Padre Nostro

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Guercino, Ritorno del figliol prodigo (1654 - 1655), olio su tela; San Diego (USA), Timken Museum of Art: la parabola del Padre misericordioso ci insegna come Dio ci è Padre

Il Padre Nostro (in latino Pater Noster) è la più conosciuta delle preghiere cristiane. È la preghiera unica e perfetta, perché di origine divina ed è la sintesi di tutto il Vangelo (CCC, 2765, 2774, 2775, 2776). È la preghiera cristiana fondamentale della Chiesa (CCC, 2759).

È chiamata "Padre Nostro" dalle parole iniziali della preghiera, oppure "Preghiera del Signore" (o "preghiera dominicale"). Secondo quanto riportato nel Vangelo secondo Luca 11,1 la preghiera fu insegnata da Gesù ai suoi apostoli quando, in occasione di un momento in cui egli si era ritirato in preghiera, gli apostoli stessi gli chiesero che insegnasse loro a pregare, così come Giovanni Battista aveva insegnato ai suoi discepoli.


Il testo nelle varie lingue
Originale Greco (testo di Matteo)
Πάτερ ἡμῶν ὁ ἐν τοῖς οὐρανοῖς,
ἁγιασθήτω τὸ ὄνομά σου,
ἐλθέτω ἡ βασιλεία σου,
γενηθήτω τὸ θέλημά σου,
ὡς ἐν οὐρανῷ καὶ ἐπὶ γῆς.
Τὸν ἄρτον ἡμῶν τὸν ἐπιούσιον δὸς ἡμῖν σήμερον
καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφειλήματα ἡμῶν,
ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφήκαμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν
καὶ μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν,
ἀλλὰ ῥῦσαι ἡμᾶς ἀπὸ τοῦ πονηροῦ.
[Ὅτι σοῦ ἐστιν ἡ βασιλεία καὶ ἡ δύναμις καὶ ἡ δόξα εἰς τοὺς αἰῶνας].
Traslitterazione
Pátĕr hēmôn hŏ ĕn toîs ouranoîs,
haghiasthétō tò ónŏmá sou,
ĕlthétō hē basilĕía sou,
ghĕnēthétō tò thélēmá sou,
hos ĕn ouranô kaì ĕpì ghês.
Tòn ártŏn hēmôn tòn ĕpioúsiŏn dòs hēmîn sémĕrŏn
kaì áphĕs hēmîn tà ŏpheilémata hēmôn,
hos kaì hēmeîs aphékamĕn toîs ŏpheilétais hēmôn
kaì mè eisĕnégkēs hēmâs eis peirasmón,
allà rhŷsai hēmâs apò toû pŏnēroû.
[Hóti soû ĕstin hē basilĕía kaì hē dýnamis kaì hē dóxa eis toùs aiônas].
Aramaico/Siriaco
ܐܰܒܽܘܢ ܕܒܰܫܡܰܝܳܐ
ܢܶܬܩܰܕܰܫ ܫܡܳܟ
ܬܺܐܬܶܐ ܡܰܠܟܽܘܬܳܟ
ܢܶܗܘܶܐ ܨܶܒܝܳܢܳܟ
ܐܰܝܟܰܢܳܐ ܕܒܰܫܡܰܝܳܐ ܐܳܦ ܒܐܰܪܥܳܐ
ܗܰܒ ܠܰܢ ܠܰܚܡܳܐ ܕܣܽܘܢܩܳܢܰܢ ܝܰܘܡܳܢܳܐ
ܘܰܫܒܽܘܩ ܠܰܢ ܚܰܘܒܰܝܢ ܘܰܚܬܳܗܰܝܢ
ܐܰܝܟܰܢܳܐ ܕܐܳܦ ܚܢܰܢ
ܫܒܰܩܢ ܠܚܰܝܳܒܰܝܢ
ܠܳܐ ܬܰܥܠܰܢ ܠܢܶܣܝܽܘܢܳܐ
ܐܶܠܳܐ ܦܰܨܳܐ ܠܰܢ ܡܶܢ ܒܺܝܫܳܐ
ܡܶܬܽܠ ܕܕܺܝܠܳܟܺ ܗܝ ܡܰܠܟܽܘܬܳܐ
ܚܰܝܠܳܐ ܘܬܶܫܒܽܘܚܬܳܐ
ܠܥܳܠܰܡ ܥܳܠܡܺܝܢ ܐܰܡܺܝܢ܀
Traduzione Latina (Vulgata)
Pater Noster qui es in caelis:
sanctificétur Nomen Tuum;
advéniat Regnum Tuum;
fiat volúntas Tua,
sicut in caelo, et in terra.
Panem nostrum
cotidiánum da nobis hódie;
et dimítte nobis débita nostra,
sicut et nos
dimittimus debitóribus nostris;
et ne nos indúcas in tentatiónem;
sed líbera nos a Malo.
Amen.
Traduzione Italiana (Bibbia CEI 2008)
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano,
e rimetti a noi i nostri debiti
come noi li rimettiamo ai nostri debitori[1],
e non indurci in tentazione[1],
ma liberaci dal male.

