Schiavitù e cristianesimo
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L'istituto sociale della schiavitù, che implica "l'asservimento di esseri umani" e porta ad "acquistarli, a venderli e a scambiarli come se fossero merci", riducendo le persone "con la violenza ad un valore d'uso oppure ad una fonte di guadagno",[1] è in profonda antitesi col messaggio di amore, libertà ed eguaglianza proprio del cristianesimo.
Nell'intera storia dell'umanità l'Europa medievale è stata l'unica società che si è mostrata fattivamente capace prima di mitigare, poi abolire la compravendita di esseri umani, in forza dei suoi valori teologici e antropologici cristiani. Alle soglie dell'epoca moderna, in occasione delle grandi esplorazioni e conquiste, la schiavitù ha preso nuovamente vigore (in particolare con la tratta atlantica tra Africa nera e Americhe) al di fuori dell'Europa. Questo nonostante l'impegno speso in loco di missionari (in particolare domenicani e gesuiti) e le ferme condanne di numerosi pontefici. Solo tra '800 e '900 le politiche delle potenze coloniali europee si uniformarono all'insegnamento cattolico, e imposero con le armi (in particolare nei territori musulmani, dove la schiavitù era parte integrante della religione e cultura islamica) la cessazione di ogni tipo di tratta.
Termini, definizione e diffusione
Nell'antichità classica lo schiavo era indicato da termini come l'ebraico עבד (èved), il greco δοῦλος (dùlos), il latino servus. Il termine "schiavitù" (con dicitura affine nelle principali lingue contemporanee) deriva da slavo (latino sclavus, francese esclave), e ha diffusione a partire dai secc. X-XI quando le guerre ottoniane rivolte a queste popolazioni dell'Europa orientale portarono a un mercato di prigionieri di guerra.
Pur con notevoli diversità tra le varie epoche e culture, si diventava schiavi:
- in quanto prigionieri di guerra;
- in conseguenza a debiti economici;
- in quanto figli di schiavi.
L'istituzione della schiavitù è presente in numerose società umane, in particolare quelle attinenti allo sviluppo del cristianesimo: il mondo ebraico, quello greco-romano, le società germaniche, rispetto a ognuna delle quali quali la dottrina cristiana si colloca in netta discontinuità.
Antico Testamento
L'Antico Testamento ammette la schiavitù, al pari di tutte le società con le quali si è rapportato l'ebraismo classico (egizi, assiri, babilonesi, persiani, greci, romani). Sono tuttavia ravvisabili alcuni elementi di discontinuità, che portano a preferire l'uso del termine "servitù" invece di "schiavitù":
- la servitù (per prigionia o debiti) è propriamente riservata alle persone non ebree;
- ha durata limitata nel tempo per un periodo massimo di 7 anni, in concomitanza con lo scadere dalle ricorrenze giubilari;
- il servo è tutelato da abusi fisici del padrone;
- è possibile il riscatto tramite pagamento.
