Carlo Magno




Carlo Magno Laico | |
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Albrecht Dürer (1471–1528), Ritratto dell'imperatore Carlo Magno (1511-1513), olio su tela; Germanisches Nationalmuseum, Norimberga | |
Età alla morte | 71 anni |
Nascita | 2 aprile 742 |
Morte | Aquisgrana 28 gennaio 814 |
Sepoltura | Cattedrale di Aquisgrana |
Re dei Franchi | |
In carica | 10 luglio 774 – 28 gennaio 814 |
Predecessore | |
Successore | |
Re dei Longobardi | |
Incoronazione | Natale dell'anno 800, nell'antica basilica di San Pietro in Vaticano, venne incoronato Imperatore dei Romani da papa Leone III |
Predecessore | |
Successore | |
Re d'AquitaniaPatrizio dei Romani | |
Predecessore |
Titolo vacante |
Dinastia | Dinastia carolingia |
Padre | Pipino il Breve |
Madre | Bertrada di Laon |
Coniugi |
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Figli |
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Religione | Cattolica |
Carlo Magno, detto Carlomagno o Carlo I (2 aprile 742; † Aquisgrana, 28 gennaio 814), è stato un re e imperatore franco, fu re dei Franchi dal 768, re dei Longobardi dal 774 e fondatore dell'impero carolingio.
Re dei Franchi
Era il primogenito di Pipino il Breve, re dei Franchi, e di Bertrada, figlia di Cariberto conte di Laon. Nulla si sa della sua giovinezza; compare nella storia nel gennaio del 754, quando il padre lo inviò incontro al papa Stefano II, che dall'Italia si recava presso di lui a Ponthiou, per chiedere aiuto contro i Longobardi. Dal papa fu, col fratello minore Carlomanno, consacrato re il 28 luglio 754, nella basilica di Saint-Denis.
Per gli anni seguenti, scarsi sono i ricordi del principe. Nel 760 e nel 762 interviene ad alcune donazioni monastiche di Pipino; nel 761-762 segue il padre nella guerra d'Aquitania; nel 763 ha dal padre la concessione di alcuni comitati, però nulla sappiamo di una qualche partecipazione di Carlo al governo. Venuto a morte, il 24 settembre 768, il re Pipino, Carlo e Carlomanno assunsero il governo del regno, accettando la divisione paterna: al primo l'Austrasia e la Neustria a nord dell'Oise, al secondo la Neustria a sud dell'Oise, la Borgogna, la Gozia, l'Alamannia, la Turingia e indivisa l'Aquitania.
Carlo fu incoronato il 9 ottobre a Noyon. Le relazioni dei due re erano fin d'allora non buone. È possibile che Carlomanno non fosse soddisfatto della ripartizione come dice Eginardo, che attribuisce al giovane principe sentimenti bellicosi, mentre Carlo avrebbe sopportato con mansuetudine e senza adirarsi l'invidia del fratello. Qualche motivo di discordia fu certo offerto dalla questione aquitanica. Approfittando dei cambiamenti del regno, verso il 769 scoppiò in quella regione una nuova insurrezione sotto un Hunald, forse padre del duca Waifer, ucciso negli anni precedenti nella repressione di re Pipino. I due re franchi, nel convegno di Duasdives (Poitou), decisero una concorde spedizione; ma poi Carlomanno si disinteressò delle cose e Carlo rimase solo. L'esercito di Carlo costrinse tuttavia Hunald ad abbandonare l'Aquitania e a rifugiarsi in Guascogna presso quel duca Lupo; l'avanzata franca superò assai presto la Dordogna e Lupo fu costretto a consegnare il ribelle.
La morte improvvisa di Carlo Manno, avvenuta nel 771 in circostanze misteriose, rese Carlo unico sovrano del regno franco. Carlo, da Valenciennes, dove aveva tenuto una dieta, invase gli stati del fratello, e a Corbény (Laon) fu riconosciuto dai vescovi e conti austrasici. La vedova di Carlomanno, con i due figli e un gruppo di fedeli, non riconobbe l'usurpazione e si rifugiò presso la corte longobarda.
