Libro di Giobbe
Libro di Giobbe | |
Albrecht Dürer, Giobbe e la moglie (1503) | |
Sigla biblica | Gb |
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Titolo originale | {{{titolo originale}}} |
Lingua originale | ebraico |
Autore | Anonimo |
Ambientazione Geografica | Terra Santa |
Ambientazione Storica | XVI secolo a.C. |
Personaggi principali: | |
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Il libro di Giobbe (ebraico איוב; greco Ιώβ, Iób; latino Iob) è un libro dell'Antico Testamento; è comunemente considerato il capolavoro letterario della corrente sapienziale.[2]
Lo studio storico-critico del testo ha permesso di stabilire che la cornice (introduzione ed epilogo) risale all'XI-X secolo a.C., mentre la redazione definitiva va ricondotta attorno al 575 a.C..
Si compone di 42 capitoli scritti in ebraico la cui ossatura è data dalla fusione di tre temi principali che sono molto cari alla riflessione sapienziale di Israele e che danno all'opera un carattere di universalità e di perenne attualità: l'esperienza profondamente umana della sofferenza, quella più provocatoria e drammatica del dolore innocente, quella autenticamente religiosa delle fede perseverante anche nel dolore.
Il tema trattato non è originariamente biblico, perché si trovano racconti a esso paralleli nelle culture di molti popoli vicini a Israele, come l'Egitto, la Mesopotamia, la Siria, per cui esso e, in particolar modo, il problema del male e della ricompensa ricevuta per le proprie azioni, appartiene alla sapienza universale. Tuttavia l'autore del libro di Giobbe lo ha arricchito con una straordinaria capacità poetica e con la profondità della sua riflessione che apre nuovi orizzonti, coinvolgendo anche la fede religiosa e il discorso su Dio.
Anche a causa delle diverse redazioni, il testo fornisce complessivamente 4 diverse (e complementari) risposte al problema del male:
- l'uomo non può conoscere il senso del male predisposto dall'insondabile sapienza di Dio;
- il male iniziale si muterà in un bene più grande;
- il male patito permette al giusto di maturare;
- ci sarà un redentore che riscatterà il giusto sofferente.
Il libro di Giobbe, per la complessità dei temi trattati e della struttura letteraria, per la sua estensione, per la ricchezza e a volte la drammaticità delle problematiche affrontate, è una delle più belle opere della Bibbia e una delle vette più alte della riflessione sapienziale di tutta l'umanità.
Antecedenti letterari
Il libro di Giobbe si inserisce in un filone letterario che già da secoli aveva prodotto opere importanti in tutto l'Antico Oriente. La voce di questi antenati ideali prepara, più che nei dettagli, lo spirito che anima le pagine di questa grande opera.
In Egitto con la nascita della letteratura sorge anche il desiderio di decifrare il mistero della vita umana. Tra gli antenati di Giobbe si colloca un'opera risalente al 2200 a.C. circa, che porta il titolo Dialogo di un suicida con se stesso, composto 156 linee tracciate su papiro. Il protagonista descrive la sofferenza intollerabile della sua vita e sogna il suicidio attraverso il fuoco per ottenere la liberazione. La sua anima apre con lui un dibattito in difesa della vita, ma l'aspirante suicida avanza un'argomentazione che convince anche l'anima: la speranza di una vita futura con gli dei permette di superare anche il passaggio oscuro della morte. L'anima non rigetta più l'ipotesi del suicidio, ma nel finale dell'opera dichiara la sua disponibilità a condividere qualsiasi decisione presa dal protagonista.
Anche in Mesopotamia vi sono le opere che possono essere considerate antenate del libro di Giobbe: un primo esempio è L'uomo e il suo Dio personale, un testo sumerico del 2000 a.C.; Voglio celebrare il Signore della sapienza, un poema babilonese databile attorno al 1500 a.C.; la Teodicea babilonese, un poema acrostico di 27 strofe che risale al 1000 a.C.; il Dialogo pessimistico, un testo assiro – babilonese giunto a noi in una versione che risale all'inizio del primo millennio a.C. In genere queste opere accolgono la dottrina della retribuzione compendiata nella coppia “delitto – castigo” che Giobbe rifiuta esplicitamente.
