Qoèlet
Qoèlet | |
Nicolas Régnier, Allegoria della Vanità - Pandora (1626 ca.), olio su tela; collezione privata | |
Sigla biblica | Qo |
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Titolo originale | דִּבְרֵי֙ קֹהֶ֣לֶת (Dibrê qohelet, "Parole di Qoelet"){{{titolo originale}}} |
Altri titoli | Ecclesiaste |
Lingua originale | ebraico |
Autore | Anonimo |
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Il Qoelet (anche Qoèlet, Qohelet, Qoheleth, Kohelet, Koheles) o Ecclesiaste è un libro dell'Antico Testamento scritto in ebraico. Il nome del libro è sovente abbreviato in Qo, o anche in Eccle.
Occupa il ventunesimo posto nella lista dei trentanove libri del canone ebraico, e il ventitreesimo in quella del Concilio di Trento, dove è preceduto da Proverbi e seguito da Cantico dei Cantici, Sapienza ed Ecclesiastico/Siracide.
Fa parte del gruppo dei libri dell'Antico Testamento detti "Scritti" o Agiografi"[1], che comprende dodici libri sapienziali.
Il titolo completo dell'opera è דִּבְרֵי֙ קֹהֶ֣לֶת, Dibrê qohelet, "Parole di Qoelet" (cfr. Qo 1,1 ).
Autore e datazione
L'autore si presenta all'interno del libro con uno pseudonimo, Qohelet, un titolo che indica una funzione ufficiale da collegare alla radice ebraica qhl, che rimanda all'assemblea, all'ecclesìa, come tradurranno il latino e il greco. Questo titolo risuona nel libro sette volte (1,1; 1,2; 1,12; 7,27; 12,8; 12,9; 12,10) e indica un uomo, infatti, tranne il caso di (7,27), che si può spiegare come un errore del testo masoretico, i verbi a esso connessi sono tutti al maschile. L'autore si presenta come il presidente di assemblea, non certamente liturgica, ma più probabilmente un'assemblea sapienziale generica, a cui può partecipare un orizzonte vasto di discepoli che si assottiglia sempre più man mano che le sue parole, pur agendo in modo pacato, demoliscono i luoghi comuni e assumono toni inquietanti.
Girolamo nella Vulgata tradurrà Ecclesiaste, proprio per sottolineare questo collegamento con l'assemblea, mentre Lutero userà il termine Predicatore, anche se il discorso che ci riportano le pagine del libro ha poco di ecclesiastico, essendo portatore più di ansia e sconcerto che di serenità e pace. Il sapiente del libro, in conformità alla prassi che caratterizza tutta la letteratura sapienziale, si identifica con Salomone (1,12), l'archetipo di tutti i sapienti di Israele, vissuto molti secoli prima di lui, e si nasconde anche dietro l'elogio convenzionale che il redattore ha voluto porre a conclusione del libro (12,9-14). Tale brano presenta il messaggio di Qohelet in modo semplificato e riveduto, con toni quasi apologetici, conservando solo qualche lineamento del libro vero e proprio, come la sua malinconia, la sua ansia, il rifiuto delle facili soluzioni sapienziali. Questo redattore ha lasciato alcune tracce anche all'interno del libro, che in qualche brano presenta delle tensioni perché due voci sembrano confrontarsi quasi in contraddittorio, anche se le incoerenze e le contraddizioni interne sono da spiegarsi più come un fatto inseparabile dalla natura stessa dell'opera e dallo stile del suo autore che come messaggi antitetici non armonizzati tra loro. Il volto dell'autore rimane dunque segreto, anche se il sapiente che sta all'origine dell'opera è il più autobiografico di tutti i saggi di Israele, perché per ben 85 volte introduce le sue riflessioni sapienziali col pronome io, ponendolo come un segno della sua coscienza e della sua libertà di espressione.