Nella Bibbia

Il racconto evangelico

Nei due vangeli, è Gesù che insegna il Padre Nostro ai suoi discepoli per insegnar loro il modo corretto di pregare. Si deve ricordare che la religiosità ebraica del tempo era molto rigida ed aveva riti ed orazioni molto precisi. La relazione con Dio, che secondo le loro credenze reggeva tutto ciò che esiste, era qualcosa di molto delicato, e per questo chiesero a Gesù di indicar loro il modo corretto di rivolgersi a Lui.

Con la preghiera che insegnò loro, Gesù cercò di rompere con l'attitudine che tendeva ad allontanare l'uomo da Dio, e trovò nella semplicità lo strumento che facilitasse il dialogo con quell’Assoluto che Gesù chiamò ed insegnò a chiamare Padre.

Le due versioni del Padre Nostro

Nei vangeli sinottici la preghiera del Padre Nostro è presente in due forme leggermente diverse:

Matteo

La versione di Matteo (Mt 6,9-13) è di tenore più ebraico. La preghiera appare nel contesto del Discorso della Montagna: Gesù aveva già iniziato la sua vita pubblica e, per il fatto di essere un predicatore già conosciuto, raccolse molta gente disposta a ricevere i suoi insegnamenti. Decise dunque di salire su un monte perché tutti potessero sentirlo, e da qui pronunciò un discorso che riunisce molti dei passaggi salienti di tutta la sua predicazione: le Beatitudini (Mt 5,1-12), la comparazione dei discepoli con la luce del mondo (Mt 5,14-16), le sue posizioni sulla Legge di Mosè (Mt 5,17-20) ed i suoi commenti ai comandamenti (Mt 5,21-37).

Il contesto in cui Gesù espose il Padre Nostro è in risposta a coloro – sia giudei sia gentili – che hanno convertito la preghiera, come anche la carità, in un atto meramente esteriore. La preghiera del Signore è preceduta da una breve catechesi sulla preghiera, che vuole metterci in guardia soprattutto contro le forme errate del pregare (6,5-8).

La preghiera non deve essere un'esibizione davanti agli uomini. Essa esige quella discrezione che è essenziale in una relazione di amore. Dio si rivolge a ogni singolo, chiamandolo col suo nome che nessun altro conosce (Ap 2,17 ). L'altra forma errata di preghiera, da cui il Signore ci mette in guardia, è il chiacchiericcio, il profluvio di parole, in cui lo spirito soffoca nel pericolo di recitare formule abituali mentre lo spirito è altrove. Raggiungiamo il massimo grado di attenzione quando chiediamo qualcosa a Dio spinti da un'intima pena o quando lo ringraziamo con il cuore colmo di gioia per un bene ricevuto.

Gesù, quindi, raccomanda di pregare con semplicità, anche in segreto, ed offre il Padre Nostro ai suoi come esempio di preghiera con la quale rivolgersi al Padre.

Luca

Il contesto in cui l'evangelista pone la preghiera è diverso: racconta infatti (cf. Lc 11,1-4) che Gesù stava pregando da solo in un certo posto. Luca sembra fornire l'immagine di Gesù che si ritira e che perciò nessuno osasse distoglierlo dal suo dialogo con Dio: solo al termine di questo momento, uno dei suoi discepoli gli chiese di insegnar loro a pregare, ed Egli dunque pronunciò il Padre Nostro.