Nell'undicesima grotta di Qumran è stato ritrovato un testo che ha attirato subito l'attenzione degli studiosi di Giobbe. E' la cosiddetta Preghiera di Nabonide, databile al V secolo a.C. Nabonide, ultimo re dell'impero babilonese, viene colpito da un'infiammazione maligna che lo isola da tutto il popolo. Disperato innalza le sue suppliche a tutti gli dei in cui crede. Un veggente ebreo compare in scena a indicargli la via della salvezza, l'invocazione al Dio Altissimo. Il dio gli appare in sogno e lo guarisce dalle piaghe che lo hanno tormentato per sette anni. Gli chiede di costruire un tempio in suo onore e lo riporta trionfalmente sul trono.
Questi paralleli consentono di tracciare un primo bilancio: i testi esaminati difficilmente possono essere considerati fonti dirette del libro biblico, ma ne sono come l'archeologia. Oltre a somiglianze riguardanti la struttura di Gb, con uno sviluppo poetico inserito tra un prologo e un epilogo in prosa, lo schema ternario dei nove interventi e l'utilizzazione di un trio di amici in dialogo col protagonista, sono rilevanti soprattutto le soluzioni proposte ai problemi sollevati dalla questione del male, che si possono così riassumere:
- Il male è conseguenza del peccato ed è sottoposto a una retribuzione individuale;
- Il male fa parte della creazione ed è intrinseco a ogni essere umano;
- La felicità dei malvagi avrà una retribuzione differita nel tempo;
- La retribuzione dopo la morte è la risposta a ogni ingiustizia presente;
- La sapienza divina è troppo alta perché l'uomo la possa giudicare.
Giobbe però si distingue da tutte queste opere perché pone il problema del male esclusivamente dal punto di vista morale e teologico, non appellandosi alla soluzione di una vita dopo la morte che non tenga conto della contraddittorietà del presente. Il libro costituisce quindi una vera proposta per stimolare la fede, per mettersi in ricerca del vero volto di Dio.
Testo
Il libro di Giobbe ha una capacità particolare di esprimere attraverso la lingua ebraica, così povera di termini, la complessità della sua ricerca interiore e la profondità del messaggio teologico. L'uso di vocaboli molto rari, alcuni dei quali sono veri e propri hapax, hanno reso molto difficile la trasmissione del testo, al punto che uno studioso come Ginsberg afferma che quasi un terzo dell'intera opera è incerto nel suo senso esatto. In questi anni però sono stati compiuti importanti studi di filologia comparata, soprattutto cananeo - ugaritica, che hanno permesso di sciogliere molte difficoltà.
Davvero straordinario è anche l'uso dei simboli, tali da trasmettere una luminosità che rende indimenticabile il messaggio sotteso. Un esempio significativo è la rappresentazione dell'illusione di un'amicizia solo consolatoria attraverso la descrizione di una scena di vita del deserto (6,14-21). Bildad, uno degli amici, descrive la fragilità della fortuna dell'empio attraverso tre immagini molto espressive, quella del papiro, della ragnatela e del rampicante (8,8-19). Ancora molto celebre e delicata, con toni tipicamente semitici, è la descrizione della formazione del feto nel grembo della madre (10,8-12).
Autore, datazione e struttura letteraria
Le differenze di vocabolario, di stile, di contesto culturale rivelano che non siamo di fronte a un'opera scritta di getto, ma la sua composizione è frutto di un lavoro a più mani svoltosi in un lungo periodo di tempo.
Prima di cogliere il messaggio del libro è fondamentale analizzare la struttura letteraria dell'opera. Giobbe non è nato in un unico periodo creativo dalla mente di un solo scrittore, anche se è la sostanza religiosa del libro è riconducibile a un autore principale che potrebbe essersi ispirato a un racconto popolare.