Il suo regno fu da lui allargato, grazie a una serie di vittoriose campagne militari, fino a comprendere una vasta parte dell'Europa occidentale.
Intervento in Italia
Intanto Desiderio, re dei Longobardi, che aveva indubbiamente riportato una vittoria diplomatica con l'aver dato in isposa la figlia Desiderata al re Carlo, sicuro dell'alleanza franca, nel febbraio del 771 era comparso sotto Roma, e s'era inteso con papa Stefano III promettendogli le terre contestate dell'Esarcato e del Ducato, e accordandogli aiuti contro i suoi avversari, Cristoforo primicerio dei Notai, e suo figlio Sergio, tesoriere, che dopo avere sfruttato anni prima l'amicizia longobarda, ora si appoggiavano ai Franchi.
Il partito longobardo, capitanato dal cubiculario Paolo Afiarta, riuscì ad eliminare gli avversari e a dominare la città e il papa; Desiderio, raggiunto il suo scopo, dimenticò tosto le promesse fatte a Stefano III. Egli contava su Carlo per tenere a freno Carlomanno; ma s'ingannò, in quanto Carlo già nel 771 ripudiò la sposa longobarda. Eginardo dichiara che i motivi dell'atto erano incerti; si può pensare tanto a motivi privati (sterilità), quanto a motivi politici (malcontento per la politica romana di Desiderio). Certo è che il re longobardo, colpito nel suo onore, diventò terribile nemico del franco, e accordò ospitalità alla vedova e ai partigiani di Carlomanno. Il nuovo papa Adriano I, successo a Stefano III (3 febbraio 772), si affrettò ad accostarsi a re Carlo, approfittando dell'errore di Desiderio. Questi infatti aveva ripreso l'occupazione dell'Esarcato, e avanzatosi con un esercito fino a Viterbo, pretendeva che il papa riconoscesse i figli di Carlomanno come re dei Franchi e li incoronasse.
Adriano I, dopo essersi liberato dei fautori di Desiderio, inviò per mare i suoi ambasciatori in Francia a chiedere aiuto; in seguito a tale passo Carlo mandò due commissarî a Roma per avere idee chiare sulla situazione. La relazione ricevuta lo consigliò ad intervenire prima presso Desiderio, offrendogli 14.000 solidi d'oro per l'abbandono delle terre richieste dal papa. Il rifiuto longobardo ebbe come immediata conseguenza la guerra. Infatti si trattava per Carlo di difendere non solo la Chiesa, ma la stessa unità del suo regno, minacciata dalle rivendicazioni dei figli di Carlomanno sostenute da Desiderio. È dubbio però che, nel 773, Carlo, attraversando le Alpi, avesse una lucida visione del da farsi e si proponesse la conquista del regno longobardo.
Le forze franche furono radunate a Ginevra, da dove partirono nel giugno due colonne: una, sotto lo stesso re, attraversò le Alpi al Cenisio, l'altra, sotto il conte Bernardo, zio del re, passò per il San Bernardo. Falliti gli ultimi tentativi di un accordo pacifico, Carlo iniziò l'attacco delle chiuse di Val Susa, cioè degli sbarramenti che esistevano nella valle al confine, presso Avigliana. La resistenza che Desiderio aveva preparato fallì, o perché Carlo inviò un reparto ad attaccare i Longobardi sul fianco, aggirandoli per una stretta valle, o perché i Longobardi furono costretti a ritirarsi per la minaccia dell'esercito del conte Bernardo, che scendeva lungo la Dora Baltea. Le forze regie si concentrarono a Pavia sotto Desiderio, e a Verona sotto Adelchi.
Le forze franche ebbero ben presto ragione di Verona: Adelchi solo si salvò, rifugiandosi prima in territorio bizantino e poi a Costantinopoli. Pavia invece oppose una lunghissima resistenza, e Carlo, dopo essersi attardato tutto l'inverno nell'accampamento sotto le mura della forte città, si recò nella primavera del 774 a Roma a celebrarvi la Pasqua (13 aprile). Solo al suo ritorno Pavia si arrese (giugno 774). Carlo, che aveva catturato a Verona la famiglia del fratello Carlomanno, fece prigioniero a Pavia Desiderio e lo inviò in Francia in un monastero. Il re Carlo si considerò erede della tradizione regia longobarda e già il 5 giugno 774, in un diploma a favore dell'abbazia di Bobbio, s'intitolò Rex Francorum et Langobardorum. Si fermò a Pavia tutto il mese di giugno e luglio per sistemare la nuova organizzazione dello stato italiano, quindi, lasciativi suoi rappresentanti come presidio, riprese la via del Nord. Il 10 settembre era già a Lorsch.
