Parabola del Padre Misericordioso
Parabola del Padre Misericordioso | |
Pompeo Batoni, Ritorno del figliol prodigo (1773), olio su tela; Vienna, Kunsthistorisches Museum. | |
Conosciuta anche come: Parabola del figliol prodigo | |
Passo biblico | Lc 15,11-32 |
Luca | |
Parabola precedente | Parabola della dracma perduta |
Parabola successiva | Parabola dell'amministratore scaltro |
Insegnamento - Messaggio teologico | |
Gioia di Dio per il figlio che ritorna; Dio esce a chiamare tutti a partecipare alla sua gioia. | |
Il testo della parabola | ||||||
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La Parabola del padre misericordioso, popolarmente chiamata del figliol prodigo (cioè "spendaccione"[1]) è una parabola di Gesù raccontata solamente nel Vangelo secondo Luca (15,11-32). È l'ultima di una trilogia, nella quale è preceduta dalla parabola della pecorella smarrita (15,4-7) e dalla parabola della moneta smarrita (15,8-10).
La parabola esprime bene la teologia di Luca dell'amore e della misericordia di Dio[2]. Il perdono del figlio minore non è la risposta del padre ai suoi buoni propositi: il padre infatti lo accoglie ancor prima che egli abbia la possibilità di parlare e di esprimere il proprio pentimento; e come il padre è uscito incontro a lui che ritornava, così esce a supplicare il figlio maggiore che giudica inopportuna la benevolenza del padre verso il fratello.
Il nome della parabola
Il Vangelo riporta la parabola, ma ovviamente non ne indica il nome. Il nome che si trova in quasi ogni edizioni della Bibbia è posto dal curatore come sintesi del brano. Ogni scelta di un nome tradisce un punto di vista.
- La designazione tradizionale e popolare della parabola in riferimento al figlio prodigo non è solo imprecisa e povera, ma è errata, perché riduce l'immensa ricchezza della parabola a un solo aspetto, per altro marginale: la prodigalità spensierata del figlio lontano da casa.
- La prima edizione della Bibbia CEI del 1971 titola: Il figlio perduto e il figlio fedele: il "figlio prodigo", cercando di salvare e superare al tempo stesso il titolo tradizionale, ma travisando così la figura del figlio maggiore, che non è affatto un figlio fedele.
- La seconda edizione della stessa (1997) cambia il titolo nel più comprensibile Parabola del padre misericordioso, mettendo in evidenza il cuore del racconto, ma lasciando in ombra l'elemento della giustizia, che è essenziale nel pensiero lucano.
- L'edizione bilingue (greco-italiano) del Nuovo Testamento[3] titola: Parabola del figlio ritrovato, che è parzialmente vera, ma non esprime il cuore della parabola.
- Helmut Gollwitzer titola La gioia di Dio e in questo modo sintetizza tutto il capitolo alla luce del tema della gioia (in greco charà/chàirê) presente espressamente sei volte in tutto il capitolo 15 (vv. 5.6.7.9.10.32; cf anche v. 23).
- Gérard Rossé sceglie un titolo neutro, da scoprire: La parabola del padre e dei suoi due figli, senza alcuna implicazione preventiva.
- Altri[4] propone di chiamarla La parabola di Dio Padre giusto perché misericordioso, spiegando che è un titolo lungo, ma che offre la chiave di lettura per entrare nel cuore di Dio, il cui mestiere è il perdono.
Contesto
La parabola è inserita dall'evangelista Luca nella sezione 15,1-17,10 che tratta della giustizia di Dio, in contrapposizione alla giustizia degli uomini. Questi emettono sentenze e condanne secondo criteri di eguaglianza, per lo più di convenienza; Dio, al contrario, esercita la giustizia di Padre e di Madre per recuperare sempre i figli del suo amore.
In Lc 15,1 inizia il contesto di riferimento: Si avvicinavano poi a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo, mentre mormoravano [sott.: contro di lui] i farisei e gli scribi, dicendo. A conclusione della sezione, in Lc 17,1-10 , leggiamo che bisogna perdonare il fratello che si pente (v. 3), sempre (v. 4)[5].
Dall'inizio alla fine, l'orizzonte è dominato dai pubblicani, dai peccatori e dal perdono senza condizioni e senza misura. Perdonare è soltanto amare a perdere, senza chiedere nulla in cambio. Secondo Gesù un perdono che pone una condizione[6] non è un perdono, perché manca la caratteristica della gratuità: il discepolo di Gesù non perdona perché l'altro se lo merita, ma perché ha sperimentato la misericordia di Dio e la rende visibile, le da un corpo offrendo il perdono all'altro e realizzando così la preghiera del Padre nostro: Padre,... perdona a noi i nostri peccati affinché anche noi possiamo perdonare a ogni nostro debitore (Lc 11,4 ).