Confronto delle versioni

Luca racconta che uno dei discepoli chiese a Gesù di insegnar loro a pregare subito dopo un suo momento di preghiera personale. In Matteo non si legge della richiesta del discepolo, ma fu iniziativa di Cristo l'insegnamento del Padre Nostro.

Le differenze fra le due versioni sono le seguenti:

  • L'invocazione: Luca invoca Dio solo come "Padre", mentre Matteo come "Padre nostro che sei nei cieli";
  • In Luca non c'è la richiesta della realizzazione della volontà di Dio sulla terra come in cielo;
  • In Luca non si menziona l'invocazione finale "liberaci dal male / Maligno".
  • Luca usa "peccati" invece del più giuridico "debiti".

Lo sfondo dei due racconti è lo stesso: Gesù mostra alla sua gente qual è la forma corretta di rivolgersi a Dio. Cionondimeno, Matteo dà sviluppo in modo più intenso e profondo. Il racconto di Matteo sul Padre Nostro risulta così più appassionato, anche per il fatto che qui Gesù è su una montagna circondato da una moltitudine di persone ansiose di ascoltare le sue parole; la versione di Luca, per contro, ci restituisce un Cristo più spirituale, che prega solitario, causa l'ammirazione di un discepolo, che aspetta pazientemente che finisca di pregare per chiederGli di insegnare a sua volta a pregare.

Ipotesi sulle differenze fra Matteo e Luca

Vi sono tre ipotesi sulle differenze fra i racconti del Padre Nostro che ci rendono i due vangeli.

Se si assume che Gesù abbia pronunciato una sola volta il Padre Nostro, si conclude che uno dei due vangeli è più fedele ai fatti, e l'altro un po' meno:

  • se il testo di Luca fosse quello più vicino alle parole di Gesù, significherebbe che, al momento di trasmetterle, in alcuni casi si sarebbero aggiunte piccole perifrasi, pervenendo così alla versione di Matteo;
  • se fosse il testo di Matteo quello più fedele al discorso originale, allora i cristiani abbreviarono, nella tradizione raccolta da Luca, la preghiera, verosimilmente per dimenticanza.

La terza ipotesi presume che Gesù avesse pronunciato in più occasioni in Padre Nostro:

  • la preghiera era un elemento fondamentale per Gesù, e quindi molto probabilmente ripeté molte volte il Padre Nostro, anche per favorirne l'apprendimento da parte dei suoi discepoli. Matteo e Luca avrebbero raccolto questa orazione in momenti diversi.

In effetti, le differenze fra le due versioni del Padre Nostro sono abbastanza marginali, ed in pratica la Chiesa primitiva optò per il testo di Matteo, probabilmente in quanto più adorno e bilanciato. Non è da dimenticare che, mentre Matteo narra prevalentemente per gli ebrei, il Vangelo di Luca si rivolge soprattutto ai gentili, meno pratici della fraseologia tipica della Bibbia: questo spiega, ad esempio, la differenza fra la parola "peccati" e "debiti". La comparazione di Dio come giudice, con i relativi termini giuridici applicati al suo rapporto con l'uomo, è infatti caratteristica dell'Antico Testamento.

L'incorporazione della dossologia finale

La formula di dossologia che può, in alcune occasioni specifiche, concludere la preghiera è: "Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli".

Nelle altre confessioni cristiane, vi sono differenze rispetto a questa formula liturgica cattolica:

  • "Perché tuo è il potere e la gloria Padre, Figlio e Spirito Santo nei secoli" di uso bizantino;
  • "Perché tuo è il regno, il potere e la gloria, nei secoli dei secoli" di uso protestante.

In questa parte della preghiera si manifesta il totale riconoscimento da parte dell'orante che Dio è un essere assoluto e supremo, che non ha inizio né fine. Molto verosimilmente si tratta di un'aggiunta sorta attorno al II-III secolo: secondo Joachim Jeremias, non sarebbe stato accettabile che la preghiera terminasse con la parola "tentazione", e per questo motivo la Chiesa primitiva aggiunse per l'uso liturgico tale dossologia, basandosi probabilmente sul testo di 1Cr 29,11-13 .

