Autocoscienza di Gesù

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Maestranze bizantine, Gesù Cristo pantocratore (metà del XII secolo), mosaico; Cefalù, Cattedrale del SS. Salvatore, abside

L'espressione autocoscienza di Gesù si riferisce alla coscienza che Gesù Cristo aveva di essere il Figlio di Dio.

Tale coscienza risulta in maniera chiara dai dati evangelici, soprattutto da quanto appare nel Vangelo secondo Giovanni. È poi stato insegnato in maniera ininterrotta e costante dalla Chiesa lungo tutti i secoli della sua storia (magistero ordinario e universale), per cui appartiene a quelle verità di fede che, anche se non sono mai state definite dogmaticamente, appartengono a pieno titolo alla Tradizione della Chiesa.

Nei Vangeli

Il Vangelo secondo Giovanni è stato scritto, a detta del suo stesso autore, "perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio[1], e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome" (20,31). A questo scopo l'evangelista presenta sette grandi segni realizzati da Gesù, segni che lo accreditano come Messia (Cristo) e come Figlio di Dio.

I segni, in realtà, potrebbero, a rigor di termini, provare che Gesù è il Messia, poiché compiva i segni messianici (cfr. Mt 11,4-5 ), ma non hanno in sé la capacità di provare che era Figlio di Dio: molti dei miracoli compiuti da Gesù furono compiuti da semplici mortali inviati da Dio. Ma quei segni testimoniano la verità dell'insegnamento di Gesù sulla sua divinità, secondo lo schema di ragionamento che Gesù stesso adotta quando guarisce il paralitico calato dal tetto: "Perché sappiate che il Figlio dell'Uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse al paralitico, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua" (Mt 9,6 e par.: Mc 2,10-11 ; Lc 5,24 ). Lo stesso modo di procedere si ritrova anche in Gv: "Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credete per le opere stesse" (Gv 14,11 ).

I segni compiuti da Gesù attestano quindi la verità dell'insegnamento di Gesù[2], e all'interno di tale insegnamento vi sono affermazioni sulla sua identità di Figlio di Dio:

« Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. »

« Prima che Abramo fosse, io sono»

« Io e il Padre siamo una cosa sola. »

« Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse. »

Le "pretese" di Gesù sono in realtà percepite anche dai suoi uditori, che lo accusano di bestemmia "perché tu, che sei uomo, ti fai Dio" (Gv 10,33 .

Il quarto Vangelo testimonia quindi che Gesù era cosciente di essere Dio, e i segni da lui compiuti ne danno testimonianza.

Approfondimento

Di fronte a queste affermazioni molti esegeti stabiliscono un confronto tra l'immagine dell'autocoscienza di Gesù che scaturisce dal Vangelo secondo Giovanni con quella che scaturisce dai sinottici, arrivando alla conclusione che le due immagini sono incompatibili, e che bisogna privilegiare il materiale più antico (i sinottici), stabilendo perciò che l'autocoscienza divina di Gesù era molto più limitata di quanto appare nel quarto Vangelo.

Un tale modo di procedere è rigoroso solo in apparenza. La scelta tra le due immagini si dovrebbe effettuare soltanto se vi fosse una vera e propria contraddizione tra l'autocoscienza che risulta dai sinottici e quella che risulta in Giovanni. Ma in realtà non si trovano contraddizioni vere, ma solo un diverso modo di guardare allo stesso evento Gesù.

Un approccio più rigoroso consiste nel chiedersi il perché delle differenze tra le due immagini dell'autocoscienza di Gesù. Al riguardo si possono formulare tre ipotesi[3]:

  • Nel passaggio dai sinottici a Giovanni matura una scoperta progressiva della vera dimensione dello stesso personaggio storico, Gesù.
  • Giovanni presenterebbe un'elaborazione teologica non riguardo a Gesù di Nazaret, bensì riguardo al Cristo confessato dalla Chiesa del suo tempo, elaborazione che egli avrebbe rivestito della forma letteraria di un Vangelo.
  • L'influenza di dottrine derivate da diversi ambienti religiosi contemporanei avrebbe deformato il Gesù della storia come era nella sua realtà.

A livello storico non si può escludere a priori nessuna di queste possibilità, ma la prima ipotesi è quella più solida[4]. Le altre suppongono processi dei quali non vi è prova certa nella documentazione che lo storico ha a disposizione.

