Utente:Don Angelo Colacrai/Qoèlet

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Qoèlet è un piccolo libro dell'Antico Testamento facente parte dei Libri sapienziali.

Il libro porta il titolo "Parole di Qoèlet, figlio di Davide, re di Gerusalemme". La parola Qoèlet (cf. 1,2 e 1,12; 7,27; 12,8-10) non è un nome proprio, ma un nome comune usato talvolta con l’articolo; benché sia di forma femminile, si costruisce con il maschile. Secondo la più probabile spiegazione il termine Qoèlet designa una funzione: indica colui che parla nella assemblea (qahal, in greco ekklêsìa, da cui deriva il titolo latino e italiano, Ecclesiaste, trascrizione della Bibbia greca), cioè il “Predicatore”.

L'autore

Qoèlet è un giudeo della Palestina, probabilmente della stessa Gerusalemme. Scrive in un ebraico tardivo, pieno di aramaismi, e usa anche due parole persiane. Qoèlet è chiamato “figlio di Davide e re di Gerusalemme” (cf. 1,12) e, benché il nome non sia scritto, questo personaggio è certamente identificato con Salomone al quale il testo fa chiara allusione: 1,16 (cf. 1Re 3,12; 5,10-11; 10,7) oppure 2,7-9 (cf. 1Re 3,13; 10,23).

In realtà questa attribuzione è una finzione letteraria dell’autore che così pone le proprie riflessioni sotto l’autorità del più illustre dei sapienti di Israele. E’ stata spesso discussa l’unità di autore e sono state segnalate due, tre, quattro mani, fino ad un massimo di otto. Ma oggi si rinunzia sempre più a uno smembramento che misconosca il genere e il contenuto del libro, cosa che sarebbe contraddetta dalla unità di stile e di vocabolario. E’ stato edito da un discepolo di Salomone, che ha lasciato la sua firma in forma diretta al termine de libro (12,9-14).

Contesto storico

La lingua e la dottrina del libro, impediscono di collocarlo prima dell'esilio. L'utilizzo nel testo dell'ebraico, dell'aramaico e anche di due parole persiane, fa supporre una data molto posteriore all'esilio, ma anteriore all'inizio del II secolo a.C., quando Ben Sira ha utilizzato questo libretto; in effetti, la paleografia pone verso il 150 a.C. i frammenti di Qoèlet trovati nelle grotte di Qumran. Il III secolo è quindi la data di composizione più probabile. È il tempo in cui la Palestina, sottomessa ai Tolomei, è raggiunta dalla corrente umanistica e non conosce ancora il sussulto di fede e di speranza dell'epoca maccabea.

Contenuto e messaggio del libro

Come per gli altri libri sapienziali quali Giobbe e il Siracide, per non parlare dei Proverbi che sono composti, l'idea va e viene, vien ripresa e vien corretta. Non c'è uno schema definito, ma variazioni su un tema unico: la vanità delle sorti umane, di cui si parla all'inizio e alla fine del libro (1,2 e 12,8). Tutto è illusorio: la scienza, la ricchezza, l'amore, la vita stessa. Questa è un susseguirsi di atti sconnessi e senza valore (3,1-11), che termina con la vecchiaia (12,1-7) e con la morte, la quale colpisce inesorabilmente il sapiente e il folle, il ricco e il povero, l'uomo e l'animale (3,14-20).

Il problema di Qoèlet è lo stesso di Giobbe: il bene e il male sono legati a una remunerazione sulla terra? E, come quella di Giobbe, così la risposta di Qoèlet è negativa, perché l'esperienza contraddice tutte le soluzioni proposte (7,25-8,14). Qoèlet però è un uomo che gode di ottima salute e non cerca come Giobbe il perché della sofferenza; constata l'inanità della felicità e si consola centellinando le gioie modeste che può offrire l'esistenza (3,12-13; 8,15; 9,7-9). Diciamo piuttosto che egli tenta di consolarsi, perché in realtà rimane profondamente insoddisfatto. Il mistero dell’al di là lo tormenta senza che riesca a intravedere una soluzione (3,21; 9,10; 12,7). Ma Qoèlet è un credente e, se lo sconcerta il modo con cui Dio regge le sorti umane, afferma che Dio non deve rendere conto a nessuno (3,11.14; 7,13), che bisogna accettare dalla sua mano le prove come le gioie (7,14), che bisogna osservare i comandamenti e temere Dio (5,6; 8,12-13).

È evidente che questa dottrina è lontana dall'essere coerente; ma, piuttosto che dividere gli elementi tra diversi autori che si correggerebbero o si contraddirebbero, non sarebbe meglio attribuire le divergenze a una stessa riflessione, insicura di se stessa per il fatto che affronta un mistero tremendo senza possedere gli elementi di soluzione? A Qoèlet, come a Giobbe, una risposta può essere data solo dalla fede nella remunerazione dell'oltretomba.

Il libro ha il carattere di un'opera di transizione. Le certezze tradizionali sono scosse, ma niente di fermo viene a rimpiazzarle. In questa svolta del pensiero ebraico, alcuni hanno cercato di scoprire influssi stranieri che avrebbero influenzato Qoèlet. Bisogna scartare gli accostamenti spesso proposti con le correnti filosofiche dello stoicismo, dell'epicureismo e del cinismo, che Qoèlet avrebbe potuto conoscere attraverso la mediazione dell'Egitto ellenistico; nessuno di questi accostamenti è decisivo e la mentalità dell'autore resta troppo lontana da quella dei filosofi greci. Sono stati proposti parallelismi, apparentemente più validi, con composizioni egiziane come il Dialogo del Disperato con la sua anima o i Canti dell'Arpista e, più recentemente, con la letteratura sapienziale mesopotamica e con l'Epopea di Gilgamesh. Ma non può essere dimostrato l'influsso diretto di alcuna di queste opere. Le convergenze avvengono su temi che sono talvolta molto antichi e che erano divenuti patrimonio comune della sapienza orientale. È su questa eredità del passato che Qoèlet ha riflettuto personalmente, come appunto afferma il suo editore (12,9).

Il libro è solo un momento dello sviluppo religioso e non bisogna giudicarlo staccandolo da ciò che l'ha preceduto e da ciò che lo seguirà. Mettendo in evidenza l'insufficienza delle antiche concezioni e forzando gli spiriti ad affrontare gli enigmi umani, fa appello a una rivelazione più alta. Dà una lezione sul distacco dai beni terrestri e, negando la felicità dei ricchi, prepara il mondo a udire: “beati voi poveri” (Lc 6,20).

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