Uso del Padre Nostro

Questa preghiera ha un largo impiego sia nella preghiera privata, sia nella preghiera pubblica delle Chiese cristiane, dove viene recitata o cantata coralmente. È recitato sia durante la Messa, sia nella Liturgia delle Ore, nonché nel Rosario. Durante queste ultime due recite, spesso erroneamente, i fedeli omettono alla fine l'Amen. Ciò è derivato dal fatto che durante i Riti di Comunione è correttamente omesso in quanto è pronunciato alla fine della Dossologia finale. Questa regola liturgica li porta a non pronunciarlo anche al di fuori dei Riti di comunione inducendo una consuetudine errata. Quando si recita il Padre nostro fuori dalla Riti di Comunione è sempre obbligatorio chiudere con l'Amen.

Diversamente, i Testimoni di Geova (che non sono cristiani) e le confessioni evangeliche pentecostali associate alle Assemblee di Dio in Italia non usano recitare parola per parola pubblicamente la preghiera del Padre Nostro, ma la considerano solo una "preghiera modello".

Questioni teologiche e di traduzione

  • Perdono dei peccati: siccome la preghiera chiede il perdono dei peccati, alcuni si sono chiesti se Gesù l'avesse proposta per sé stesso o per i suoi discepoli. Nel primo caso parrebbe in contrasto col dogma della mancanza di peccato in Gesù Cristo. Per i cattolici non vi è nessun dubbio che Gesù l'ha espressa come preghiera per i suoi discepoli.
  • Il ne nos inducas in tentationem: nelle traduzioni non sempre è chiaro il senso. Le traduzioni italiane risentono della traduzione latina. Sembra che il senso sia non permettere che cadiamo quando siamo tentati. La preghiera chiede la forza di vincere la tentazione di Satana. (Leggere più sotto la sezione specifica.)
    • Alcuni vangeli apocrifi hanno un'altra forma per la frase in questione, argomentando implicitamente che Dio non può tentare i suoi fedeli.
  • Il "male" finale: sembra che il testo, più che al concetto astratto si riferisca al "maligno", cioè al tentatore, Satana.
  • Il termine greco "epiousion" è, secondo lo stesso Origene, di dubbia interpretazione. Esso potrebbe significare "trans-sustanziale" o "quotidiano". Da questa ambiguità del testo greco originale derivano le diversità tra le traduzioni di questa parola in diverse lingue moderne.

Aspetti materni della paternità di Dio

L'amore di Dio è indubbiamente intriso di una componente paragonabile all'amore materno:

« Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò. »

« Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai. »

La parola ebraica rahamin, originariamente significava "grembo materno", in seguito assume anche il significato di "con-patire" di Dio con l'uomo in virtù della Sua misericordia.

L'Antico Testamento spesso ricorre a termini che indicano gli organi umani per indicare atteggiamenti fondamentali dell'uomo o anche i sentimenti di Dio. In questo modo sono illustrati gli atteggiamenti fondamentali dell'esistenza non con termini astratti, ma con il linguaggio di immagini tratte dal corpo. Il grembo materno è l'espressione più concreta dell'intimo intreccio di due esistenze e delle attenzioni verso la creatura debole e dipendente che, in corpo e anima, è totalmente custodita in seno alla madre. Il linguaggio figurato del corpo ci offre, così, una comprensione dei sentimenti di Dio per l'uomo più profonda di quanto permetterebbe un qualsiasi linguaggio concettuale.

Tuttavia, anche se l'amore materno è riconducibile all'immagine di Dio, è pur vero che nella Bibbia, Dio non è mai qualificato come madre. Il motivo è assimilabile al fatto che, sebbene Dio non sia né uomo né donna, ma puro Spirito, Creatore dell'Uomo e della Donna, il contesto storico ne impediva l'appellativo; infatti il popolo di Israele, come anche la Chiesa del Nuovo Testamento, erano circondati da divinità-madri che andavano in netto contrasto con l'immagine biblica di Dio.

Esse includevano sempre e forse inevitabilmente concezioni panteistiche, nelle quali la differenza tra Creatore e creatura scompariva. L'immagine di Padre, contrariamente, è più adatta ad esprimere la differenza fra Creatore e creatura, la sovranità del suo atto creativo. Solo escludendo le divinità-madri, l'Antico Testamento poteva portare a maturità la sua immagine di Dio, la pura trascendenza di Dio.