Anche per quanto riguarda la datazione si possono fare solo delle ipotesi. Alcune risonanze aramaizzanti del testo, la presenza di uno sfondo giudaico e il sicuro terminus ad quem dei frammenti della quarta grotta di Qumran (150-100 a.C.) invitano a collocare l'opera tra il 250 e il 200 a.C..
Il testo e la lingua
Il testo, in ebraico, è composto in tutto da 4.255 parole derivate da 572 voci fondamentali, che rappresentano il 6,78% dei lemmi dell'Antico Testamento. È suddiviso in dodici capitoli e in un totale di 222 versetti.
Sulla lingua del libro e quindi sui dati cronologici che da essa emergono si è accesa una disputa importante. Da una parte sta lo studioso Mitchell Dahood, già professore al Pontificio Istituto Biblico di Roma, che a più riprese è intervenuto con articoli nei quali sostiene di aver rintracciato in Qohelet resti di un dialetto nord palestinese imparentato col fenicio antico, così da retrodatare l'opera e da collocarla nel settentrione della terra di Israele se non addirittura nella stessa Fenicia. Questa tesi fu seguita da altri studiosi esperti di ugaritico, lingua cananea identificata a Ugarit, una città della Siria, attraverso il ritrovamento di molti documenti. La maggior parte degli studiosi rileva invece nel libro la presenza di molti aramaismi. Questa lingua iniziò a diffondersi in Israele dopo il ritorno dall'esilio a Babilonia (VI secolo a.C.) fino a soppiantare in gran parte l'ebraico. Senza ricorrere all'ipotesi di un originale aramaico, che sarebbe tutta da dimostrare, Qohelet presenta un ebraico ibridato da molti termini aramaici, che segnerebbe il passaggio dall'ebraico biblico a quello della Mishna.
Proprietà letterarie
Alcune parole ebraiche (mai aramaiche) del testo sono specifiche di Qohelet, in quanto non ricorrono in alcun altro testo biblico. Non raggiungono la trentina con meno di 70 occorrenze in 53 versetti (1,1-3.12-13.15.17; 2,3.8.11-13.21-23.26; 3,9-10; 4,4.8.16; 5,2.8.10.13.15; 7,12-13.25.27; 8,1.4.8.16; 9,3.11; 10,1.8.10-11.13.18; 11,9-10; 12,1.3-5.8-10). Lo stesso nome, Qoelet, è una proprietà letteraria di quest'opera mai comparendo altrove nel resto della Bibbia ebraica.
Un sostantivo, yithron, "profitto" o "guadagno", ricorre solo in Qoelet, esattamente in 1,3; 2,11.13; 3,9; 5,8.15; 7,12; 10,10-11; la prima volta fa parte di una domanda retorica: "quale yithron" deriva all'uomo per il suo affannarsi? La risposta è: nessuno. Lavorare troppo non produce vantaggi. L'ultima volta, lo stesso termine funge da costatazione critica: Se il serpente morde prima d'essere incantato, l'incantatore non ne trae alcun vantaggio.
Ripetuto 8 volte è un altro sostantivo che si trova solo in Qoelet: 'inyan, "occupazione" o "compito" (in 1,13; 2,23.26; 3,10; 4,8; 5,2.13; 8,16). La prima volta si riferisce allo studio, cioè alla ricerca della conoscenza come una "occupazione" gravosa, che però viene da Dio. L'ultima occorrenza di 'inyan fa parte di un'annotazione autobiografica: quando Qoelet si dedicò alla sapienza scrutando "i mestieri sulla terra", si rese conto di non potere scoprire davvero nulla, o quasi, dell'opera di Dio.
La terza parola propria e più frequente è sikluth, "follia" che ricorre 7 volte (in 1,17; 2,3; 2,12-13; 7,25; 10,1; 10,13). La prima volta è usata assieme ad un sinonimo, anch'esso esclusivo di Qoelet, holelah, "pazzia" (che è presente solo in 1,17; 2,12; 7,25; 9,3): l'autore ha deciso di conoscere sapienza e scienza, ma anche "pazzia e follia" (cf. anche 2,12).