Il patriziato romano
Carlo era già stato conosciuto, con il fratello, come patricius Romanorum sin dal tempo della sua consacrazione regia, nel 754. Quando nel 774 egli si recò a Roma, il papa lo accolse con il cerimoniale precedentemente usato per gli esarchi e i patrizi bizantini. Il 6 aprile con grande solennità Carlo procedette a quella donazione all'Apostolo (promissio donationis), che fu giudicata e ritenuta come conferma della donazione fatta da Pipino a Stefano II a Quierzy nel 754, e che stando al testo, peraltro molto discusso, del biografo di Adriano nel Liber Pontificalis, comprendeva tutto l'esarcato, le provincie bizantine di Venezia e d'Istria, i ducati di Spoleto e di Benevento, la Tuscia longobarda, parte dell'Emilia, della Venezia longobarda, la Corsica. Il diploma originale fu deposto nella tomba di San Pietro e la copia nell'archivio romano.
Partito Carlo, in diverse parti della penisola si manifestarono dissensi e sintomi d'insofferenza del nuovo regime. Le pretese del papa Adriano di sfruttare il diploma di donazione in tutta la sua ampiezza, urtarono contro analoghe pretese dell'arcivescovo di Ravenna, desideroso d'imporre la sua dominazione nell'ex-esarcato di Bisanzio. Adriano ripetutamente si rivolse a re Carlo, lagnandosi della debolezza dei funzionari regi: peggio adesso che al tempo dei re longobardi. Più grave ancora era il malcontento nelle regioni longobarde, dove la deposta dinastia non aveva perduto tutte le sue aderenze. Nel 775 Adelchi, con l'appoggio del governo bizantino, parve organizzare un tentativo di restaurazione longobarda: suo alleato era il cognato Arechi, principe di Benevento; nel Nord contemporaneamente avveniva la ribellione di Rotgaudo, duca del Friuli. Anche il duca di Spoleto, Ildebrando, e Regimbaldo duca di Chiusi, parevano complici della grande cospirazione longobarda. Carlo inviò in Italia un'ambasceria a visitare i duchi, per sorprenderne le intenzioni: poi, quando il pericolo si aggravò, scese rapidamente in Italia al principio del 776. Sconfisse il duca del Friuli e occupò Treviso, punì con condanne a morte, esilî, prigionie, confische di beni i colpevoli della congiura; si assicurò della fedeltà, sostituendo nei posti di comando funzionari franchi a quelli longobardi, e lasciando in varie città presidî franchi. Dopo due mesi di soggiorno nell'Italia superiore, ritornò oltralpe senza recarsi a Roma.
Solo alla fine del 780 si decise a riprendere la via dell'Italia. Sua intenzione era di far consacrare dal papa i due figli Carlomanno e Ludovico. La cerimonia avvenne nella Pasqua del 781 (15 aprile); Carlomanno era stato battezzato la vigilia col nome di Pipino e il papa ne era stato il padrino. A lui fu assegnato il regno d'Italia; a Ludovico quello di Aquitania. Con Adriano I il re si occupò di varî problemi politici: l'atteggiamento sospetto di Tassilone, duca di Baviera, l'ostilità di Arechi, principe longobardo di Benevento, i rapporti con la corte imperiale di Costantinopoli. Per il papa era importante in modo speciale che si risolvesse la questione di Arechi, atteggiatosi del tutto a sovrano indipendente, che aspirava a estendere la sua dominazione nella Campania a danno delle pretese papali. Ma nel maggio del 781 Carlo abbandonò Roma e fece ritorno in Francia.