Nonostante le grandi metafore dell'amore materno di Dio, il termine "madre" non è un titolo di Dio e non è un nome con cui rivolgersi a Lui. Il cristiano deve pregare così come Gesù gli ha insegnato nel contesto delle Sacre Scritture e non come gli viene in mente o come più gli piace. Solo così la preghiera esprime una corretta relazione di amore tra una creatura ed il suo Creatore.

Struttura

La preghiera perfetta per eccellenza è suddivisa in otto parti:

  • una prima invocazione iniziale: "Padre nostro che sei nei Cieli"
  • Sette domande
    • Tre di queste sono alla seconda persona singolare e riguardano la causa di Dio in questo mondo:
      • "Sia santificato il tuo nome"
      • "Venga il tuo Regno"
      • "Sia fatta la tua volontà come in Cielo così in terra"
    • Quattro alla prima persona plurale, e riguardano le speranze, i bisogni e le difficoltà degli uomini:
      • "Dacci oggi il pane quotidiano"
      • "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori"
      • "Non indurci in tentazione"[1]
      • "Ma liberaci dal male""

Si potrebbe paragonare la relazione tra i due tipi di domande del Padre Nostro con quella tra le due tavole del Decalogo che, in fondo, sono spiegazioni delle due parti del comandamento principale, l'amore verso Dio e l'amore verso il prossimo, parole guida nella via dell'amore.

L'invocazione

Questa invocazione è una grande consolazione: possiamo chiamare Dio con l'appellativo di Padre. In questa parola è racchiusa l'intera storia della redenzione. Possiamo dire Padre, perché il Figlio era nostro fratello e ci ha rivelato il Padre, perché per opera di Cristo siamo tornati ad essere figli di Dio. Il Padre è "nostro", perché siamo tutti figli di Dio e al suo cospetto siamo tutti uguali.

Nei discorsi di Gesù il Padre appare come la fonte di ogni bene (Mt 5,44-48 ), (Mt 7,7-11 ), (Lc 11,13 ). Da questi versetti si deduce che il dono che Dio vuole darci è lui stesso. Lui è la cosa buona. Quando si prega è palese che la sola cosa di cui si ha bisogno è l'amore di Dio, lo Spirito Santo; non si tratta di questo o di quello. Dal Dono dei Doni, poi, si ottiene il resto.

Dio è innanzitutto "nostro" Padre in quanto nostro creatore. Poiché egli ci ha creato, noi apparteniamo a lui.

La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per noi a vivere come "figlio" e "figlia" (2Cor 6,18 ). "Tutte le cose mie sono tue" dice Gesù al Padre nella preghiera sacerdotale (Gv 17,10 ), e la stessa cosa ha detto il padre al fratello maggiore del figlio prodigo (Lc 15,31 ).

Solo Gesù poteva dire "Padre mio" a pieno diritto, perché solo lui è davvero il Figlio unigenito di Dio, della stessa sostanza del Padre. Noi tutti dobbiamo invece dire "Padre nostro". Solo nel "noi" dei discepoli possiamo dire "Padre" a Dio, perché solo mediante la comunione con Gesù Cristo diventiamo veramente "figli di Dio".

La parola "nostro" è decisamente impegnativa perché ci chiede di uscire dall'individualità per entrare nella comunità degli altri figli di Dio, per essere tutti fratelli. L'impegno che prendiamo, recitando l'invocazione, è quello di accogliere gli altri e di aprire a loro il nostro cuore per ascoltare, per dire "si" alla Chiesa vivente e universale e per formare quella famiglia che Gesù ha voluto. In questo modo la Preghiera del Signore assume un aspetto personale, ma nello stesso tempo ecclesiale in comunione con i vivi e i defunti di ogni razza, estrazione sociale e cultura, formando un'unica famiglia senza confini.

Infine, le parole "che sei nei cieli", identificano quell'altezza di Dio dalla quale tutti noi veniamo e verso la quale tutti noi dobbiamo essere in cammino. La paternità nei cieli ci rimanda a quel "noi" più grande che oltrepassa ogni frontiera, abbatte tutti i muri e crea la pace. "Nei cieli" non significa collocare Dio in un luogo lontano da noi, irraggiungibile, bensì significa affermare la nostra provenienza da un unico Padre, diverso dal nostro padre terreno.