Il perdono di Dio diventa fondamento del perdono reciproco degli uomini e il perdono vicendevole degli uomini diventa il sacramento visibile della misericordia di Dio[7].
Contesto immediato
L'occasione immediata delle tre parabole che Luca presenta nel c. 15 è la mormorazione di farisei e scribi pubblicani perché i pubblicani e i peccatori che si avvicinano a lui per ascoltarlo.
Alla mormorazione Gesù risponde mettendo in evidenza la gioia di Dio per ogni peccatore che si converte. Come nelle due parabole immediatamente precedenti della pecora perduta e della moneta smarrita, anche in quella del Padre Misericordioso il tema è la preoccupazione di Dio verso il peccatore pentito a preferenza di chi si sente rigorosamente giusto.
Se l'accento delle prime due parabole è su chi viene ritrovato, la terza introduce una chiamata di chi ritiene di non essersi mai allontanato e si permette di osservare con giudizio quei ritorni che invece sono fonte di festa per il Padre.
Stile
Questa parabola è considerata da sempre come la perla delle parabole, un "vangelo nel Vangelo"[8]. Lo stile è accurato e manifesta, oltre che un'arte raffinata anche una partecipazione intensa del redattore[9].
Senso generale
La parabola ha due vertici:
- la prima parte (15,11-24) ha un senso completo in sé stessa e illustra il tema della misericordia divina;
- la seconda parte (15,25-32) rappresenta la risposta di Gesù alle mormorazioni dei farisei e contiene l'insegnamento principale nel contesto apologetico nel quale è inserita.
L'accento è posto nel secondo vertice della parabola: Gesù rimprovera i farisei che si comportano come il fratello maggiore, in contrasto con la bontà e la volontà di salvezza di Dio.
La parabola si propone di dare un insegnamento ben preciso sul peccato e sulla sua natura[10]. La parabola vuole contrastare due concetti di peccato e due concetti di giustizia.
- Il figlio maggiore, pur senza rappresentare in senso stretto i farisei, ha un concetto di giustizia abbastanza simile al loro: fondato sull'idea di retribuzione (v. 29): si preoccupa soprattutto di salvaguardare l'ordine esteriore, piuttosto che di assicurare l'esistenza di relazioni personali tra l'uomo e Dio. Fa parte della famiglia, ma la sua visione è piuttosto quella di un mercenario, non di un fratello né di un figlio. Per lui il peccato è la violazione di una struttura esteriore, la disobbedienza a un precetto, cioè una "trasgressione" che si manifesta visibilmente.
- Il figlio minore esprime invece un diverso concetto di peccato, che è ancora certamente un'offesa a Dio ("Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te"), anche se non è facile capire dove stia l'offesa:
- per alcuni l'offesa sta nell'aver "divorato gli averi"; è di quest'opinione anche il fratello maggiore (v. 30);
- in realtà la parabola fa supporre che l'offesa consista nel rifiutare di essere figlio, quindi nel non voler stare sotto lo sguardo del suo amore, pretendendo, come Adamo nell'Eden, di essere padrone di sé; questo peccato il figlio minore l'ha espresso abbandonando la casa paterna (v. 13), secondo il concetto biblico: il peccatore si allontata dal Padre celeste, se si converte ritorna a lui.
Ed effettivamente ciò che rende felice il padre è semplicemente il ritorno del figlio, perché egli è suo figlio, più che il suo ritorno "sano e salvo", che è l'interpretazione dei servi (v. 27).
- Attraverso il suo peccato, o piuttosto attraverso il perdono di suo padre modellato sul suo peccato, il figlio pentito scopre l'amore paterno, ritrova - o forse sperimenta per la prima volta - i sentimenti di figlio.
- Il figlio maggiore, invece, si considera "giusto", per il fatto che non viola alcun precetto, quando in realtà egli trasgredisce il principale dovere, quello d'essere figlio. Insensibile anche alla chiamata che suo padre anche a lui rivolge (v. 28), vive con il padre ma come un estraneo nella sua casa.
La parabola suggerisce che vi possono essere due differenti immagini di Dio:
- l'immagine corretta di Dio è quella di un Padre che, pur rispettando la libertà del figlio minore che se ne va, non cessa nel suo cuore di attenderne il ritorno e gioisce quando questo avviene;
- il figlio maggiore non riesce a concepire ciò: per lui Dio è uno con cui avere una relazione di dare/avere, uno a cui reclamare di non avergli dato abbastanza.