Nei Padri della Chiesa

In generale si può dire che nei Padri della Chiesa non si trovano discussioni circa l'autocoscienza divina di Gesù. I Padri, e anche i loro avversari, danno per scontato che Gesù abbia pronunziato realmente le parole che i Vangeli gli attribuiscono.

I primi cinque secoli: il dibattito sull'ignoranza di Cristo

Un aspetto però che può far luce sul pensiero dei Padri in merito al tema che si sta trattando è il problema dell'ignoranza di Cristo, largamente dibattuto all'interno delle controversie ariane e nestoriane. Si tratta fondamentalmente del testo seguente:

« Quanto poi a quel giorno o a quell'ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre»

Tale testo divenne un'arma nelle mani di chi non ammetteva che il Cristo fosse veramente uguale al Padre (arianesimo), e di chi non riconosceva in Gesù la stessa seconda persona della Santissima Trinità (nestorianesimo). Prima però che questo testo divenisse oggetto di discussione nelle controversie cristologiche, era ammessa senza difficoltà l'ignoranza di Gesù (Ireneo[5], Origene[6]). Più tardi però la preoccupazione fondamentale non fu più il senso ovvio di questo testo, quanto il darne un'interpretazione che non attentasse alla divinità di Cristo: Gesù doveva avere la scienza che corrispondeva al suo mistero di Dio fatto uomo, con due direzioni interpretative:

  • Gesù, anche come uomo, non ignorava il giorno del giudizio, ma lo ignorava come inviato di Dio, poiché questo non faceva parte di quanto era stato inviato a rivelare[7].
  • Gesù, in quanto uomo, non conosceva la data del giorno del giudizio, ma la conosceva in quanto Dio; dunque nel versetto in questione parlava di quello che ignorava in virtù della sua conoscenza umana[8].

È significativo notare che, in entrambe le interpretazioni, i Padri erano convinti che Gesù di Nazareth, il figlio di Maria, aveva a sua disposizione sia la sua scienza umana di figlio dell'uomo, sia la sua scienza divina di Figlio di Dio. E ciò per fedeltà ai dati evangelici. Se Gesù dice: "Il Padre e io siamo una cosa sola", i Padri sono convinti che Gesù non lo dice in quanto uomo, ma secondo la sua natura divina, come afferma chiaramente Papa Leone Magno nel suo celebre Tomo a Flaviano (449), che fu acclamato nel Concilio di Calcedonia del 451[9]. Perciò una domanda del tipo "Gesù sapeva d'essere Dio" equivarrebbe alla domanda "Dio sapeva di essere Dio?"[10], che è priva di significato.

E difatti il primo documento del magistero che si occupa dell'autocoscienza di Gesù afferma:

« Se qualcuno afferma che Gesù Cristo ha ignorato gli avvenimenti futuri e il giorno dell'ultimo giudizio, lui che è un solo Gesù Cristo, allo stesso tempo vero Figlio di Dio e vero figlio dell'uomo; e se afferma che (Gesù) ha potuto sapere solo quello che gli ha rivelato la divinità in lui come in un'altra (persona), sia anatema»
(DS 419)

Tale testo afferma che Gesù conosce tutto perché è Dio, e tale conoscenza non è frutto di una rivelazione, ma dell'unione ipostatica: Gesù come uomo conosce quello che conosce Dio. Ora, Dio sa di essere Dio, quindi Gesù lo sa anche lui.

Fulgenzio di Ruspe

È in questo padre della Chiesa dell'inizio del VI secolo che si affronta per la prima volta la questione dell'autocoscienza divina di Gesù. Fulgenzio (†533) risponde a un certo Ferrando, diacono di Cartagine, che gli ha posto due precise domande:

« L'anima di Cristo ha una conoscenza piena della divinità che l'ha assunta? il Figlio, con la sua umanità, conosce la sua divinità esattamente come si conoscono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo»
(PL 65, col. 415)

La domanda non è semplicemente "Gesù sapeva di essere Dio?", ma: "Il Cristo, nella sua umanità, ha una conoscenza piena della sua divinità?", dove l'insistenza è sull'aggettivo piena; e la continuazione della domanda potrebbe essere riespressa così: "Questa conoscenza è identica alla conoscenza che le tre Persone divine hanno tra loro?".