- Il prologo (cc. 1-2) e l'epilogo in prosa (cc. 42,7-17) sono il nucleo originario che l'autore ha preso come base fondamentale e primo strato del suo poema. Si può ipotizzare che siano parte di un racconto già circolante sulla bocca dei saggi alla fine del II millennio a.C. e che sia stato tramandato anche in ebraico all'epoca di Davide e Salomone (XI-X secolo a.C.). L'epilogo fu conservato pur contraddicendo la teologia del poeta, poiché riafferma la credenza popolare nella retribuzione individuale terrena. Ciò avvenne probabilmente perché apparteneva a un racconto classico molto antico che non si voleva perdere e perché conveniva bene alla concezione morale degli scribi di epoca persiana.
- Nel secondo e fondamentale strato ha poi introdotto un dialogo tra Giobbe e i suoi tre amici secondo uno schema (3x3) già presente nelle Proteste di un contadino loquace, testo egizio che presenta alcune somiglianze con Giobbe. Il percorso di questo strato è molto complesso e articolato e sbocca su un intervento finale di Dio (cc. 38-41), vero e proprio cuore dell'opera. In seguito all'esilio di Babilonia del 587 a.C., i Giudei furono tentati di mettere in dubbio la loro stessa fede nella giustizia di Dio. È in questo contesto di dolore che probabilmente un poeta della seconda generazione dell'esilio (570 a.C.), servendosi del racconto preesistente, ha composto il poema che occupa tutta la parte centrale del libro (3,1-31,40; 38,1-42,6). Il poema si conclude con la celebrazione della sapienza e della santità di Dio, che superano infinitamente l'immaginazione dell'uomo e l'idea che egli si fa della sua provvidenza e bontà. Questa parte in poesia non presenta però i temi centrali della fede di Israele, come l'elezione, l'alleanza di Mosè e di Davide, il monte di Sion, il tempio, il culto sacrificale e la speranza messianica. Ciò ha spinto alcuni studiosi ad affermare che l'autore del libro fosse un saggio orientale non israelita, pensando addirittura che l'attuale testo ebraico fosse la traduzione di un originale aramaico o arabo. In realtà queste ipotesi non paiono sufficientemente fondate perché chi compose il testo in poesia dimostra di conoscere gli oracoli dei profeti, in particolare le "confessioni di Geremia" (una serie di brani autobiografici sparsi all'interno dell'omonimo libro biblico, Ger 11,8-12,3; 17,14-18; 18,18-23; 20,7-9.14.18 ). In conclusione si può supporre che l'autore finale, sopravvissuto alla deportazione babilonese, sia stato tra i fondatori del futuro giudaismo. Pur non essendo né profeta, né sacerdote, creò a beneficio della sua comunità privata del culto e sradicata dal suo ambiente, una letteratura che unificava vari generi come la lamentazione, l'inno, il detto sapienziale, la controversia, la maledizione, l'invettiva e persino l'antico genere della teofania.
- Il terzo strato è rappresentato dai discorsi di un amico inatteso, Elihu, che nei capitoli (cc. 32-37) compare interrompendo il dialogo tra Dio e Giobbe senza lasciare altre tracce nel libro: gli studiosi ipotizzano che, di fronte all'inefficacia delle argomentazioni dei tre amici, l'autore abbia introdotto questa figura come espressione di una teologia più elaborata: Elihu vede il dolore come un'educazione che Dio compie verso i malvagi e verso i giusti perché si liberino dai loro limiti e contemplino il progetto di Dio accogliendolo e amandolo (36,1-15)
- Il quarto strato è rappresentato dal capitolo (cc. 28), un inno che in un certo senso anticipa la soluzione del libro e che nella struttura attuale ha la funzione di intermezzo. Molti studiosi affermano che l'elogio della sapienza in esso contenuto sia un'aggiunta successiva, anche se presenta importanti analogie coi discorsi di Dio dei capitoli 38-41.