Esegesi
L'espressione che introduce la parabola, "e disse", senza che si riporti il soggetto (Gesù), è volutamente solenne e maestosa[11]. In Gesù è Dio che parla e annuncia la salvezza del perdono, ma non come proposito od obiettivo, ma come evento che si compie nel momento stesso in cui Lui "dice". Dio, quando parla, crea e realizza quello che dice[12]. Dio parla agendo e agisce parlando. "E disse", posto all'inizio assoluto della parabola, esige un atteggiamento di ascolto profondo, perché la parabola non è un racconto edificante per suscitare pii desideri, ma è la proclamazione della volontà di Dio, che con una parabola annuncia "il vangelo del vangelo", definendo la sua natura di Dio. Nel momento in cui Dio "dice" la parabola è Lui che sta davanti a noi e ci supplica, ci prega di essere presenti con l'ascolto delle orecchie del cuore. "E disse" provoca in noi l'eco di Dt 6,4 : "Ascolta, Israele!", dove è Dio stesso che "prega" il suo popolo.
La parabola è articolata in due parti[13].
Prima parte
L'uomo anonimo della parabola ha due figli e dunque è padre. Un altro padre e due figli troviamo in Mt 21,28-32 , dove s'invertono risposta orale e comportamento pratico: quello che dice no fa la volontà del padre, mentre quello che dice sì, non la fa. La relazione padre-figlio non è solo parentela carnale, ma condivisione di volontà, di progetti, di sogni, di vita[14].
La legge ebraica assegnava al primogenito una parte doppia dell'eredità, che riceveva alla morte del padre[15]. Se egli aveva solo due figli, al secondo toccava un terzo dell'eredità, ma solo dei beni mobili[16]: il patrimonio immobiliare spettava integralmente al primogenito (Dt 21,17 ; Lev 25,23-25 ). Nella parabola il figlio minore riceve la sua parte, mentre la situazione del primogenito rimane invariata. Sappiamo (1Re 1-2 ; Sir 33,19-23 ) che un padre poteva abdicare prima della sua morte e dividere la sua proprietà. Al suo ritorno, il più giovane sarà reintegrato nella casa come figlio, ma cercare di determinare ciò che avvenne effettivamente è andare oltre i dati e la finalità del racconto.
La vita dissoluta del figlio minore è espressa da un termine greco che significa sensualità e spreco sfrenati. Essa si aggrava con il fatto che egli è andato a vivere tra i pagani, come fa capire l'accenno al paese lontano (v. 13) e il particolare dei porci in mezzo ai quali il figlio si ritrova a lavorare (v. 15.16). Per gli ebrei infatti i porci erano animali impuri (cfr. Dt 14,8 ; Lev 11,7 ) e custodirli o allevarli era un'occupazione "impura". Essere poi disposti a consumarne gli alimenti indicava una forma di degradazione imperdonabile.
Le carrube sono i frutti della pianta del carrubo (ceratonia siliqua). La severità del padrone non consentiva al figlio minore neppure di sottrarne alcune qualcuna agli animali immondi per sfamarsi.
La decisione del figlio minore di ritornare non è dettata dal pentimento, ma dalla fame[17]. Essa è espressa dal verbo ritornerò, che richiama Os 2,9 . Il figlio minore cambia rotta, inverte il corso della sua vita, che l'ha portato alla miseria e alla disperazione.
Cielo sta per Dio. Il figlio percepisce di aver mancato al padre della terra e al Dio dei cieli.
La compassione del padre traspare dal tenore originario di Luca: "le sue viscere ne furono sconvolte", esplagchnìsthe, splàgchna" = "viscere". Il suo perdono espresso dal bacio (v. 20; cfr. 2Sam 14,33 ) precedono la confessione di pentimento del figlio (v. 21). La risposta d'amore del padre non permette al figlio di terminare la sua richiesta (v. 21-22).
Il vestito donato al figlio ritornato è quello di un figlio, non di un servitore. Le parole che vengono tradotte con "il vestito più bello" (v. 22) dovrebbero essere lette, in modo più vicino al testo greco, "il suo primo (o antico) vestito": il senso sarebbe quello che il suo recente passato di dissoluto è dimenticato e gli sono riconfermati i suoi antichi privilegi di figlio.
L'anello, che recava di solito un sigillo personale, è segno di autorità (cfr. 1Mac 6,14 ). Portare i sandali era un privilegio degli uomini liberi; portarle in casa era riservato al padrone di casa, non ai suoi ospiti; gli schiavi camminavano scalzi. Anello e vestito comparivano insieme nel conferimento dell'autorità del faraone a Giuseppe (Gen 41,42 ).
Il vitello grasso (vv. 23.27.30) indica un animale nutrito in maniera speciale e riservato per un'occasione speciale.
Il tema del "perduto e ritrovato" lega insieme non solo le due parti della parabola riferentesi ai due figli (v. 24.32), ma riprende anche le finali delle due parabole precedenti (v. 7.10).