La Quinta domanda

La quinta domanda del Padre Nostro è spesso fraintesa o non capita. Essa presuppone un mondo nel quale esistano dei debiti, cioè dei peccati. Peccati di uomini verso uomini e peccati di fronte a Dio. Ogni peccato, cioè ogni colpa, chiama una ritorsione. Si forma, così, una catena di indebitamenti in cui il male cresce continuamente portando ad una situazione difficile da gestire e dalla quale è via via più arduo sfuggirvi. Il Signore, con questa domanda, ci indica la via per superare questa colpa, cioè attraverso il perdono.

Così come Dio perdona le nostre colpe, allo stesso modo l'uomo deve rimettersi alla misericordia divina per trovare la forza di perdonare i propri debitori e nello stesso tempo chiedere a Lui il loro perdono. Dio ama le proprie creature e le perdona. Noi, in virtù del secondo comandamento dettato da Gesù (ama il tuo prossimo come te stesso), dobbiamo perdonare ai nostri simili (Mt 19,17-19 ).

Il perdono pervade tutto il Vangelo e Gesù ce lo ricorda bene quando in Mt 5,23-24 ci dice di riconciliarci con il nostro fratello. Non è possibile presentarci al cospetto di Dio se abbiamo dei sentimenti negativi verso il nostro prossimo.

Occorre tenere ben presente che Gesù, prima dell'Eucaristia, si inginocchiò davanti ai suoi discepoli e lavò i loro piedi, purificandoli con umiltà e amore .

La parabola del servo spietato (Mt 18,23-35 ) ci insegna che il perdono deve essere reciproco, perché solo condonando i debiti dei nostri fratelli otterremo il perdono dei nostri peccati da Dio.

Gesù insegna a Pietro di perdonare i fratelli non sette volte, ma fino a settanta volte sette (Mt 18,21-22 ). I numeri utilizzati da Gesù, non sono determinanti, quello che vuole trasmetterci è la qualità del perdono. Gesù vuole insegnarci che non è sufficiente ignorare i torti con un semplice "dimenticare", bensì dobbiamo smaltire i torti, bruciandoli dentro di noi per la purificazione e il rinnovamento di se stessi, coinvolgendo in questo processo anche il colpevole per superare ambedue, soffrendo, il male e rinnovarsi così nella fede.

In Lc 23,34 , Gesù ci insegna a chiedere al Padre il perdono dei nostri nemici e dei nostri debitori perché nelle nostre colpe e nei torti ricevuti, ci imbattiamo nei limiti delle nostre forze di guarire e di superare il male, ci scontriamo con lo strapotere del maligno che, con le nostre sole capacità non riusciremmo a dominare.

L'invidia, la superbia e l'ira sono le tentazioni che più ci inducono a violare il comandamento del perdono. Per questo è necessario coltivare un esistenza edificata sulla sobrietà facendo propri gli insegnamenti della Chiesa che ci esorta a far nostre le virtù cardinali.

Ecco allora il significato della quinta domanda: "Padre, perdona i nostri peccati, perché anche noi, con il tuo aiuto, vogliamo e dobbiamo perdonare i fratelli che hanno peccato contro di noi e contro di te."

La Sesta domanda

La resa latina e italiana secondo la Bibbia CEI 1974 della sesta domanda della preghiera possono essere oggetto di scandalo per alcune persone: Dio non ci induce certo in tentazione!

San Giacomo afferma che nessuno, quando è tentato, incolpa Dio, perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male (Gc 1,13 ).

Gesù, nel deserto, fu tentato dal demonio come Vero Uomo per sperimentare su se stesso la debolezza umana. Egli dovette sopportare questa condizione umana fino alla morte sulla croce per poter aprire all'uomo la via della salvezza. Solo in questo modo poté discendere agli inferi, nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, prenderci per mano e portarci verso l'alto e innalzarci alla Gloria dei Cieli.

Nella Eb 2,18 si sottolinea in modo particolare questo aspetto mettendolo in risalto come parte essenziale del cammino di Gesù, nostro sommo sacerdote che sa con-patire le nostre infermità, essendo Lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, ad eccezione del peccato in quanto Vero Dio.