Se gli esegeti collocano in maggioranza la stesura del secondo strato attorno al 400 a.C., il terminus ad quem dovrebbe essere il 190 a.C., anno della composizione del Siracide, che in (cc. 49,9) cita la condotta di Giobbe.
Contenuto
Inizio in prosa
Il libro inizia con un racconto in prosa. Un grande servo di Dio, uomo fedele e giusto, di nome Giobbe, viveva ricco e felice. Ma Dio permise a Satana di tentarlo per vedere se fosse rimasto fedele, anche nella cattiva sorte. Toccato, prima nei beni e poi figli, Giobbe accetta che Dio si riprenda quel che gli aveva dato. Colpito nella sua stessa carne da una malattia ripugnante e dolorosa, Giobbe rimane sottomesso e respinge la moglie che gli consiglia di maledire Dio. Allora tre suoi amici, Elifaz, Bildad e Zofar, vengono a compiangerlo (cc. 1-2). Questa prima parte in prosa può essere suddivisa in sei piccole scene distribuite alternativamente tra cielo e terra (1,1-5; 1,6-12; 1,13-22; 2,1-6; 2,7-10; 2,11-13) e accomunate dal tema della sofferenza presentata come prova della fede.
Corpo in poesia
Dopo il prologo si apre un grande dialogo poetico, che costituisce il corpo del libro. Si tratta di una conversazione a quattro: in tre cicli di discorsi (3-11; 12-20; 21-27) si hanno nove interventi di Giobbe e tre serie di tre discorsi ciascuna degli amici: essi confrontano le loro concezioni riguardo alla giustizia divina:
- Elifaz ha qualche tratto che lo avvicina al veggente, cioè al profeta;
- Zofar è il sapiente che rimanda alla sapienza tradizionale di Israele;
- Bildad rappresenta il giurista, difensore del diritto dell'alleanza.
Tutti e tre però difendono la tesi tradizionale della retribuzione terrena: se Giobbe soffre è perché ha peccato; e se anche può sembrar giusto ai propri occhi, non così appare agli occhi di Dio. Dinanzi alle proteste di innocenza di Giobbe, che arriva anche a maledire di essere nato (3,3-12), essi non fanno che irrigidirsi nella loro posizione, comprimendo la tragedia umana e religiosa di Giobbe (7,1-7) nello stampo freddo di un dogma ormai codificato dalla tradizione. Di fronte ai ragionamenti degli amici tanto la drammatica realtà del male quanto il mistero di Dio perdono ogni consistenza. Giobbe non riesce ad accettare questa conclusione: nel cuore dell'opera si può individuare una forte polemica contro l'eccessiva rigidità di certi teoremi teologici (9,1-16).
Nella sezione centrale è molto famoso il passo in cui viene citato il vendicatore o redentore (19,23-27). La storia dell'esegesi di questo passo è molto complessa, anche se si possono identificare due filoni interpretativi principali:
- Il primo lo legge come una affermazione solenne della risurrezione finale ed è testimoniato soprattutto dai Padri della Chiesa latina come Clemente Romano e Agostino, ma si trovano riferimenti anche in Origene e Cirillo di Gerusalemme. La più importante testimonianza di questa interpretazione rimane però la traduzione latina della Vulgata ad opera di Girolamo che è diventata normativa anche per l'uso del brano nella liturgia delle esequie.
- L'altro filone, invece, nega qualsiasi riferimento alla risurrezione, preparando in qualche modo la posizione della maggioranza degli esegeti moderni. Il maggior rappresentante di questa interpretazione fu Giovanni Crisostomo, ma già Ireneo di Lione parlando della risurrezione aveva ignorato questo passo.