Rapporti con la Chiesa e il Papato
Generalmente, i re franchi si presentavano come naturali difensori della Chiesa cattolica, avendo "restituito" al pontefice ai tempi di Pipino quei territori dell'Esarcato di Ravenna e della Pentapoli che per concezione comune erano creduti appartenenti al Patrimonio di san Pietro. Carlo sapeva bene che al papa importava soprattutto ritagliare un sicuro territorio di sua pertinenza in Italia centrale, libero da altri poteri temporali, compreso quello bizantino.
I rapporti tra l'Imperatore e papa Adriano I sono stati ricostruiti dalla letteratura delle missive epistolari che i due si scambiarono per oltre un ventennio. Molte volte Adriano cercò di ottenere l'appoggio di Carlo riguardo alle frequenti beghe territoriali che minavano il suo presunto potere temporale: una lettera datata 790, ad esempio, contiene le lamentele del pontefice nei riguardi dell'arcivescovo ravennate Leone, reo di avere sottratto alcune diocesi dell'Esarcato.
Carlo si poneva anche come paladino della diffusione del cristianesimo e strenuo difensore della cristianità ortodossa. Ne sono prova le numerosissime istituzioni di abbazie e monasteri e le relative ricche donazioni, le guerre (soprattutto contro i Sassoni e gli Avari) intraprese con spirito missionario per la conversione di quei popoli pagani, le concessioni anche normative a favore del clero e delle istituzioni cristiane. Carlo non era certo particolarmente competente di temi teologici, ma sicuramente le dispute e i problemi religiosi lo appassionavano, tanto che si circondò sempre, o comunque ebbe frequenti rapporti, con i massimi teologi contemporanei, che dall'interno della sua corte diffusero alcune delle loro opere; si schierò in prima linea contro le eresie e le deviazioni dall'ortodossia, come la teoria adozionista o l'annoso problema dell'iconoclastia e del culto delle immagini, questione con cui si trovò in aspro contrasto con la corte di Costantinopoli dove quel problema era nato. Indisse poi sinodi e concili per discutere delle più pressanti questioni di fede.
Di particolare interesse, più per le implicazioni politiche che non per quelle religiose, fu il sinodo che Carlo convocò e presenziò personalmente a Francoforte per il 1º giugno 794. Ufficialmente si trattava di ribadire pubblicamente la rinuncia del vescovo Felice di Urgell alla sua eresia adozionista (alla quale aveva peraltro abiurato già da due anni), ma il vero scopo era quello di ribadire il proprio ruolo come principale difensore della fede. Oltre a Felice di Urgell, la teoria adozionista era sostenuta anche da Elipando, vescovo di Toledo, che però operava all'interno della Spagna araba e con il quale era dunque praticamente impossibile avere contatti e confronti su questioni di ortodossia[1].
Nel 787, infatti, l'imperatrice d'Oriente Irene aveva convocato e presieduto a Nicea, su invito del papa, un concilio per discutere del problema del culto delle immagini.[1]
Il clero franco, ritenuto sottomesso al papa, non era neanche stato invitato, e Adriano aveva accettato le risoluzioni conciliari. Carlo invece non poteva accettare la definizione di “concilio ecumenico” per un'assemblea che aveva escluso la massima potenza occidentale e la voce dei suoi teologi, e decise pertanto di contrattaccare con le stesse armi, affrontando a Francoforte gli stessi argomenti di Nicea e dimostrando all'Oriente che il regno franco non doveva essere considerato inferiore all'impero d'Oriente, anche per le questioni teologiche. È plausibile che in questa circostanza abbia cominciato a maturare, in Carlo, l'idea di un rafforzamento della sua posizione con l'assunzione del titolo imperiale, che lo avrebbe posto allo stesso livello dei regnanti bizantini. Il papa non condivise le posizioni del concilio di Francoforte come invece aveva fatto per quello bizantino, ma molto diplomaticamente “ne prese atto”, troncando la questione e anzi ribadendo le sue pretese territoriali in Italia: il regno franco era il più stretto alleato della Chiesa, e l'alleanza si basava anche sulla condivisione dei principi dottrinari.[2]
La questione di papa Leone III
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Per approfondire, vedi la voce Papa Leone III |
Alla morte del pontefice, nel 795, devotamente e sinceramente compianto da Carlo, assunse la tiara papa Leone III, papa di origine modesta e privo di appoggi fra le grandi famiglie romane.[1]<ref> Il nuovo papa intrattenne immediatamente rapporti rispettosi e amichevoli con Carlo, dando un incontestabile segnale di continuità con la linea del predecessore; il ruolo del re dei Franchi quale difensore del papa e di Roma venne ribadito, e anzi i legati pontifici inviati dal papa per annunciargli l'elezione, nel confermargli il titolo di “patricius Romanorum”, invitarono il re ad inviare a Roma suoi rappresentanti di fronte ai quali il popolo romano avrebbe dovuto giurare fedeltà e sottomissione.