Seconda parte
Nel v. 29 il figlio maggiore si rivolge al padre tralasciando il garbato saluto "padre" usato invece dal figlio minore (v. 21). Inoltre egli parla di suo fratello chiamandolo "questo tuo figlio" (v. 30), con disprezzo. Nella risposta del padre questi lo vuol far ritornare al giusto rapporto di fratellanza: "questo tuo fratello" (v. 32). Inoltre l'espressione teknon (letteralmente "[mio] piccolo") ha un tono molto tenero: con queste parole, come già andandogli incontro e supplicandolo, il padre manifesta la sua bontà anche verso il figlio maggiore. La frase "Tutto quello che è mio è tuo" (v. 31) vuole esprimere la fusione dei cuori, che il fratello maggiore non riesce a percepire.
Le espressioni "Mio figlio era morto" (v. 24) e "tuo fratello era morto" (v. 32) riflettono il modo semitico di dire "come morto" o "non meglio che morto", suggerendo che il figlio minore aveva abbandonato la casa con l'intenzione di non tornarvi. È improbabile che esse si riferiscano alla sua morte spirituale.
La parabola termina in maniera aperta[18]: non si dice se il figlio maggiore accetterà o meno l'invito accorato del padre. In questa maniera Gesù suggerisce che anche per i farisei, ai quali è rivolta la parabola, c'è ancora tempo per la conversione.
Nella letteratura e nelle arti
La parabola ha ispirato nei secoli l'arte in tutte le sue sfaccettature e declinazioni.
Letteratura
- Il figliol prodigo (1736) di Voltaire
- Le lagrime del figliol prodigo (Suze sina razmetnoga), poema sacro del 1622, scritto da Giovanni Gondola.
Pittura e scultura
La parabola, grazie allo svolgimento della narrazione e al dinamismo fra i vari personaggi, è l'unica ad aver più volte ispirato gli artisti. Raramente viene raffigurata la prima parte della parabola, nel quale il figlio minore, dopo aver richiesto la propria eredità, parte per un paese lontano dove dissipa il suo intero patrimonio, mentre è molto frequente l'illustrazione della seconda parte dove è il padre a essere il vero protagonista della scena che accoglie e abbraccia "teneramente" il figlio minore. Inoltre, c'è poi la parte con il figlio maggiore che protesta per l'apparente ingiustizia e la conseguente, serena risposta del padre; ma questo segmento non ha quasi lasciato tracce nell'arte. Tra le opere più significative si ricordano:
- Figliol prodigo pasce i maiali (1510) di Hieronymus Bosch
- Ritorno del figliol prodigo (1619), olio su tela, di Guercino, esposto al Kunsthistorisches Museum di Vienna
- Figliol prodigo dissipa i beni con una prostituta (1635 ca.), olio su tela, di Rembrandt, custodito nella Gemäldegalerie di Dresda
- Ritorno del figliol prodigo (1658), olio su tela, di Mattia Presbiteri, conservata nel Palazzo Reale di Napoli
- Ritorno del figliol prodigo (1667-1670), olio su tela, di Bartolomé Esteban Murillo, custodito nel National Gallery of Art di Washington (Stati Uniti d'America).
- Ritorno del figliol prodigo (1668-1669), olio su tela, di Rembrandt, esposto nel Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo (Russia)
- Ritorno del figliol prodigo (1773), olio su tela, di Pompeo Batoni, custodito nel Kunsthistorisches Museum di Vienna
- Il figliol prodigo (1926), bronzo, di Arturo Martini, esposto presso l'Opera Pia Ottolenghi di Acqui Terme (AL).
- Il figliol prodigo (1975), olio su tela, di Giorgio de Chirico, conservato nella Casa-museo Giorgio de Chirico di Roma
Musica
- Il figliol prodigo, oratorio, di Henryk Opienski
- Il figliol prodigo, oratorio, di Giacomo Antonio Perti
- Il ritorno del figliol prodigo, musique vocale di Darius Milhaud
- Il figliol prodigo, balletto, di Sergej Prokof'ev - balletto
- Il figliol prodigo (1880), opera lirica, di Amilcare Ponchielli
Cinema
- Il figliol prodigo (The Wanderer - USA, 1925, b/n), film drammatico, di Raoul Walsh con Ernest Torrence e Tyrone Power
- Il figliuol prodigo (Germania, 1934, b/n), film drammatico, di Luis Trenker con Luis Trenker e Eduard Köck
- Il figliuol prodigo (The Prodigal - USA, 1955), film drammatico, di Richard Thorpe con Lana Turner e Edmund Purdom
- Il ritorno del figliol prodigo/Umiliati (Le retour du fils prodigue/Humiliés - Francia, Germania e Italia, 2003), film drammatico, di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet con Rosalba Curatola e Aldo Fruttuosi
Note | |
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Bibliografia | |
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Voci correlate | |
Collegamenti esterni | |
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