A questo punto, continuamente chiamato in causa da Giobbe, interviene Dio stesso, che ha la sua parola da dire sull'intricato mistero del male. Anziché fare una apologia di se stesso, Dio interroga Giobbe sul mistero dell'essere attraverso due lunghi discorsi. Nel primo (cc. 38-39), formato da quattro serie di quattro strofe interrogative, Giobbe è come un pellegrino stupito che attraversa la lunga serie delle meraviglie che costituiscono il mondo: egli non arriva a conoscere la trama complessiva, eppure sa che esiste e che appartiene all'unico Creatore e Signore dell'universo (38,12-21; 40,3-5). Nel secondo discorso di Dio (cc. 40-41) vengono convocati due mostri cosmici, Beemot e Leviatan, simboli delle energie negative della creazione, o anche delle due grandi potenze planetarie, la Mesopotamia e l'Egitto, quindi di tutti i poteri negativi della storia: Dio solo può dare un senso a tutte queste minacce incombenti sulla vita dell'uomo.
Giobbe capisce che Dio non si può ridurre a uno schema razionale e che alla sua sapienza infinita sono affidati tutti quegli avvenimenti e quelle realtà che per la mente umana rimangono misteri. La confessione finale di Giobbe non è tanto una risposta al mistero del male, quanto una professione di fede autentica in Dio, non è un'affermazione di teodicea ma una proclamazione teologica: "Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono" (cc. 42,5).
Finale in prosa
L'epilogo (cc. 42,7) è del tutto secondario e col suo lieto fine chiude il prologo e ricompone la trama dell'antico racconto popolare su Giobbe. La stesura di questa mappa del contenuto permette di intravedere che il nucleo dell'opera non riguarda né l'etica, né la teodicea, ma attiene alla teologia pura: Giobbe è un uomo alla ricerca del vero volto di Dio demolendo le spiegazioni facili e i luoghi comuni.
Il messaggio teologico
Poiché la conclusione dell'opera non è la soluzione umana al mistero del male, ma è il vedere Dio con i propri occhi, il messaggio, che è costituito dall'intreccio tra i temi dell'uomo,del male e di Dio, ha come tema ultimo la manifestazione di Dio.
Giobbe è un uomo credente, che vive in prima persona il mistero della sofferenza. Dal libro si possono ricavare molte considerazioni riguardanti la condizione umana, spesso espresse attraverso il linguaggio dei simboli. L'aspetto più sottolineato è il senso vivo e forte del limite umano: “L'uomo, nato da donna, breve di giorni e sazio di inquietudini, come fiore sboccia e subito è avvizzito, come ombra svanisce e mai si arresta” (14,1-2). Tale limite non riguarda solo il suo essere, ma anche la sua vita etica: “Può il mortale essere giusto dinanzi a Dio, puro l'uomo dinanzi al suo Creatore?” (4,17).
Il cammino di Giobbe è però anche quello di un credente che attraversa l'oscurità del mistero del male e, pur cadendo in una cupa disperazione, continua a cercare Dio anche nel silenzio più totale. Tutto il libro è attraversato da un senso forte di Dio: “Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio d'ogni carne umana. Ecco, se egli demolisce, non si può ricostruire, se imprigiona uno, non si può liberare. Se trattiene le acque, tutto si secca, se le lascia andare, devastano la terra.” (12,10.14-15) Il libro presenta anche la storia di un uomo sofferente, come testimonia ogni sua pagina. Il dolore, del resto, è il banco di prova ineliminabile di qualsiasi teologia che voglia definirsi matura e anche della fiducia in Dio e nella vita. Di fronte a tale enigma il pensiero dell'uomo ha fornito molte risposte nel corso della storia, oscillando tra il monismo e il dualismo, il pessimismo e l'ottimismo. Giobbe, da parte sua, vuole affermare la necessità della fede per riuscire ad affrontare tale questione, per cui la sua risposta è tutta indirizzata a volgere lo sguardo verso il mistero di Dio.