Altri termini coniati, o comunque usati soprattutto in Qoelet, sono indicatori di una mentalità particolare, ma anche riferimenti precisi all'ambiente sociale e culturale in cui è nata l'opera. Delineano metodo e contenuto dell'opera e quindi del pensiero più originale di Qoelet: - chephets, "piacere, gradimento" (3,1.17; 5,3.7; 8,6; 12,1.10); - miqreh, "caso fortuito", "accidente", o "incontro inaspettato" (2,14-15; 3,19; 9,2-3); - yother, "resti, avanzi" ma anche "superiorità, vantaggio, eccesso" (2,15; 6,8.11; 7,11.16; 12,9.12); - re‘wtt, "aspirazione, forte desiderio" (1,14; 2,11.17.26; 4,4.6; 6,9); - ka'as, "vessazione, rabbia, ira" (1,18; 2,23; 7,3.9; 11,10); - misken, per indicare il "povero" (4,13; 9,15-16); - shalat, "guadagnare potere" e quindi "governare, dominare" sugli altri (2,19; 5,18; 6,2; 8,9); - kishron, "successo, abilità, profitto" (2,21; 4,4; 5,10); - ra‘yon, "aspirazione, sforzo" (1,17; 2,22; 4,16); - taqan, "essere retto" o "raddrizzare" (1,15; 7,13; 12,9); - shilton, "autorevole", "chi ha il potere" (8,4.8); - ‘aden, "finora", "ancora", "eppure" (4,2-3); - shiddah, "amante donna, signora" (2,8: "Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini"; questo testo potrebbe riferirsi al Salomone storico); - behwurot, "gioventù, giovinezza" (11,9; 12,1); - chesron, "quel che manca, deficienza" (1,15).
Queste parole indicano l'originalità di Qoelet e la sua modernità rispetto a testi precedenti, ma anche i limiti concettuali dell'opera.
Lo stile letterario
Il testo fa ricorso frequentemente alla cosiddetta "narrazione – io", cioè l'uso ripetuto e costante della prima persona singolare: il pronome "io" ricorre tantissime volte nel libro, uso che non è tipico della Bibbia ebraica. Il protagonista non parla quindi a nome di Dio o di una tradizione più antica ricevuta, ma in nome della propria esperienza personale. Altra caratteristica dello stile è il ricorso alla tecnica della ripetizione, la ripresa cioè di espressioni già utilizzate e l'uso di veri e propri ritornelli. Il Qohelet usa molto spesso l'ironia, molto frequente nella filosofia di epoca ellenistica. Può assumere un atteggiamento ironico nei confronti della società del suo tempo o della ricerca affannosa della ricchezza, (5,7-8; 10,5-7), può essere una ironia di carattere linguistico, cioè Qohelet cita enunciati della sapienza tradizionale rovesciandone il significato, come quando usa un poema sapienziale sui "tempi opportuni"((3,2-8), usandolo però al contrario. Qohelet si distingue anche per un uso frequente della tecnica della negazione, con la quale si pone in rapporto critico con la sapienza tradizionale di Israele, oppure mette in evidenza l'incapacità delle azioni umane, che non riescono a cambiare la realtà delle cose perché si scontrano con limiti invalicabili. Infine l'autore fa frequente uso dell'interrogazione: la maggior parte delle domande del libro si concentrano nei capitoli (2-3; 7-8) e si possono riassumere in due questioni centrali: " Qual è il profitto?", "Chi può conoscere?".