Carlo, che era al corrente delle voci che correvano sulla dubbia moralità e rettitudine del nuovo papa, inviò il fidatissimo Angilberto, abate di Saint-Riquier, con una lettera in cui definiva quelli che secondo lui dovevano essere i reciproci ruoli tra il pontefice e il re, e con la raccomandazione di verificare la reale situazione ed eventualmente suggerire cautamente al papa la necessaria prudenza per non alimentare le voci sul suo conto.[2] Nel 798 Carlo fece una mossa che accentuò ancora di più il suo ruolo anche nella Chiesa e la debolezza del pontefice: inviò a Roma un'ambasceria incaricata di presentare al papa il piano di riorganizzazione ecclesiastica della Baviera, con innalzamento della diocesi di Salisburgo a sede arcivescovile e nomina del fidato Arno a titolare di quella sede.
Il papa prese atto, non tentò neanche di riappropriarsi di quella che doveva essere una sua prerogativa e accondiscese al piano di Carlo, semplicemente attuandolo. Nel 799 il re franco vinse un'altra battaglia di fede, convocando e presiedendo ad Aquisgrana un concilio (una sorta di duplicato di quello di Francoforte del 794) in cui il dotto teologo Alcuino confutò, con la tecnica della disputa, le tesi del vescovo Felice di Urgell, il promotore dell'eresia adozionista che si stava di nuovo diffondendo; Alcuino ne uscì vincitore, Felice ammise la sconfitta, abiurò le sue tesi e fece atto di fede, con una lettera che indirizzò anche ai suoi fedeli. Immediatamente fu inviata una commissione nella Francia meridionale, terra di diffusione dell'adozionismo, con il compito di ristabilire l'obbedienza alla Chiesa di Roma. In tutto ciò il papa, a cui sarebbe spettata in prima persona la convocazione del concilio e la predisposizione dell'ordine del giorno, fu poco più che spettatore.[2]
Altra questione teologica che vide prevalere Carlo a scapito del pontefice fu quella cosiddetta del “filioque”. Nella formulazione del testo tradizionale del “Credo”, era usata la formula in base alla quale lo Spirito Santo discende dal Padre attraverso il Figlio e non, paritariamente, dal Padre e dal Figlio (in latino, appunto, “filioque”) come veniva usata in Occidente. Il papa stesso, in ossequio alle deliberazioni dei concili che così avevano stabilito, riteneva valida la versione dell'ortodossia greca (che, tra l'altro, non prevedeva la recita del Credo durante la Messa), ma volle ugualmente sottoporre la questione al parere di Carlo, il quale, nell'809, convocò ad Aquisgrana un concilio della Chiesa franca che ribadì la correttezza della formula contenente il “filioque”, recitata anche durante la celebrazione della Messa. Leone III rifiutò di prenderne atto, e per circa due secoli la Chiesa romana utilizzò una formulazione diversa da quella delle altre Chiese latine occidentali, finché, verso l'anno 1000, non venne finalmente ritenuta corretta e accettata la versione stabilita dall'imperatore franco.[1]
Nel 799 scoppiò a Roma un'insurrezione contro papa Leone III, capeggiata dai nipoti e sostenitori del defunto pontefice Adriano I. Il primicerio Pasquale e il sacellario Campolo, che già ne avevano contestato l'elezione e lo accusavano di essere assolutamente inadatto alla tiara pontificia, in quanto "uomo dissoluto", in un attentato riuscirono a catturare Leone e rinchiuderlo in un monastero, da dove fuggì rocambolescamente per rifugiarsi in San Pietro, da dove fu poi trasferito al sicuro presso il duca di Spoleto. Da qui, non si sa se di sua iniziativa o su invito di Carlo, si fece condurre presso il re, che si trovava a Paderborn, sua residenza estiva in Vestfalia.[1] L'accoglienza solenne tributata al papa era già un segnale della posizione che Carlo intendeva assumere nella questione romana, sebbene i due principali congiurati, Pascale e Campolo, fossero stati uomini molto vicini al compianto papa Adriano I.