Queste le principali normative, che pongono come fondamento al trattamento benevolo dei servi il ricordo della schiavitù ebraica in Egitto:
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2Quando tu avrai acquistato uno schiavo ebreo, egli ti servirà per sei anni e nel settimo potrà andarsene libero, senza riscatto. 3Se è venuto solo, solo se ne andrà; se era coniugato, sua moglie se ne andrà con lui. 4Se il suo padrone gli ha dato moglie e questa gli ha partorito figli o figlie, la donna e i suoi figli saranno proprietà del padrone, ed egli se ne andrà solo. 5Ma se lo schiavo dice: "Io sono affezionato al mio padrone, a mia moglie, ai miei figli, non voglio andarmene libero", 6allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio, lo farà accostare al battente o allo stipite della porta e gli forerà l'orecchio con la lesina, e quello resterà suo schiavo per sempre. 7Quando un uomo venderà la figlia come schiava, ella non se ne andrà come se ne vanno gli schiavi. 8Se lei non piace al padrone, che perciò non la destina a sé in moglie, la farà riscattare. In ogni caso egli non può venderla a gente straniera, agendo con frode verso di lei. 9Se egli la vuol destinare in moglie al proprio figlio, si comporterà nei suoi riguardi secondo il diritto delle figlie. 10Se egli prende in moglie un'altra, non diminuirà alla prima il nutrimento, il vestiario, la coabitazione. 11Se egli non le fornisce queste tre cose, lei potrà andarsene, senza che sia pagato il prezzo del riscatto. » | |
« |
20Quando un uomo colpisce con il bastone il suo schiavo o la sua schiava e gli muore sotto le sue mani, si deve fare vendetta. 21Ma se sopravvive un giorno o due, non sarà vendicato, perché è suo denaro. [...] 26Quando un uomo colpisce l'occhio del suo schiavo o della sua schiava e lo acceca, darà loro la libertà in compenso dell'occhio. 27Se fa cadere il dente del suo schiavo o della sua schiava, darà loro la libertà in compenso del dente. » | |
« | 35Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria ed è inadempiente verso di te, sostienilo come un forestiero o un ospite, perché possa vivere presso di te. 36Non prendere da lui interessi né utili, ma temi il tuo Dio e fa vivere il tuo fratello presso di te. 37Non gli presterai il denaro a interesse, né gli darai il vitto a usura. 38Io sono il Signore, vostro Dio, che vi ho fatto uscire dalla terra d'Egitto, per darvi la terra di Canaan, per essere il vostro Dio.
39Se il tuo fratello che è presso di te cade in miseria e si vende a te, non farlo lavorare come schiavo; 40sia presso di te come un bracciante, come un ospite. Ti servirà fino all'anno del giubileo; 41allora se ne andrà da te insieme con i suoi figli, tornerà nella sua famiglia e rientrerà nella proprietà dei suoi padri. 42Essi sono infatti miei servi, che io ho fatto uscire dalla terra d'Egitto; non debbono essere venduti come si vendono gli schiavi. 43Non lo tratterai con durezza, ma temerai il tuo Dio. 44Quanto allo schiavo e alla schiava che avrai in proprietà, potrete prenderli dalle nazioni che vi circondano; da queste potrete comprare lo schiavo e la schiava. 45Potrete anche comprarne tra i figli degli stranieri stabiliti presso di voi e tra le loro famiglie che sono presso di voi, tra i loro figli nati nella vostra terra; saranno vostra proprietà. 46Li potrete lasciare in eredità ai vostri figli dopo di voi, come loro proprietà; vi potrete servire sempre di loro come di schiavi. Ma quanto ai vostri fratelli, gli Israeliti, nessuno domini sull'altro con durezza. 47Se un forestiero stabilito presso di te diventa ricco e il tuo fratello si grava di debiti con lui e si vende al forestiero stabilito presso di te o a qualcuno della sua famiglia, 48dopo che si è venduto ha il diritto di riscatto: lo potrà riscattare uno dei suoi fratelli 49o suo zio o il figlio di suo zio; lo potrà riscattare uno dei consanguinei della sua parentela o, se ha i mezzi per farlo, potrà riscattarsi da sé. 50Farà il calcolo con il suo compratore, dall'anno che gli si è venduto all'anno del giubileo; il prezzo da pagare sarà in proporzione del numero degli anni, valutando le sue giornate come quelle di un bracciante. 