Le fonti del libro
Secondo alcuni autori, in Qohelet sarebbe evidente l'influsso della sapienza orientale babilonese. In particolare, sono stati studiati i contatti che il libro sembrerebbe avere con il famoso poema di Gilgamesh, col quale ha in comune i temi della vita intesa come soffio e di una visione almeno apparentemente pessimista dell'esistenza. Più interessante sembra però il confronto con il mondo ellenistico, intendendo con "ellenismo" quell'universo storico culturale che si estende dalla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) fino agli inizi dell'Impero Romano. Va detto che non c'è un accordo comune tra gli studiosi per ciò che riguarda questo tema, e la posizione più equilibrata sostiene che Qohelet sia un saggio ebreo influenzato dallo spirito ellenistico, senza che sia possibile precisare i dettagli di tale rapporto. In Qohelet si trova certamente il tentativo di rispondere da ebreo alla domanda tipicamente greca sulla vita dell'uomo all'interno di un universo ormai troppo vasto: "Che cosa è bene per l'uomo?" (6,12). Di sapore greco è anche la domanda sull'origine della sapienza, una visione disincantata e spesso scettica della realtà, il problema del rapporto tra felicità e piacere materiale. Certamente il Qohelet rimane saldamente ancorato alla visione biblica anche nel momento in cui la critica: per questo lo si può definire una risposta ebraica a domande greche.
Struttura e genere letterario
Una questione importante da affrontare in una introduzione al libro del Qohelet riguarda il piano generale del libro, cioè la sua struttura. Molti studiosi affermano che nel libro si possono leggere i segni di mani e prospettive diverse. Alcuni di questi sostengono che l'opera sia una antologia di brani e proverbi: vi si troverebbero sia raccolte minori come (1,4-11; 1,12-2,11; 2,12-27), sia collezioni maggiori come (4,17-5,11; 7; 9,17-10,20). E' la cosiddetta ipotesi plurifontista, inaugurata da Siegried nel 1898, che pensava a nove autori, e perfezionata in epoca più recente da Podechard, che vedeva nel Qohelet quattro autori diversi: l'autore principale, il discepolo che compone l'epilogo (12,9-14), il pio, che corregge le parti teologicamente più discutibili, il saggio al quale vanno attribuite le parti più scandalose.
Altri invece hanno la convinzione che l'opera sia un'unità compatta nella quale, attraverso i procedimenti di analisi letteraria, si possono ritrovare le tracce di più autori e più strati. In questo secondo caso le ipotesi sono molto diverse tra di loro e si moltiplicano, in pratica tante quanti sono i commenti al libro. Ritenendo che le contraddizioni che si trovano disseminate nello scritto e che l'autore accosta senza alcun imbarazzo non siano frutto di un mancato lavoro di rifinitura, ma appartengano alla natura stessa dell'opera, si può appoggiare la tesi dell'unità profonda del libro e ricercare la sua struttura attraverso l'analisi dei criteri stilistici, del progresso logico del ragionamento, della sequenza dei temi trattati. Tale procedimento deve tenere conto, da una parte, che l'autore non ha deciso i temi a tavolino né ne ha già prefissato lo sviluppo, perché non è possibile pianificare e organizzare l'esistenza (1,13-14.18); dall'altra, si possono individuare delle delimitazioni di temi e di unità letterarie che a volte presentano contorni ben ritagliati, a volte invece più fluidi e incerti. C'è quindi nel libro un progetto, ma nello stesso tempo la coscienza che esso è provvisorio ed effimero.
Di grande interesse, riguardo alla struttura, appare il lavoro di Vittoria d'Alario,[2] che combina l'analisi della struttura letteraria con il metodo proprio dell'analisi retorica. Le sue conclusioni sono, in sintesi, che Qohelet non deve essere considerato un insieme disordinato di sentenze, ma che esiste un piano ordinato dell'opera, suddivisibile in due parti fondamentali (1,3-6,9; 7,1-11,6), che hanno al centro l'importante testo di (6,10-12). In queste parti l'autore ritorna spesso sugli stessi temi affrontandoli però da prospettive diverse, mentre l'analisi delle singoli pericope rivela molto spesso la difficoltà di tracciare divisioni nette all'interno del testo.