Gli oppositori del pontefice, intanto, gli ingiunsero di prestare un giuramento con il quale respingeva le accuse di lussuria e spergiuro; in caso contrario avrebbe dovuto lasciare il seggio pontificale e rinchiudersi in monastero. Il papa non aveva nessuna intenzione di accettare alcuna delle due ipotesi, e per il momento la questione rimase in sospeso, anche perché Carlo provvide ad inviare a Roma una commissione d'inchiesta composta da personaggi di rilievo e alti prelati. In ogni caso, quando, il 29 novembre 799, Leone rientrò a Roma, fu accolto trionfalmente dal clero e dalla popolazione.[2]
L'attentato subito dal pontefice, che era comunque segno di un clima di inquietudine a Roma, non poteva però essere lasciato impunito, e nella riunione annuale tenuta nell'agosto dell'800 a Magonza con i grandi del regno Carlo comunicò la sua intenzione di scendere in Italia. E poiché oltre al problema romano doveva ricondurre all'ordine anche un tentativo autonomista del ducato di Benevento, scese in armi, accompagnato dal figlio Pipino, che si occupò del ducato ribelle, mentre Carlo puntava a Roma[2]
Il re franco entrò in città il 24 novembre dell'800, accolto con uno sfarzoso cerimoniale e con grandi onori dalle autorità e dal popolo.[2] Ufficialmente la sua venuta a Roma aveva lo scopo di dipanare la questione tra papa Leone e gli eredi di papa Adriano I. Le accuse (e le prove che ci si affrettò a distruggere) si rivelarono presto difficili da confutare, e Carlo si trovò in estremo imbarazzo, ma non poteva certo lasciare che si diffamasse e si mettesse in discussione il capo della cristianità.
Il 1º dicembre il re franco, invocando il suo ruolo di protettore della Chiesa di Roma, costituita un'assemblea composta da nobili e vescovi d'Italia e delle Gallie (una via di mezzo tra un tribunale e un concilio) aprì i lavori dell'assemblea che doveva pronunciarsi sulle accuse rivolte contro il papa. Basandosi su principi (erroneamente) attribuiti a papa Simmaco (inizio del VI secolo) il concilio sentenziò che il papa era la massima autorità in materia di morale cristiana, così come di fede, e che nessuno poteva giudicarlo se non Dio. Leone si dichiarò disposto a giurare la propria innocenza sul Vangelo, soluzione a cui l'assemblea, ben conoscendo la posizione di Carlo che si era schierato da tempo dalla parte del pontefice, si guardò bene dall'opporsi. Gli “Annali” di Lorsch riferiscono che dunque il papa fu “pregato” dal re di prestare il giuramento a cui si era impegnato. Occorsero tre settimane per mettere a punto il testo del giuramento, che il 23 dicembre Leone prestò solennemente nella basilica di San Pietro, di fronte all'assemblea di nobili e alti prelati, venendo dunque confermato legittimo rappresentante del soglio pontificio.[2][1] Pascale e Campolo, già preventivamente arrestati dai messi di Carlo un anno prima, non erano stati in grado di provare le accuse mosse al papa, e vennero condannati a morte, insieme a numerosi loro seguaci (pena in seguito commutata nell'esilio).