51Se vi sono ancora molti anni per arrivare al giubileo, pagherà il riscatto in ragione di questi anni e in proporzione del prezzo per il quale fu comprato; 52se rimangono pochi anni per arrivare al giubileo, farà il calcolo con il suo compratore e pagherà il prezzo del suo riscatto in ragione di quegli anni. 53Resterà presso di lui come un bracciante preso a servizio anno per anno; il padrone non dovrà trattarlo con durezza sotto i suoi occhi. 54Se non è riscattato in alcuno di questi modi, se ne andrà libero l'anno del giubileo: lui con i suoi figli. 55Poiché gli Israeliti sono miei servi; essi sono servi miei, che ho fatto uscire dalla terra d'Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio. » | |
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12Se un tuo fratello ebreo o una ebrea si vende a te, ti servirà per sei anni, ma il settimo lo lascerai andare via da te libero. 13Quando lo lascerai andare via da te libero, non lo rimanderai a mani vuote. 14Gli farai doni dal tuo gregge, dalla tua aia e dal tuo torchio. Gli darai ciò di cui il Signore, tuo Dio, ti avrà benedetto. 15Ti ricorderai che sei stato schiavo nella terra d'Egitto e che il Signore, tuo Dio, ti ha riscattato; perciò io ti do oggi questo comando. 16Ma se egli ti dice: "Non voglio andarmene da te", perché ama te e la tua casa e sta bene presso di te, 17allora prenderai la lesina, gli forerai l'orecchio contro la porta ed egli ti sarà schiavo per sempre. Anche per la tua schiava farai così. 18Non ti sia grave lasciarlo andare libero, perché ti ha servito sei anni e un mercenario ti sarebbe costato il doppio; così il Signore, tuo Dio, ti benedirà in ogni cosa che farai. » | |
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10Se andrai in guerra contro i tuoi nemici e il Signore, tuo Dio, te li avrà messi nelle mani e tu avrai fatto prigionieri, 11se vedrai tra i prigionieri una donna bella d'aspetto e ti sentirai legato a lei tanto da volerla prendere in moglie, 12te la condurrai a casa. Ella si raderà il capo, si taglierà le unghie, 13si leverà la veste che portava quando fu presa, dimorerà in casa tua e piangerà suo padre e sua madre per un mese intero; dopo, potrai unirti a lei e comportarti da marito verso di lei e sarà tua moglie. 14Se in seguito non ti sentissi più di amarla, la lascerai andare per suo conto, ma non potrai assolutamente venderla per denaro né trattarla come una schiava, perché tu l'hai disonorata. » | |
La normativa veterotestamentaria che può apparire più in contrasto con la sensibilità contemporanea riguarda la vendita della figlia come schiava, ma a ben vedere (cf. Es 21,10 ) si tratta più propriamente di un matrimonio combinato che vuole garantire benessere e sostentamento ("nutrimento, vestiario, abitazione") alla ragazza.
Nuovo Testamento
Gesù
Nella predicazione e nell'insegnamento di Gesù come descritto dai vangeli non sono presenti passi che rappresentano condanne esplicite della schiavitù. I servi sono protagonisti delle parabole del debitore spietato (Mt 18,23-35 ), dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-46 ), del servo fidato (Mt 24,45-51 pp.), dei talenti (Mt 25,14-30 pp.), ma in tutti questi casi non si ravvisano commenti sulla condizione di schiavitù.
Anche quando Gesù si rapporta a dei servi-schiavi non emergono valutazioni contro la schiavitù, vale a dire nel racconto della guarigione del servo (pàis) del centurione romano di Cafarnao (Mt 8,5-13 pp.), e nel racconto della guarigione del servo del sommo sacerdote al momento dell'arresto (Lc 22,51 ).
Dunque come per altri aspetti centrali nella successiva elaborazione dei diritti umani (p.es. condizione della donna, guerra, giustizia sociale) in Gesù non sono ravvisabili elementi esplicitamente "sovversivi". Il Signore si limita dunque a prendere atto della situazione di fatto tra Ebrei e greco-romani, ma nulla nel suo insegnamento autorizza la prevaricazione di un padrone sullo schiavo, e il comandamento dell'amore fraterno (Mt 22,39 pp.) porterà a lungo andare all'abolizione della schiavitù nella società cristiana.