Il Libro di Giobbe, sotto molti aspetti, delinea già il mistero di Cristo e ci offre ulteriori chiarimenti alla sesta domanda: satana vuole dimostrare la sua tesi di diffamatore dell'uomo che se privato del benessere e delle ricchezze materiali lascerebbe presto perdere anche la religiosità e l'amore di e per Dio. Ecco che allora Dio concede a satana la libertà di mettere alla prova Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia cadere l'uomo, ma permette che sia messo alla prova (Gb 1,6-12;2,1-6 ).

Le sofferenze di Giobbe servono alla giustificazione dell'uomo.

Mediante la sua fede, provata nella sofferenza, egli ristabilisce l'onore dell'uomo anticipando le sofferenze in comunione con Cristo che ristabilisce l'onore dell'umanità al cospetto di Dio e ci indica la via per non perdere la fede in Dio, anche nelle situazioni più dure della nostra esistenza.

Il Libro di Giobbe ci è d'aiuto anche per discernere da una religiosità di facciata da una vera e profonda fede in Dio. Così come il succo d'uva deve fermentare per diventare vino di qualità, così l'uomo, per maturare nella fede, ha bisogno delle prove, delle purificazioni e delle trasformazioni che indubbiamente sono pericolose e che possono procurarne la caduta, ma che però costituiscono le vie per giungere a Dio. L'amore è sempre un processo di purificazione, di rinunce e di trasformazioni dolorose di noi stessi, ma anche una via di maturazione per noi stessi e gli altri. L'uomo che non comprende questo processo evolutivo dell'anima è perduto e cade nelle atmosfere del male.

L'interpretazione della sesta domanda del Padre Nostro si racchiude tutta in questi concetti: con queste poche parole confermiamo a Dio di essere consapevoli della necessità delle prove affinché la nostra natura si purifichi, ma Gli chiediamo che queste prove non siano così dure da farci cadere e di limitare la forza del maligno alle nostre debolezze. Chiediamo a Dio di aiutarci e di esserci vicino quando le prove diventino quasi insopportabili. Esprimiamo, cioè, la consapevolezza che il nemico non può nulla contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio.

Le tentazioni e le prove che Dio permette al maligno e che si limitano ad un potere a noi sopportabile, sono riconducibili a due significati ben precisi:

  • Possono essere penitenza per la nostra superbia e per smorzare la nostra presunzione di grandezza e di credere di poter condurre un'esistenza senza la grazia di Dio.
  • Possono essere imposte ad gloriam cioè per la maggior gloria di Dio. La dimostrazione di quest'ultimo concetto lo possiamo trovare nelle prove e nelle tentazioni della vita dei grandi santi da Antonio nel deserto fino a Santa Teresa di Lisieux nel Carmelo. Queste grandi persone sono sulle orme di Giobbe e ancor di più sono in Cristo che ha sofferto fino in fondo le nostre tentazioni. Questi santi sono stati chiamati a superare le tentazioni per tramandarci l'esempio e aiutarci nel passaggio verso Colui che ha preso su di sé il peso di tutti i nostri peccati.

« Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita e la forza per sopportarla »

Per eliminare questo fraintendimento, la resa di Mt 6,13 e Lc 11,4 è stata modificata in "non abbandonarci alla tentazione" nella Bibbia CEI 2018, modifica accolta nella terza edizione del Messale.

Nuovo messale

Dal 29 novembre 2020 (I Domenica di Avvento di Rito Romano e III del Rito ambrosiano) è cambiata la Messa nelle diocesi italiane:

  • nei riti di introduzione;
  • nell'atto penitenziale;
  • nella liturgia eucaristica.

Anche la preghiera Padre nostro ha subito un cambiamento dal quale la vecchia formulazione « come noi li rimettiamo ai nostri debitori» è sostituita da « come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori» e « e non indurci in tentazione» è sostituta da « e non abbandonarci alla tentazione»[2].

Note
  1. Traduzione letterale dal greco: Non indurci in tentazione
  2. Giacomo Gambassi, Liturgia. Debutta il nuovo Messale. Ecco che cosa cambia a Messa, 28 novembre 2020 su avvenire.it, URL consultato il 29-11-2020.
Bibliografia
Voci correlate
Collegamenti esterni