Fulgenzio risponde alla prima domanda e no alla seconda. La spiegazione di Fulgenzio è che l'anima di Cristo, essendo creata, ha una conoscenza di creatura; invece Dio, che è increato, ha una conoscenza divina, infinita. Il Cristo, nella sua umanità, conosce tutto quello che conosce Dio, ma non con la sua stessa profondità infinita. In particolare, Gesù, secondo la sua intelligenza umana, conosce pienamente la sua divinità, ma non con una pienezza identica a quella con cui si conosce con la sua intelligenza divina identica alla sua natura[11]. E qui Fulgenzio afferma con forza che questa conoscenza divina è comunicata all'umanità di Cristo per mezzo dello Spirito che le è dato senza misura, secondo l'insegnamento di Gv 3,34-35 [12].

Rispetto alla posizione di Agostino vi è il progresso legato al Concilio di Calcedonia (451). Tale concilio affermò chiaramente le due nature del Cristo,

« perfetto nella sua divinità, perfetto nella sua umanità... senza confusione... ma conservando ciascuna delle due nature le sue proprietà. »
(DS 301-302)

Di conseguenza, le parole e gli atti di Gesù di Nazaret non potevano più essere attribuiti immediatamente alla sua natura divina, ma era necessario che le fossero attribuiti attraverso la mediazione delle sue facoltà umane. Gesù quindi sapeva di essere Dio, ma questa conoscenza era secondo la capacità dell'intelligenza umana.

Il dettato di Calcedonia ha conseguenze importanti per l'interpretazione di Mc 13,32 sull'ignoranza di Gesù circa il giorno del giudizio. I Padri anteriori al Concilio di Calcedonia dicevano che Gesù conosceva quel giorno come Dio e lo ignorava come uomo. Dopo Calcedonia ciò non può più essere detto, poiché le definizioni di quel concilio comportano che la scienza divina del Verbo sia, in qualche modo, comunicata alla scienza umana del figlio di Maria. Così bisogna dire che il figlio di Maria conosceva, anche se solo alla maniera dell'intelligenza umana, il giorno del giudizio.

La lettera di Fulgenzio ebbe un grande influsso sugli autori latini posteriori. Alcuino di York[13] (†804) si ispira ad essa molto apertamente, e lo stesso fa Ugo di San Vittore[14] (†1141).

Gli agnoeti

Tra il 540 e il 640 appaiono gli scritti dei cosiddetti agnoeti (dal greco agnoein, "ignorare"): con questo nome erano designati certi cristiani che ammettevano in Gesù una certa ignoranza. La nostra conoscenza di questa corrente è frammentaria, e pare che si trattasse di individui, non di gruppi. Il punto focale del loro discorso verte sempre su Mc 13,32 , l'ignoranza di Cristo sul giorno del giudizio.

Conosciamo meglio la reazione che i Padri hanno avuto nei loro confronti, con l'affermazione chiara che Gesù non ignorò nulla. Il testo principale è una lettera di papa Gregorio Magno al patriarca di Alessandria sugli agnoeti, scritta verso il 600. Gregorio afferma che Gesù conosceva il giorno del giudizio nella sua natura umana, ma non a partire dalla sua natura umana[15]. Intende con questo dire che la conoscenza che Cristo ha del giorno del giudizio non è il frutto normale della sua intelligenza umana: egli la riceve per comunicazione dalla conoscenza divina del Verbo.

San Giovanni Damasceno (†749) è uno degli ultimi autori che parlano degli agnoeti. Nella sua esposizione su La fede ortodossa afferma esplicitamente che l'intelligenza umana di Gesù, pur operando secondo la sua natura umana, aveva coscienza di essere l'intelligenza di una Persona divina, e non quella di un uomo che non sarebbe altro che un uomo[16].

Conclusione

La maturità del pensiero dei Padri della Chiesa ha posto in chiaro due cose[17]:

  • la pienezza e la perfezione dell'umanità di Gesù e della sua intelligenza d'uomo;
  • la coscienza che questa intelligenza possiede di essere quella di una Persona divina; quest'ultima comunica all'intelligenza umana, secondo la sua capacità creata, la propria scienza divina.

La riflessione dei teologi

Appurato che Cristo aveva coscienza del suo essere divino, i teologi del Medioevo e dei tempi moderni si incaricarono di riflettere sul come avviene la comunicazione tra la conoscenza divina e quella umana in Cristo. Di fatto, non è possibile affermare con certezza "Gesù sa di essere Dio" se non si specifica "come lo sa". La risposta a questa domanda richiede di allargare lo studio all'intero mistero della scienza umana di Gesù.

