Settimo comandamento
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Il settimo comandamento proibisce di prendere o di tenere ingiustamente i beni del prossimo, nonché di arrecare danno al prossimo nei suoi beni in qualsiasi modo.
Esso prescrive la giustizia e la carità nella gestione dei beni materiali e del frutto del lavoro umano.
Esige al tempo stesso il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata, in vista del bene comune[1].
È correlato al decimo comandamento, che riguarda anch'esso il rapporto con i beni materiali, e che si focalizza su aspetti più interiori.
Nell'Antico Testamento
Il comandamento ha il senso di tutelare gli attentati alla proprietà altrui[2]. Nella formulazione del decalogo il precetto non è un duplicato del "non desiderare" (Dt 5,21 ; Es 20,16 )[3].
Il fondamento del comandamento sta nel fatto che, "all'inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell'umanità, affinché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro e ne godesse i frutti (cfr. Gen 1,26-29 ). I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano"[4].
La legislazione dell'Antico Testamento tutela rigorosamente i diritti di tutti ai beni della terra, flagella i ricchi spietati, difende strenuamente i diritti dei poveri (cfr. Dt 27,19; 15,1-3 ; Lev 25,23 ; Es 22,24 )[5].
La predicazione dei profeti dell'Antico Testamento si scaglia contro chi non osserva il diritto (Am 5,21-24; 8,4-7 ; cfr. Os 4,2 ; Ger 7,9 ).
Nel Nuovo Testamento
Gesù cita questo comandamento riconoscendone la validità (Mt 19,18 ; Mc 10,19 ; Lc 18,20 ); le relative infrazioni, come le altre, hanno la loro radice nel cuore (Mt 15,19 ; Mc 7,21 ).
Nel rapporto con le cose, Gesù ha preso le distanze da chi voleva che egli dirimesse questioni patrimoniali, ed ha avvertito del rischio connesso con l'accumulare tesori; ai suoi discepoli chiede l'abbandono fiducioso al Padre provvidente (Lc 12,13-31 ). Può chiedere ciò perché vive in prima persona la povertà spirituale (cfr. Mt 5,3 ) e il distacco dalle cose. Riguardo alle ricchezze, Gesù indica severamente i pericoli che comportano al fine dell'ingresso nel Regno di Dio (Mt 19,23-24 ); esse possono soffocare la parola e farla rimanere senza frutto (Mc 4,18-19 ).
Anche San Paolo cita il settimo comandamento, facendone una delle esplicitazioni del comandamento dell'amore (Rm 13,9 ) e, altrove, implicitamente (Rm 2,21 ; 1Cor 6,8 ; Ef 4,28 ). L'Apocalisse presenta le ruberie come uno dei peccati che l'umanità non cessa di commettere (9,21). E, sulla stessa linea di Gesù, relativizza l'importanza dei beni del mondo per la vita del credente (1Cor 7,29-31 ). Riassume l'atteggiamento dei cristiani verso le cose materiali nella frase: "Tutto è vostro, [..], ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio" (1Cor 3,22-23 ).
San Giacomo dedica gran parte della sua lettera al dovere dei cristiani verso i poveri (cfr. 2,1-7; 5,1-6).
Nell'insegnamento della Chiesa
Per approfondire, vedi le voci Dottrina sociale della Chiesa e Furto |
La riflessione morale della Chiesa Cattolica situa il settimo comandamento all'interno della prospettiva della destinazione universale dei beni. Tuttavia la proprietà privata "è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità"[6].
In materia economica, il rispetto della dignità umana esige la pratica di alcune virtù importanti[7]:
- della temperanza, per moderare l'attaccamento ai beni materiali;
- della giustizia, per rispettare i diritti del prossimo e dargli ciò che gli è dovuto;
- della solidarietà, seguendo la regola d'oro (Mt 7,12 ; Lc 6,31 ) e secondo la liberalità del Signore: egli, da ricco che era, si è fatto povero per noi, "perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà" (cfr. 2Cor 8,9 ).
Il dettato del settimo comandamento abbraccia vari comportamenti peccaminosi[8]:
- il furto, anzitutto, cioè l'usurpazione del bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario, e anche ogni modo di prendere e di tenere ingiustamente i beni del prossimo;
- la speculazione, con la quale si agisce per far artificiosamente variare la stima dei beni, in vista di trarne un vantaggio a danno di altri;
- la corruzione, con la quale si svia il giudizio di coloro che devono prendere decisioni in base al diritto;
- l'appropriazione e l'uso privato dei beni sociali di un'impresa;
- l'eseguire male i lavori;
- la frode fiscale;
- la contraffazione di assegni e di fatture;
- le spese eccessive;
- lo sperpero;
- l'arrecare volontariamente un danno alle proprietà private o pubbliche;
- la non osservanza dei legittimi contratti;
- i giochi d'azzardo o le scommesse: essi non sono in se stessi contrari alla giustizia, ma lo diventano allorché privano la persona di ciò che le è necessario per far fronte ai bisogni propri e altrui;
- tutti gli atti o le iniziative che, per qualsiasi ragione, egoistica o ideologica, mercantile o totalitaria, portano all'asservimento di esseri umani, a misconoscere la loro dignità personale, ad acquistarli, a venderli e a scambiarli come se fossero merci.
In tutti i casi in cui viene commessa un'ingiustizia si esige la riparazione: coloro che, direttamente o indirettamente, si sono appropriati di un bene altrui, sono tenuti a restituirlo, o, se la cosa non c'è più, a rendere l'equivalente in natura o in denaro, come anche a corrispondere i frutti e i profitti che sarebbero stati legittimamente ricavati dal proprietario.
La Dottrina Sociale della Chiesa sviluppa in dettaglio le esigenze del Vangelo nella vita in società.
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