Paolo
È soprattutto in alcuni passi di Paolo che possono essere trovati i germi capaci di invalidare l'istituto (allora universale) della schiavitù, anche se (come per il caso di Gesù) non si trova una palese ed esplicita condanna. Da un lato Paolo (con Pietro) esorta alla sottomissione dei servi-schiavi ai loro padroni:
« | 20Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. 21Sei stato chiamato da schiavo? Non ti preoccupare; anche se puòi diventare libero, approfitta piuttosto della tua condizione! 22Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è un uomo libero, a servizio del Signore! Allo stesso modo chi è stato chiamato da libero è schiavo di Cristo. 23Siete stati comprati a caro prezzo: non fatevi schiavi degli uomini! 24Ciascuno, fratelli, rimanga davanti a Dio in quella condizione in cui era quando è stato chiamato. » | |
« |
5Schiavi, obbedite ai vostri padroni terreni con rispetto e timore, nella semplicità del vostro cuore, come a Cristo, 6non servendo per farvi vedere, come fa chi vuole piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, facendo di cuore la volontà di Dio, 7prestando servizio volentieri, come chi serve il Signore e non gli uomini. 8Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo che libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene. » | |
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22Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. 23Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, 24sapendo che dal Signore riceverete come ricompensa l'eredità. Servite il Signore che è Cristo! 25Infatti chi commette ingiustizia subirà le conseguenze del torto commesso, e non si fanno favoritismi personali. » | |
« |
1Quelli che si trovano sotto il giogo della schiavitù, stimino i loro padroni degni di ogni rispetto, perché non vengano bestemmiati il nome di Dio e la dottrina. 2Quelli invece che hanno padroni credenti, non manchino loro di riguardo, perché sono fratelli, ma li servano ancora meglio, proprio perché quelli che ricevono i loro servizi sono credenti e amati da Dio. Questo devi insegnare e raccomandare. » | |
« |
9Esorta gli schiavi a essere sottomessi ai loro padroni in tutto; li accontentino e non li contraddicano, 10non rubino, ma dimostrino fedeltà assoluta, per fare onore in tutto alla dottrina di Dio, nostro salvatore. » | |
« |
18Domestici, state sottomessi con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a quelli buoni e miti, ma anche a quelli prepotenti. 19Questa è grazia: subire afflizioni, soffrendo ingiustamente a causa della conoscenza di Dio; 20che gloria sarebbe, infatti, sopportare di essere percossi quando si è colpevoli? Ma se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio. » | |
D'altro lato in Paolo possono essere trovati alcuni passi che compensano la timida trattazione circa la schiavitù sopra elencata, spezzando lance a favore degli schiavi:
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Non c'è Giudeo né Greco; non c'è schiavo né libero; non c'è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù. » | |
« |
Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo [con rispetto e tremore] verso di loro [gli schiavi], mettendo da parte le minacce, sapendo che il Signore, loro e vostro, è nei cieli e in lui non vi è preferenza di persone. » | |
« |
Voi, padroni, date ai vostri schiavi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo. » | |
È soprattutto nella Lettera a Filemone, il più breve testo biblico che rappresenta però "un vero capolavoro di tatto e di cuore",[2] concordemente considerata autentica anche se di difficile datazione, che si trovano i presupposti impliciti all'abolizione della schiavitù. Il testo permette di ricostruire questi eventi: il cristiano di Colosse Filemone, forse marito di Appia e padre di Archippo (Col 1,24 ), possedeva uno schiavo di nome Onesimo (greco: "utile"), già collaboratore di Paolo (Col 4,9 ). Per un qualche attrito a noi ignoto (Fm 18 ) era scappato dal padrone rifugiandosi da Paolo. L'apostolo lo reinvia a Filemone con la missiva, esortandolo a perdonare Onesimo e considerarlo "non più come uno schiavo" ma come un "fratello carissimo nel Signore" (Fm 16 ), da accogliere come se fosse lo stesso Paolo (Fm 17 ).
La Tradizione della Chiesa
Per quanto il cristianesimo si sia sviluppato in società fortemente schiaviste, la prassi ecclesiale cristiana non faceva distinzione tra liberi e schiavi. Entrambi ricevevano gli stessi sacramenti, inclusa l'ordinazione, e almeno due schiavi sono diventati Papi (Pio I e Callisto I). La condizione servile non imponeva vincoli matrimoniali, e nei cimiteri non sono riscontrabili distinzioni tra tombe ed epigrafi di schiavi e liberi.
Dal punto di vista dottrinale, talvolta sono impropriamente citati come a favore della schiavitù i principali teologi dell'occidente cristiano, sant'Agostino e san Tommaso d'Aquino.