I teologi medioevali

La maggior parte dei teologi dell'VIII secolo distinguono nella conoscenza umana di Gesù tre livelli[18]:

Questa distinzione si è imposta ai teologi come il modo migliore per rendere conto del dato biblico, e non è quindi una costruzione filosofica a priori. Infatti:

  • Gesù ha avuto, come tutti gli uomini, una scienza acquisita che cresceva con l'età(cfr. Lc 2,52 );
  • Gesù ha avuto la visione di Dio, chiarissima come quella degli eletti in cielo (cfr. Gv 1,18;6,46;8,38 );
  • Gesù si è proclamato profeta (Mt 13,57 ; Lc 13,33 ), ed è quindi normale che egli abbia, come i profeti, la conoscenza di quello che è incaricato di rivelare agli uomini[20]; per riguardo poi alla dignità eminente di Cristo, conviene che questa conoscenza sia permanente, e non passeggera come era nei messaggeri di Dio dell'Antico Testamento.

Ha una posizione diversa il francescano Alessandro di Hales (†1245): questi ammette in Cristo sei scienze: la scienza divina, la scienza d'unione (corrispondente all'unione in Gesù dell'umanità e della divinità), la scienza di visione beatifica, e tre scienze puramente umane.

San Tommaso d'Aquino

San Tommaso collega l'autocoscienza divina di Gesù alla sua visione beatifica. Egli inizia il ragionamento contestando l'opinione espressa nella Summa Sententiarum[21], nella quale si afferma: "Bisogna dire senza esitazioni che, in Cristo, non vi è altra scienza fuori della scienza divina"[22].

In aperta opposizione con la Summa Sententiarum, Tommaso afferma che, se in Cristo non vi fosse altra conoscenza che la scienza propriamente divina, egli non potrebbe conoscere nulla assolutamente[23]. Infatti la conoscenza è un atto della Persona di Cristo, ma della Persona che agisce con le facoltà della sua natura. Ora, il Gesù dei Vangeli è apparso nella sua natura umana, e le sue parole erano il frutto di una intelligenza umana. Il Concilio di Calcedonia insegna che, in Gesù, le due nature, umana e divina, esistono in un modo distinto, senza mescolanza e senza confusione. Non può essere quindi che l'intelligenza divina del Figlio di Dio, Dio egli stesso, supplisca alla mancanza di un'intelligenza umana nel Verbo incarnato. Quindi, se Gesù sa d'essere Dio, come testimoniato in Giovanni, lo sa attraverso la sua intelligenza umana.

Alla domanda sul "come?", Tommaso risponde: "Grazie alla visione beatifica", quella visione cioè di cui godono gli eletti nel cielo, e che Gesù possiede già su questa terra. Attraverso tale "scienza di visione, Gesù vede Dio, la sua unità, la Trinità delle Persone divine, e vede se stesso unito alla seconda Persona della Trinità nell'unità di una sola Persona[24].

Tommaso rigetta fermamente anche la posizione di Alessandro di Hales[25]. La ragione sta nel fatto che Calcedonia afferma la coesistenza in Cristo delle due nature divina e umana "senza mescolanza e senza confusione"; conseguentemente non vi è azione propria del Verbo sull'umanità di Cristo; l'azione divina sull'umanità di Cristo deriva dalla natura divina, ed è comune alle tre Persone.

I teologi moderni

Una domanda che San Tommaso non si pone è la seguente: che avverrebbe se Cristo non avesse goduto della visione beatifica già in terra, e se non avesse avuto neppure la scienza infusa caratteristica dei profeti, ma solo la scienza acquisita comune a tutti gli uomini? avrebbe ancora sapute di essere Dio? La domanda viene posta dai teologi del XX secolo, e la loro risposta è negativa, in coerenza con il pensiero di Tommaso, ma è differente la spiegazione che ne viene data.

Karl Rahner[26] e Jean Mouroux[27] sostengono che la conoscenza dell'uomo Gesù ha della sua natura divina gli è data immediatamente dal fatto stesso dell'unione ipostatica, cioè dall'unione in un'unica Persona della natura umana e della natura divina.

Secondo i teologi tomisti questo non è possibile, poiché tale soluzione si riduce, a loro parere, alla scienza d'unione di Alessandro di Hales. La coscienza che Gesù ha come uomo di essere una Persona divina deve provenire necessariamente dalla sua scienza umana, o attraverso la visione beatifica, o come scienza infusa; infatti la 'scienza acquisita, per quanto perfetta, non può oltrepassare le capacità della natura umana come tale.

