Lavanda dei piedi

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La lavanda dei piedi è prova di totale, decisivo e definitivo amore, "sino all'estremo". Senza perdere la signoria dovuta alla sua condizione di Figlio di Dio, il Signore (ό κύριος, ó kýrios) si fa servo (δούλος, doúlos), e questa donazione di se stesso è sigillata nella croce dove l'Agnello di Dio salva l'umanità. Nel suo spogliarsi, abbassarsi, in quella kénosis ha preso la forma, la condizione di servitore fino alla morte e alla morte di croce (cfr. Fil 2,7 ). Il suo inginocchiarsi davanti ai piedi dei discepoli porterà alla suprema esaltazione quando tutti saranno inginocchiati dinnanzi al suo nome.
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La lavanda dei piedi è il gesto con cui Gesù, la vigilia della sua passione, ha lavato i piedi ai suoi apostoli. Il gesto è narrato in Giovanni 13,1-15 .

La Chiesa Cattolica rivive tale gesto nella Messa nella Cena del Signore, il Giovedì Santo.

Nel mondo biblico

A causa dell'uso dei sandali nei paesi orientali, il gesto di lavare i piedi fu quasi ovunque riconosciuto fin dai tempi più antichi come una forma di cortesia nei confronti degli ospiti (Gen 18,4; 19,2 ; Lc 7,44 )[1].

Era quindi una maniera di onorare un ospite che era giunto percorrendo strade polverose; eseguito prima del pasto, era d'ordinario affidato a un domestico, ed eseguirlo implicava una situazione di inferiorità[2] (cfr. 1Sam 25,41 ).

Il gesto di lavare i piedi è raccomandato da San Paolo alle vedove (1Tim 5,10 ).

Il gesto di Gesù

Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli durante una cena, poco prima di patire.

Contesto

Si afferma comunemente che Gesù ha fatto la lavanda dei piedi durante l'Ultima cena. In realtà il rapporto tra la cena di Vangelo secondo Giovanni e l'Ultima Cena dei sinottici è molto discusso. La cena di cui parla Giovanni ebbe luogo "prima della festa di Pasqua" (v. 1); i sinottici invece parlano esplicitamente di cena pasquale, che iniziava al tramonto del 14 di Nisan. Secondo Giovanni Gesù muore la vigilia del 14 Nisan, mentre per i sinottici la morte avvenne il giorno di Pasqua, cioè il 15 Nisan. Le soluzioni proposte a questo problema esegetico sono varie, e gli studiosi danno la preferenza all'una o all'altra cronologia[3].

Si nota comunemente anche che il quarto evangelista non racconta nel suo Vangelo l'istituzione dell'Eucaristia[4], e in certo senso vi sostituisce la lavanda dei piedi. In realtà anche questa affermazione andrebbe analizzata alla luce del carattere pasquale o meno della cena giovannea.

La narrazione di Giovanni situa all'interno della cena la denuncia da parte di Gesù del tradimento di Giuda (13,21-30), il dono del comandamento nuovo (13,31-35) e la predizione del rinnegamento di Pietro (13,36-38). Seguono poi i discorsi d'addio di Gesù (c. 14-17).

Significato

Il gesto che compie Gesù non è da intendersi come un rituale di purificazione sullo stile di quelli giudaici, ma viene visto come il simbolo della purificazione che attuerà per tutti gli uomini con la sua passione, morte e risurrezione. "La lavanda dei piedi esprime l'abbassamento e l'umiliazione del Figlio di Dio, che si è fatto carne per mettersi a servizio degli uomini, e che presto morirà in croce per manifestare il sommo amore del Padre"[5] (cfr. Mc 10,45 ).

Il brano giovanneo si divide in due parti:

  • il gesto della lavanda dei piedi (vv. 2-11);
  • il monologo con cui Gesù spiega il suo gesto (vv. 12-20).

Nella seconda parte (vv. 13-15) si trovano le parole chiave di Gesù:

« Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi. »

Nella storia della Chiesa

Nella liturgia antica il gesto seguiva il Battesimo, ma ben presto fu abbandonato in più Chiese[6]. Sant'Ambrogio[7] ne parla ampiamente, dando tutti gli elementi della critica e dello sviluppo del rito. Sant'Agostino non seguì l'uso della Chiesa di Milano, e in una sua lettera[8] afferma che la lavanda dei piedi non deve aver relazione con il Battesimo, e pare consigliarla per il Giovedì Santo; in realtà l'indicazione non è chiara, e altri commentatori[9], vi leggono il riferimento al Venerdì Santo. San Cesario d'Arles[10] l'ammette per i neo battezzati. La Synodus Illiberiana[11] (303) l'aveva invece proibita.

La lavanda dei piedi era praticata nei confronti degli ospiti dei monasteri[12], a commemorazione dell'umiltà di Gesù, al termine delle funzioni del Giovedì Santo[6]. Da lì passò poi nelle cattedrali; il rito fu in un primo tempo diviso in due parti: il Vescovo lavava i piedi dei canonici e poi quelli dei poveri; ma ben presto, per ragioni di brevità, le due cerimonie vennero unificate, e il Vescovo passò a lavare i piedi a tredici[13] poveri. La testimonianza più antica si trova nel Liber Ordinum mozarabico[14], e riflette gli usi del V-VI secolo.

Le prime testimonianze per la Chiesa di Roma su trovano negli Ordo X e XII (XII-XIV secolo). Nei testi dei canti usati nella cerimonia domina il tema della carità, il mandatum ("comandamento") nuovo di Gesù.

Sant'Ambrogio compiva la lavanda dei piedi, non il giovedì santo, ma la notte di Pasqua e i soggetti del rito erano i nuovi battezzati, i più piccoli, gli ultimi arrivati nella Chiesa. A Milano, per tutto il medio evo invece, si conservò l'usanza di effettuare la lavanda dei piedi il Sabato Santo, ma già nei manoscritti più antichi essa è ordinata pure al Giovedì Santo. Di fatto quella del Giovedì Santo è l'unica che rimase nei tempi seguenti, fino al giorno d'oggi.

Note
  1. Herbert Thurston (1912).
  2. Xavier Léon-Dufour (1995) 36.
  3. Angelico Poppi (1990), p. 500.
  4. L'evangelista Giovanni evidenzia però la portata eucaristica del segno della Moltiplicazione dei pani nel dialogo di Gesù con i giudei nella sinagoga di Cafarnao (6,26-59).
  5. Angelico Poppi (1990) 500.
  6. 6,0 6,1 Enrico Josi (1951) 967.
  7. De Sacramentis, 3,1.
  8. Epistola LV, 18,33, in CSEL, XXXIV, 11, p. 207-208.
  9. Ad esempio A. Malvy, Lavements es pieds, in Dictionnaire de Theologie Catholique, IX, c. 16-36.
  10. PL 39,2071.
  11. Can. 48, in Karl J. von Hefele, Conciliengeschichte, Freiburg, 4 voll., 1873-1879; tradotto in francese da Henri Leclerq, Histoire des Conciles d'apres les documents originaux, Parigi, 1907-1911, I, 1, p. 249.
  12. Cfr. la Regola di San Benedetto, c. 53, online.
  13. Enrico Josi (1951) 967 afferma che non è chiaro il motivo del numero tredici.
  14. Ed. Ferotin, Parigi 1904, p. 190 e segg.
Bibliografia


Voci correlate
Collegamenti esterni