Giobbe affronta direttamente il grande interrogativo sul mistero del male ma lo fa senza tematizzarlo in modo razionale. Nella Bibbia tale problema aveva già ricevuto una serie di risposte: la storiografia deuteronomistica, i profeti, il punto di vista dei Salmi, gli scritti apocalittici avevano affrontato il problema del male ciascuno dal proprio peculiare punto di vista. Giobbe prende di mira soprattutto la sapienza tradizionale che ha elaborato la teoria della retribuzione, secondo la quale ogni sofferenza è mandata da Dio come punizione dei peccati personali. Giobbe non accetta questo tipo di risposta perché la considera insufficiente a rendere ragione dell'esistenza personale e della storia, che spesso appaiono contraddittorie agli occhi dell'uomo. Egli accetta invece la realtà del male nella sua forza di scandalo, nella sua realtà bruta e provocatoria, convinto che il mistero del male conduca a Dio in modo molto più autentico che l'esistenza del bene. Il male urla con tutta la sua forza contro la mente dell'uomo, ma alla fine Giobbe è convinto che esista un progetto misterioso, assolutamente trascendente, quello di Dio, che riesce a collocare entro un disegno sapiente quello che per l'uomo rimane incomprensibile.
Il vertice dell'opera è la contemplazione del mistero di Dio, che conduce l'intelligenza di Giobbe verso la speranza e lo porta a innalzare un inno di lode al Creatore. Dio vuole far capire a Giobbe che il suo disegno non è riducibile a nessuno schema, e Giobbe riconosce che, davanti alle meraviglie dell'universo che sfilano davanti a lui, non è in grado di cogliere se non una piccola particella dell'universo, mentre Dio abbraccia tutto con la sua sapienza. Dio, che viene sfidato da Giobbe, alla fine sfida Giobbe a comprendere che solo la sua logica può comprendere tutto, mentre la logica dell'uomo è limitata e per questo continuamente esposta al dubbio e all'assurdo. Alla fine dell'opera Giobbe non vede il male armoniosamente inserito nella trama dell'essere, ma incontra Dio che realizza questo incastro non secondo la ragione dell'uomo, ma secondo il suo progetto trascendente.
Fortuna
Numerose sono state nel corso dei secoli le interpretazioni date al libro di Giobbe, visto sia come esempio di pazienza ma anche di rivolta. Non si possono dimenticare due importanti interpretazioni teologiche cristiane: quella di Gregorio Magno, Moralia in Job, della fine del VI secolo d.C., costituita da 35 libri in 6 volumi: la sofferenza non è presentata come un male, ma come uno strumento che purifica e avvicina l'uomo a Dio. Giobbe viene visto come figura di Cristo e satana diventa il diavolo. Tommaso d'Aquino, nella sua Expositio super Job (1261-1265), preferisce invece una interpretazione letterale: Giobbe diventa l'esempio della vera fede nella provvidenza, e la sofferenza da lui patita va compresa alla luce della dottrina della vita dopo la morte.
Giobbe ha anche ispirato molti testi della letteratura ed è stato interpretato in vario modo a seconda dello spirito dell'epoca. Nel Medioevo viene visto come un modello che vive la rassegnazione e la pazienza nel momento della prova. Nel Rinascimento, invece, Giobbe si trasforma in una figura stoica, mentre l'Illuminismo insiste sul tema dei diritti umani: Giobbe è un esempio da imitare per le sue rivendicazioni, ma da evitare per la sua sottomissione. Il Romanticismo vede Giobbe come il ritratto della tristezza umana, pieno di nostalgia per l'infinito. Nel secolo scorso Giobbe è l'uomo condannato a una esistenza senza senso all'interno di un mondo assurdo.
Numerosi esegeti, teologi, filosofi, psicologi, scrittori, pittori e musicisti hanno trovato ispirazione nel libro di Giobbe. Tra i maggiori si possono ricordare: C. Jung, Goethe, F. Kafka, S. Kierkegaard, E.Wiesel, R. Girard, E. Bloch.
Uso liturgico
Sono quattro i brani del libro di Giobbe che il Rito dell'unzione degli infermi ha inserito nel suo Lezionario: 3,1-3.11-17.20-23; 7,1-4.6-11; 7,12-21; 19,23-27. Altri brani (7,1-4.6-7; 38,1.8-11) sono letti nelle domeniche del tempo ordinario, mentre 19,23-27 è letto anche nella liturgia della Commemorazione di tutti i fedeli defunti.
Note | |
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Bibliografia | |
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Voci correlate | |