Anche per quanto riguarda il genere letterario non c'è consenso tra gli autori. Alcuni, come von Rad, hanno identificato nel Qohelet il genere del "testamento regale", tipico della letteratura del Vicino Oriente Antico, ma ciò si può applicare solo alla prima parte del libro, almeno fino a (3,15), dove il Qohelet rivela la paternità del re Salomone. Altri, invece, con maggiore successo, hanno identificato il genere letterario della diatriba (Levy, Ausejo): secondo loro il carattere dialogico dell'opera dipenderebbe da rapporti con la diatriba cinico – stoica, a contenuto prevalentemente etico, che si occupa del comportamento dell'uomo nella sua vita quotidiana.
Teologia
Di fronte al testo del Qohelet, molte opinioni radicalmente diverse sono spesso accomunate da un stesso denominatore: il Qohelet avrebbe una visione del mondo sostanzialmente pessimistica e darebbe uno sguardo molto limitato sul possibile rapporto che l'uomo può avere con la realtà di Dio[3].
Una visione negativa non sembra comunque giustificata; di fronte alla scoperta della realtà sotto il sole come "soffio", della fugacità e dell'assurdità delle cose e dell'attività umana, resta all'uomo la possibilità di un rapporto con Dio, nell'ottica del "temere Dio", e resta la capacità di godere anche se in modo limitato e transitorio, ma non meno autentico, della vita di ogni giorno. Queste tre realtà, l'hebel, ossia il soffio, la gioia e la figura di Dio possono costituire la chiave per comprendere il libro del Qohelet nella sua teologia.
"Tutto è soffio": la centralità del tema dell'hebel
Il termine hebel ricorre in 38 passi all'interno del libro[4] . Lo sfondo principale da cui l'autore trae questa tematica della vita come "soffio" è dato dalla riflessione dei salmisti sulla brevità e transitorietà della vita[5] . Se nei Salmi la coscienza della transitorietà della vita è legata al tema del peccato dell'uomo, nel libro del Qohelet l'uso del termine hebel è radicalizzato: tutto, sotto il sole, è un soffio, non solo il breve spazio della vita umana. Insieme alla tradizione salmica, anche le tradizioni genesiache, soprattutto (1-4), sono ben presenti all'autore. In questa luce, la figura di Abele (il cui nome è appunto hebel, "soffio") ha qualcosa da dire. Ogni cosa è come Abele, un soffio per ogni uomo che vive come Caino e vuole eliminare Abele. Ma davanti a Dio Abele, il soffio, l'uomo che muore tragicamente, è preferito a Caino. L'uso del termine hebel potrebbe essere quindi anche ironico; tale termine non ha solo una funzione distruttiva, ma anche costruttiva: chi vive come Caino, rende la vita dell'altro come quella di Abele, un soffio che se ne va; ma è questo soffio che Dio sceglie e difende, come fece un tempo con Abele.
Quale l'uso che viene fatto di tale termine? Esso non è mai usato a proposito di Dio, quindi in un senso teologico, e neppure in relazione alla conoscenza; esso si trova sempre in relazione a realtà antropologiche, a tutto ciò che l'uomo compie sotto il sole. Quale il senso di questa continua ripetizione della tematica del "soffio"? L'autore non vuole offrire un giudizio di carattere morale (sulla "vanità" del tutto) e neppure di carattere ontologico (sulla "essenza" della realtà come vuoto, inconsistenza, assurdità). Attraverso l'uso di questo termine egli vuole indicarci come la realtà appare all'uomo; la realtà è un soffio perché tale appare alla luce dell'esperienza. La vita dell'uomo è soffio, effimera (6,12; 7,15; 9,9; 11,8.10); effimeri sono i frutti del suo lavoro e della sua fatica 1,14; 2,11.17.19.21.23.26; 4,4.7.8.16); effimera è la gioia che deriva dalla ricerca del profitto (2,1); fugace è il profitto stesso, vanamente cercato dall'uomo 5,9; 6,2). La realtà non è solo soffio; appare anche brutta, come non dovrebbe essere se è vero che Dio ha fatto bella ogni cosa, adatta al suo momento 3,11). Inoltre, l'ingiustizia che domina il mondo (5,7-8; 10,5-7) e la morte rivelano la fugacità del vivere e la fine di ogni illusione umana.