A questo punto si divaricano le spiegazioni:

  • Per alcuni Gesù attingeva la sua certezza d'essere Dio nella sua scienza infusa: per mezzo di essa aveva la rivelazione di essere Dio[28].
  • Per la maggior parte dei teologi tomisti Gesù ha coscienza di essere Dio per la sua scienza di visione (visione beatifica)[29].

Tutti i teologi tomisti sono d'accordo sul fatto che, se Gesù avesse solo la scienza acquisita, sarebbe Dio ma non lo saprebbe. In ciò non vi sarebbe nessuna contraddizione: tale situazione sarebbe compatibile con il dato rivelato dell'incarnazione; certamente, però, avremmo una certa illogicità nella sapienza del disegno di Dio[30].

Note
  1. Se ci si chiede in che senso questo il Vangelo secondo Giovanni intende l'espressione Figlio di Dio, gli esegeti sono d'accordo: si tratta del senso forte, trascendente, della divinità di Gesù confessata da Tommaso in Gv 20,28 .
  2. A stretto rigor di logica essi non possono essere utilizzati per provare la verità dell'insegnamento di Paolo o di un dogma esplicitato in seguito dalla Chiesa.
  3. François Dreyfus (1986), p. 18.
  4. Ib.
  5. Adversus Haereses, II,28,6-8.
  6. In Matth., PG 13, col. 1686ss. Origene presenta un'altra opinione "più diffusa": "Il Cristo parla in nome della Chiesa".
  7. Fra quanti sostengono questa posizione troviamo Ilario, Ambrogio, il Crisostomo, Agostino, Didimo, Epifanio, Basilio di Cesarea. Nel Medioevo divenne opinione comune tra gli scolastici.
  8. Questa interpretazione è attestata in Ireneo e in Gregorio Nisseno. La maggior parte di padri però ammette entrambe le interpretazioni: Atanasio, Basilio, Gregorio Nazianzeno.
  9. DS 295.
  10. François Dreyfus (1986), p. 34.
  11. PL 65, col. 420-423.
  12. Ib., col. 417ss. Per Fulgenzio la conoscenza "per mezzo dello Spirito" è data a Cristo "senza misura", cioè non con le forze proprie della sua intelligenza umana.
  13. De fide S. Trinitatis, III, 11: PL 101, col. 30.
  14. De Sapientia animae Christi, PL 176, col. 845.
  15. DS 475.
  16. De fide orthodoxa, III,19: PG 94, col. 1080.
  17. François Dreyfus (1986), p. 38.
  18. Sant'Alberto Magno, In Sentent., III, dist. 13 e 14. Seguono Sant'Alberto Magno San Bonaventura, In sentent., III, dist. 14, e San Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, III, q. 9-12.
  19. Cfr. Gen 32,31 ; Es 33,11 ; Nm 14,14 ; Dt 5,4;34,10 ; Gdc 6,22 ; Sir 45,5 ; 1Cor 13,12 .
  20. La prova biblica di tale affermazione è meno stringente delle altre.
  21. Tale opera fu attribuita per lungo tempo a Ugo di San Vittore (†1140).
  22. I, 16; PL 176, col. 74.
  23. Summa Theologiae, III, q. 9, a. 1.
  24. III, q. 10, a. 4, corp.
  25. III, q. 9, a. 1.
  26. Problemi della cristologia d'oggi, in Saggi di Cristologia e di Mariologia, Edizioni Paoline, Roma 1967, pp. 3-91.
  27. Il mistero del tempo, Morcelliana, Brescia 1965.
  28. Così V. Héris, À propos d'un article sur la psychologie du Christ, in Rev. Sc. Ph. Théol., 43 (1959) 462-471. Lo stesso autore precisa però che solo la visione beatifica permette a Gesù "di conoscere senza ombra" la sua personalità divina; senza la visione beatifica, infatti, Gesù dovrebbe "credere oscuramente" alla sua divinità, come notato gisutamente dal Garrigou-Lagrange in Le Sauveur et son amour pour nous, Parigi 1933, p. 198.
  29. Per esempio Réginald Garrigou-Lagrange, Le Sauveur et son amour pour nous, Parigi 1933, p. 198. Jacques Maritain, Della grazia e dell'umanità di Gesù, Morcelliana, Brescia 1977
  30. François Dreyfus (1986), p. 45. L'autore afferma che la conoscenza che Gesù ha della sua divinità rappresenta quindi un supplemento al mistero dell'incarnazione, ma un supplemento necessario. Il dogma della divinità di Cristo e quello della sua autocoscienza divina sono distinti.
Bibliografia
Voci correlate