconoscere la serietà del peccato e la tragicità dell'amore di Dio.
L'ira santa
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Di fronte al peccato l'uomo può quindi partecipare dell'ira di Dio e concepire una "ira santa". L'Antico Testamento ci attesta, tra le altre, l'ira di Mosè contro gli Ebrei che si costruiscono il vitello d'oro sull'Oreb (Es 32,19.22 ).
Nel Nuovo Testamento, Paolo ad Atene "fremeva dentro di sé al vedere la città piena di idoli" (At 17,16 ): dinanzi a questi e dinanzi al peccato, gli uomini di Dio sono, al pari di Geremia, "ripieni dell'ira di YHWH" (Ger 6,11; 15,17 ).
La condanna dell'ira
Nonostante l'approvazione dell'ira che si scaglia contro il peccato, in generale Dio condanna la reazione violenta dell'uomo che si adira contro un altro, sia egli geloso come Caino (Gen 4,5 ), furioso come Esaù (Gen 27,44-45 ) o come Simeone e Levi che vendicano in modo eccessivo l'oltraggio fatto alla loro sorella (Gen 49,5-7 ; cfr. 34,7-26; Gdt 9,2 ): quest'ira porta ordinariamente all'omicidio.
I libri sapienziali biasimano la stoltezza dell'iracondo (Pr 29,11 ) che non controlla il "soffio delle narici", secondo l'immagine originale; inversamente, ammirano il sapiente che ha "il fiato lungo", in opposizione all'impaziente "dal fiato corto" (Pr 14,29; 15,18 ). L'ira genera l'ingiustizia (Pr 14,17; 29,22 ; cfr. Gc 1,19-20 ).
Gesù si è mostrato ancor più radicale, assimilando l'ira al suo effetto abituale, l'omicidio (Mt 5,22 ). Paolo quindi la giudica incompatibile con la carità (1Cor 13,5 ): è un male puro e semplice (Col 3,8 ) da cui bisogna guardarsi, soprattutto a motivo della prossimità di Dio (1Tim 2,8 ; Tt 1,7 ).
Nell'antichità classica
L'antichità pagana presenta le letture diametralmente opposte di Aristotele e di Seneca.
Aristotele ritiene l'ira addirittura necessaria, perché senza il suo apporto non è possibile affrontare alcuna battaglia. Certamente egli afferma che dell'ira occorre fare buon uso, ponendola a nostro servizio e non viceversa. Arrabbiarsi è facile, osserva nell'Etica a Nicomaco, ma non è da tutti arrabbiarsi con la persona giusta, nella misura giusta, al momento giusto e per una giusta causa.
Seneca dedicò all'ira uno dei suoi trattati morali; per lui l'ira è sempre un male. Il fatto di controllarla non la libera dalla sua intrinseca negatività.
Nella Tradizione della Chiesa
Nella tradizione della Chiesa l'ira è il quarto dei sette vizi capitali.
San Gregorio Magno distingue l'ira per zelo dall'ira per vizio: la prima turba l'occhio della ragione, la seconda lo acceca[4]. Traccia poi l'identikit dell’iracondo: il cuore accelera e palpita; il capo trema; la lingua gli si inceppa; gli occhi gli escono dall' orbita; non riconosce le persone conosciute; la bocca urla; niente si capisce di ciò che dice.
San Giovanni Crisostomo afferma che tra l'ira e la pazzia non vi è alcuna differenza: nulla c'è di più turpe di un volto furioso, nulla è più deformante il volto e la persona[5].
San Tommaso d'Aquino afferma che la condanna del vizio dell'ira non toglie che sia lodevole imporre una riparazione "al fine di correggere i vizi e di conservare il bene della giustizia"[6].
Approfondimento
L'ira, quando è peccato, è tale perché aliena profondamente il soggetto umano riconducendolo sulla soglia dell'animalità[7]. Nell'ira l'uomo abdica a ciò che lo connota, e ne rimane pregiudicata la sua capacità di discernere e giudicare, di riflettere con oggettività, di esprimere giudizi sensati su persone, cose e situazioni.
Nel suo aspetto cattivo, l'ira è peccato grave solo quando raggiunge un grado tale da venire assimilata alla perdita dell'uso della ragione, con la violenza delle parole e dei fatti: in questo caso essa lede gravemente il comandamento dell'amore del prossimo[8].
I moralisti, in linea con l'insegnamento biblico, considerano lecita l'ira giusta, che si ha quando ci si adira in modo ragionevole per una colpa e se ne esige il corrispondente castigo[9].
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