Imperatore d'Occidente (800-814)
Nel 797 il trono dell'Impero bizantino, di fatto unico e legittimo discendente dell'Impero romano, venne usurpato da Irene d'Atene, che si proclamò basilissa dei Romei (imperatrice dei Romani). Essa è paragonata nella Cronaca di Moissac (801) all'usurpatrice Atalia, personaggio biblico presente in 2Re 11. Il fatto che il trono "romano" fosse occupato da una donna spinse il papa a considerare il trono "romano" vacante. Nel corso della messa di Natale del 25 dicembre 800, nella basilica di San Pietro, Carlo Magno fu da papa Leone III incoronato imperatore, titolo mai più usato in Occidente dopo la destituzione di Romolo Augusto nel 476, Odoacre, il generale romano che depose l'ultimo Imperatore d'Occidente, restituì a Costantinopoli le insegne imperiali di cui si era impossessato, governando l'Italia con il titolo bizantino di "Praefectus Italiae".
Durante la cerimonia, papa Leone III unse il capo a Carlo, richiamando la tradizione dei re biblici. La nascita di un nuovo Impero d'Occidente non fu ben accolta dall'Impero d'Oriente che tuttavia non aveva i mezzi per intervenire. L'imperatrice Irene dovette assistere impotente a ciò che stava avvenendo a Roma; ella si rifiutò sempre di accettare il titolo di imperatore a Carlo Magno, considerando l'incoronazione di Carlo Magno ad opera del papa un atto di usurpazione di potere.
La “Vita Karoli” di Eginardo afferma che Carlo fu assai scontento dell'incoronazione e non intendeva assumere il titolo di Imperatore dei Romani per non entrare in contrasto con l'Impero bizantino, il cui sovrano deteneva il legittimo titolo di Imperatore dei Romani e dunque per nessun motivo i Bizantini avrebbero riconosciuto ad un sovrano franco il titolo di Imperatore. Inizialmente le cronache coeve concordavano sul fatto che Carlo fosse tutt'altro che sorpreso e contrario alla cerimonia. Sia gli “Annales regni Francorum”, sia il Liber Pontificalis riportano la cerimonia, parlando apertamente di festa, massimo consenso popolare ed evidente cordialità fra Carlo e Leone III, con ricchi doni portati dal sovrano franco alla Chiesa romana.
Solo più tardi, verso l'811, nel tentativo di attenuare l'irritazione bizantina per il titolo imperiale concesso introdussero quell'elemento di "rivisitazione del passato" che fece parlare della sorpresa e dell'irritazione di Carlo per una cerimonia d'incoronazione cui egli non aveva dato alcun'autorizzazione preventiva al papa che a ciò l'aveva indirettamente forzato. L'acclamazione popolare (elemento non presente su tutte le fonti e forse spurio) sottolineò comunque l'antico diritto formale del popolo romano di eleggere l'imperatore. La cosa irritò non poco la nobiltà franca, che vide il "popolus Romanus" prevaricare le proprie prerogative, acclamando Carlo come "Carlo Augusto, grande e pacifico Imperatore dei Romani". Non è poi da escludere che la riferita irritazione di Carlo fosse dovuta al fatto che avrebbe preferito auto-incoronarsi, perché l'incoronazione da parte del papa rappresentava simbolicamente la subordinazione del potere imperiale a quello spirituale.
In ogni caso, dalle fonti non si ricava alcun tipo di accordo preventivo tra il papa ed il re franco, e d'altra parte è però impossibile che Carlo fosse stato colto alla sprovvista da un'iniziativa papale di tal genere e che il cerimoniale e le acclamazioni del popolo romano fossero state improvvisate sul momento. Appare dunque decisamente improbabile e fantasiosa la versione fornita dal “Liber Pontificalis”, secondo la quale il papa avrebbe improvvisato la sua iniziativa, il popolo sarebbe stato ispirato da Dio nell'acclamazione unanime e corale, e Carlo sarebbe rimasto sorpreso di quanto accadeva. E non è molto credibile neanche la versione fornita, in sostanziale accordo con quella del “Liber Pontificalis”, da Eginardo, che riferisce del re contrariato dall'improvviso gesto del pontefice.