Quindi l'intero arco della vita umana su questa terra e dell'attività dell'uomo appare transitorio e inconsistente. Con tutto ciò il Qohelet non dice che la realtà sia davvero in se stessa realmente e totalmente transitoria, inconsistente, priva di significato, anche se in questa ottica essa appare all'uomo "sotto il sole". Dire che "tutto è soffio" non esaurisce il tema del libro. Di fronte al ritornello "il tutto è soffio" il Qohelet sottolinea la presenza della gioia. Inoltre, temere Dio non è un soffio, ma l'unica possibilità che resti all'uomo per orientarsi nella vita apparentemente fugace.
Il tema della gioia
Il riferimento alla gioia ritorna sette volte all'interno del libro. Spesso si è ritenuto che per il Qohelet la "gioia" sia una sorta di anestetico dato all'uomo da un Dio incomprensibile perché l'uomo si dimentichi di tutto il male per vivere. Questo riferimento alla gioia è stato perciò spesso sottaciuto, a volte negato, a volte limitato; recentemente tale tematica è stata rivalutata, soprattutto da autori come N. Lohfink, N. Whybray, J. Pahk, e in Italia soprattutto da A. Bonora e L. Mazzinghi, da R. Lavatori e L. Sole[6] .
Il tema della gioia ricorre con grande chiarezza in sette testi: (2,24-26; 3,12-13; 3,22; 5,17-19; 8,15; 9,7-10; 11,7-10). Si propongono alcune considerazioni introduttive.
- In questi passi ricorrono frequentemente alcune espressioni:
- "mangiare e bere": si tratta della coppia più evidente, presente in cinque brani; essi indicano una gioia molto concreta;
- "vedere il bene": tale espressione è usata tre volte (2,24; 3,13; 5,17) e va intesa nel senso di "godersi il bene", gustare il piacere;
- "parte / porzione": tale termine si usa spesso nei testi deuteronomistici per indicare la terra di Israele, parte assegnata al popolo da Dio, oppure il Signore stesso, "porzione" del suo popolo. Con tale termine si segnala a volte che la gioia è la "parte" che spetta all'uomo in questa vita per il suo lavoro;
- "dare": questo verbo (natan) ricorre più volte in connessione con la gioia ed ha come soggetto Dio; la gioia di cui parla il Qohelet ha senso se posta in relazione a Dio, che la concede all'uomo.
- Dall'analisi dei passi sulla gioia si possono ricavare altre osservazioni:
- la gioia sembra avere nel Qohelet una doppia origine: è frutto del lavoro faticoso dell'uomo, ma è allo stesso tempo dono di Dio;
- l'invito a gioire non ha nulla di edonistico, ma manifesta una condotta essenzialmente religiosa;
- la gioia non riguarda un qualche momento della vita, ma tutta la vita umana, nella sua totalità.
In conclusione si propongono alcune riflessioni sintetiche sul tema della gioia, che riprendono i vari dati emersi.
- Il tema della gioia appare collegato a quello del lavoro faticoso; per il Qohelet la gioia non è una realtà astratta, ma concreta; si trova solo all'interno dell'intero arco dell'attività quotidiana e faticosa dell'uomo. Non è allora un divertissement che distoglie l'uomo dal duro lavoro, ma ha un nesso con il lavoro stesso. Però, essa non è un valore assoluto; è relativa, come tale è il lavoro dell'uomo.
- Il tema della gioia va inserito all'interno della prospettiva globale del libro, al cui centro sta l'affermazione che tutto è soffio. La gioia appare così legata alla transitorietà della vita; la prospettiva della morte non annulla, ma intensifica la ricerca della gioia da parte dell'uomo. Il rapporto tra hebel e gioia è dialettico: l'hebel relativizza la gioia, ma la gioia offre un senso positivo in un mondo in cui tutto appare soffio.