Tuttora non è chiara la paternità dell'iniziativa, i cui particolari potrebbero però verosimilmente essere stati definiti durante i colloqui riservati a Paderborn e forse anche dietro suggerimento di Alcuino: l'incoronazione poteva infatti essere il prezzo che il papa doveva pagare a Carlo per l'assoluzione dalle accuse che gli erano state rivolte. Secondo un'altra interpretazione (P. Brezzi), la paternità della proposta sarebbe da attribuire ad un'assemblea delle autorità romane, che fu comunque accolta (ma pare senza molto entusiasmo) sia da Carlo che dal papa; in tal caso il pontefice sarebbe stato l'esecutore della volontà del popolo romano di cui era il vescovo. Occorre però precisare in proposito che le uniche fonti storiche sui fatti di quei giorni sono di estrazione franca ed ecclesiastica, e per ovvi motivi tendono entrambe a limitare o falsare l'interferenza del popolo romano nell'avvenimento.
È certo tuttavia che con l'atto d'incoronazione la Chiesa di Roma si presentava come l'unica autorità capace di legittimare il potere civile attribuendogli una funzione sacrale, ma è altrettanto vero che, di conseguenza, la posizione dell'imperatore diventava di guida anche negli affari interni della Chiesa, con un rafforzamento del ruolo teocratico del suo governo. E comunque bisogna riconoscere che con quel solo gesto Leone, per il resto figura non particolarmente eccelsa, legò indissolubilmente i Franchi a Roma, spezzò il legame con l'impero bizantino che non era più l'unico erede dell'Impero romano, esaudì forse le aspirazioni del popolo romano e stabilì il precedente storico dell'assoluta supremazia del papa sui poteri terreni.
Morte
L'ultimo atto politico di Carlo fu l'incoronazione del figlio Ludovico il Pio come imperatore, nel settembre 813. Sebbene da varî anni sofferente di podagra, zoppicante e costretto ad usare il bastone, si recò ancora come era solito da molti anni, alla caccia. Ritornò ad Aquisgrana nel novembre: depresso, si dedicò alla preghiera, alla lettura dei libri sacri. Ma nel gennaio successivo fu colto da grande febbre, e dopo sette giorni di malattia morì il 28 gennaio 814. Fu sepolto nella sua cappella palatina di Aquisgrana. La sua tomba fu aperta da Ottone III (1000) e poi da Federico Barbarossa (1165) e da Federico II (1215).
Canonizzazione
L'8 gennaio 1166, Carlo Magno venne canonizzato ad Aquisgrana dall'antipapa Pasquale III su ordine dell'imperatore Federico Barbarossa. Questa canonizzazione non fu bene accolta negli ambienti più vicini alla chiesa, a causa degli aspetti della vita privata di Carlo in contrasto con la dottrina cristiana. Il Concilio Lateranense III, nel marzo 1179, dichiarò nulli tutti gli atti compiuti dall'antipapa Pasquale III, compresa la canonizzazione di Carlo Magno. Nonostante ciò, papa Gregorio IX la riconfermò. Il culto si tiene nella sola diocesi di Aquisgrana e ne viene tollerata la celebrazione nei Grigioni.
Successione degli incarichi
Predecessore: | Re dei Franchi | Successore: | ![]() |
---|---|---|---|
Pipino il Breve | 768 – 814 Coreggenza di Carlomanno fino al 771 Coreggenza di Carlo il Giovane dall'800 all'811 |
Ludovico il Pio |
Predecessore: | Re dei Longobardi | Successore: | ![]() |
---|---|---|---|
Desiderio | 774 - 814 Coreggenza di Pipino Carlomanno dal 781 all'810 Coreggenza di Bernardo di Vermandois dall'810 |
Ludovico il Pio |
Predecessore: | Imperatore dei Romani | Successore: | ![]() |
---|---|---|---|
– Titolo istituito da papa Leone III |
800 - 814 | Ludovico il Pio che lui incorona nell'813 |
Predecessore: | Re dei Franchi d'Aquitania | Successore: | ![]() |
---|---|---|---|
Hunaldo II | 768 - 781 Coreggenza di Carlomanno I fino al 771 |
Ludovico il Pio |
Predecessore: | Capitano generale della Chiesa | Successore: | ![]() |
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- | 798 - 816 | Guglielmo Durante |
Note | |
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Bibliografia | |
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Voci correlate | |
Collegamenti esterni | |
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