- La gioia appare legata all'azione di Dio e si rivela essere suo dono; solo Dio è in grado di offrire all'uomo la gioia (2,25). L'uomo non può pretendere di ricevere la gioia, né può procurarsela da solo, ma può riceverla in dono da Dio; un dono che, con molto realismo, l'uomo è invitato a cogliere. In questo modo il Qohelet risponde alla domanda propria della filosofia ellenistica circa la felicità e il suo fondamento. Essa non è un puro cogliere l'attimo fuggente, né una conquista dell'uomo, un "profitto" da guadagnare; essa è la "parte" che l'uomo può ricevere soltanto da Dio. La ricerca della gioia da parte dell'uomo è solo un "inseguire il vento".
- Il Qohelet nega che la felicità possa nascere come risultato di un comportamento morale positivo; la gioia, come dono di Dio, non può essere legata ad alcun criterio di ricompensa. La gioia è certamente limitata e modesta, ma consiste nella scoperta di un senso del vivere che è poi lo scopo primario della ricerca esperienziale dei saggi di Israele; in questo senso il Qohelet non si stacca dalla tradizione sapienziale d'Israele.
In conclusione: la gioia è per il Qohelet un dono che Dio fa all'uomo permettendogli così di trovare una "parte" nella vita, un "bene" per il quale valga la pena continuare a vivere. La gioia è dono, non conquista, e questo è detto contro la mentalità greca; né va vista come conseguenza del proprio comportamento eticamente corretto, e ciò è detto in polemica con il mondo giudaico. Si tratta di un gioia umana e limitata, ma tuttavia autentica e reale, che dal Qohelet viene "approvata" come dice in (8,15). Approvata dall'uomo, ma anche da Dio stesso, la gioia diviene allora un imperativo (11,8-9); il libro del Qohelet diviene allora un sano antidoto contro ogni pretesa "fuga escatologica" e "tentazione spiritualista": "Su, mangia con gioia il tuo pane, bevi di buon animo il tuo vino, perché Dio ha già gradito le tue opere!" (9,7).
Dio e il "temere Dio"
Nel libro del Qohelet il nome di Dio ricorre quaranta volte, sempre con il termine ‘elohîm, a eccezione di 12,1 ("Creatore"), e mai con il tetragramma YHWH[7]. Undici volte Dio è soggetto del verbo "dare" (nātan): egli dà all'uomo la vita, lo "spirito vitale", il compito faticoso ma necessario di cercare un senso in questa vita fugace, infine la gioia. Dio è anche soggetto del verbo "fare"; anche qui il suo fare appare non comprensibile all'uomo. Infine risaltano nel libro i passi in cui si introduce l'idea del "temere Dio". Dio non appare invece mai legato al motivo del "soffio".
Nei commentari spesso si notano le "assenze" di Dio[8] . Ad eccezione di (12,1), il Dio del Qohelet non è mai un "tu", ma un "lui" di cui si parla, ma che tace. Di fronte a ciò, più autori interpretano il Dio del Qohelet in chiave negativa, sottolineando soprattutto una impossibilità di un rapporto personale con un tale Dio, ma al massimo un timoroso rispetto. Tali concezioni nascono soprattutto in ambito protestante da una lettura del Qohelet che parte da una precomprensione, quella della opposizione di ragione e fede. Il dilemma del Qohelet sarebbe di voler spiegare razionalmente il senso della vita e di non riuscirvi, senza però potersi rifugiare neppure nella pura fede. Così il Qohelet viene visto come un autore che scrive contro la religione del suo tempo, come un libro "antireligioso", se non addirittura l'opera di un ateo, come ha provocatoriamente sostenuto David Maria Turoldo[9] .
In realtà l'atteggiamento del Qohelet di fronte alla realtà di Dio è più positivo di quanto si sia pensato, così anche di fronte alle realtà più negative del male e della morte. Anzitutto bisogna osservare che, più di quanto non appaia, la prospettiva di Qohelet ha origine dal solco della tradizione di Israele[10]. Qohelet certamente radicalizza alcuni aspetti della fede di Israele. Ad esempio, egli accentua molto il senso della trascendenza divina (5,2; 6,10; 7,13-14).
Come dice il testo di (8,16-17), l'uomo vede tutta l'opera di Dio, ma non ne può trovare il senso. Il problema di fondo, in relazione a Dio, è di natura epistemologica; non è rappresentato da Dio, ma dall'impossibilità dell'uomo di comprendere pienamente Dio e il suo agire: "così tu non sai l'opera di Dio che fa tutto" (11,5). Ciò che è problematico non è Dio, ma il discorso su Dio. Così, sottolineando la libertà e l'incomprensibilità di Dio, Qohelet intende togliere all'uomo ogni illusione circa la possibilità di controllare la propria vita senza metter in conto l'agire di Dio. Dio ha dato agli uomini il compito di cercare, purché riconoscano i propri limiti e non pretendano di dare giudizi sulla realtà che superano le possibilità concesse da Dio. In questa ottica si comprendono le affermazioni relative al tempo (3,1-15), del quale solo Dio è padrone. Il Dio creatore della tradizione di Israele che agisce nel mondo e nella storia non cessa per il Qohelet di essere creatore e presente, ma si mostra insieme come un Dio misterioso e incomprensibile. Neppure la più grande sapienza può giungere a penetrarne il mistero.
Il saggio Qohelet riconosce che il mistero di Dio è il vero limite di ogni sapienza, ma non si ferma a questo. Quale atteggiamento occorre avere nei suoi confronti? L'unico atteggiamento "religioso" che il Qohelet suggerisce è quello di "temere Dio". Sono quattro i passi significati in cui il Qohelet parla di "temere Dio": (3,13-14; 5,6; 7,15-18; 8,12-13); ad essi va aggiunta la ricorrenza nell'epilogo (12,13).
Qoèlet e il Nuovo Testamento
Nel Nuovo Testamento non compare alcuna citazione esplicita di Qoelet, anche se qualche allusione al suo pensiero è forse rinvenibile qua e là; per esempio:
- di 7,2 in Mt 5,3-4 ;
- di 5,2 in Mt 6,7 ;
- di 6,2 in Lc 12,20 e in Mt 6,19-84 ;
- di 11,5 in Gv 3,8 ;
- di 9,10 in Gv 9,4 ;
- di 10,12 in Col 4,6 ;
- di 12,14 in 2Cor 5,10 ;
- di 5,1 in 1Tim 3,15 e in Gc 1,19 ;
- di 5,6 in 1Cor 11,10 .
Il testo di Mc 2,18-20 potrebbe richiamare, lontanamente 3,1-8 (cf. anche Mt 11,17 ). Il testo di Gc 21,19 potrebbe leggersi in parallelo a 7,9; Mt 6,7 in parallelo a 5,1; Lc 12,13-15 con 5,9-6,9 (cf. Mt 6,25-29 ); 1Tim 6,7 con 5,14.
All'interno di un'ottica di fede cristiana per la quale Qohelet e i Vangeli fanno parte della stessa rivelazione biblica, Qohelet assume un significato positivo perchè richiama ai problemi radicali della vita sollevati dall'esperienza quotidiana e a volte troppo facilmente risolti da un certo ottimismo cristiano. nello stesso tempo Qohelet invita il lettore a prendere sul serio la vita di tutti i giorni, invitandolo a cercare il senso dell'esistenza senza però mai riuscire a dare una risposta compiuta.
Curiosità
Il cantautore italiano Angelo Branduardi ha preso ispirazione dalle prime parole del Qoelet (Qo 1,2 ) per la sua canzone Vanità di Vanità, contenuta nell'album State buoni se potete del 1983, e colonna sonora dell'omonimo film.
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