In realtà, quanto alla trattazione teorica di Agostino (Città di Dio 19), ammette la schiavitù prendendo atto della situazione sociale e con molti distinguo: è estranea dal progetto divino e deriva dal peccato umano; è lecita se conseguenza della guerra giusta e non riguarda innocenti; è preferibile all'uccisione dei prigionieri; il padrone non deve maltrattare il servo. Notevole è la Lettera 10* (anni 420) scritta a sant'Alipio (tr. it.), nella quale lamente incursioni di predoni in nordafrica ("scellerato traffico") che schiavizzano cittadini rurali inermi, cristiani e non, per i quali Agostino ricorda che la Chiesa si è adoperata per il riscatto e auspica l'intervento delle autorità, per "provvedere che l'Africa non venga più oltre svuotata dei suoi abitanti indigeni e che una sì gran folla di gente d'ambo i sessi, trascinata via a truppe e a frotte come da un fiume che scorre senza tregua, non perda la propria libertà personale peggio che divenendo prigioniera dei barbari".
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Egli (Dio) disse: Sia il padrone dei pesci del mare e degli uccelli del cielo e di tutti i rettili che strisciano sulla terra. Volle (Dio) che l'essere ragionevole, creato a sua immagine, fosse il padrone soltanto degli esseri irragionevoli, non l'uomo dell'uomo, ma l'uomo del bestiame. Per questo i giusti dell'antichità furono stabiliti come pastori degli armenti e non come re degli uomini, ed anche in questo modo Dio suggeriva che cosa richiede l'ordine delle creature, che cosa esige la penalità del peccato. Si deve capire che a buon diritto la condizione servile è stata imposta all'uomo peccatore. Perciò in nessun testo della Bibbia leggiamo il termine "schiavo" prima che il giusto Noè tacciasse con questo titolo il peccato del figlio. Quindi la colpa e non la natura ha meritato simile appellativo. Si avanza l'ipotesi che l'etimologia degli addetti alla servitù sia derivata nella lingua latina dal fatto che coloro i quali per legge di guerra potevano essere ammazzati, se conservati dai vincitori, venivano asserviti ed erano denominati appunto dal conservare. Ed anche questo non avviene senza la sanzione del peccato. Infatti, anche quando si conduce una guerra giusta, dalla parte avversa si combatte per il peccato ed ogni vittoria, anche se favorisce i malvagi, umilia i vinti per giudizio divino tanto se corregge le colpe, come se le punisce. Ne è testimone il profeta Daniele quando, essendo in prigionia, confessa a Dio i propri peccati e i peccati del suo popolo e con devoto dolore confessa che questa è la causa della prigionia stessa. Dunque prima causa della schiavitù è il peccato per cui l'uomo viene sottomesso all'uomo con un legame di soggezione, ma questo non avviene senza il giudizio di Dio, nel quale non v'è ingiustizia ed egli sa distribuire pene diverse alle colpe di coloro che le commettono. Il Padrone di tutti dice: Chiunque commette peccato è schiavo del peccato; e per questo molti fedeli sono schiavi di padroni ingiusti ma non liberi perché: Ciascuno è aggiudicato come schiavo a colui dal quale è stato vinto. E certamente con maggior disimpegno si è schiavi di un uomo che della passione poiché la passione del dominio, per non parlare delle altre, sconvolge con un dominio molto crudele il cuore dei mortali. In quell'ordine di pace col quale alcuni uomini sono soggetti ad altri, come giova l'umiltà a quelli che sono schiavi, così nuoce la superbia a coloro che sono padroni. Per natura, secondo la quale all'inizio Dio formò l'uomo, non v'è schiavo dell'uomo o del peccato. Però la schiavitù come pena è ordinata secondo quella legge che comanda di mantenere l'ordine naturale e proibisce di violarlo perché, se il peccato non fosse avvenuto contro quella legge, non vi sarebbe nulla da reprimere dalla schiavitù come pena. Perciò l'Apostolo consiglia anche che gli schiavi siano sottomessi ai loro padroni e che prestino loro servizio in coscienza con buona volontà. Così, se non possono essere lasciati in libertà, essi stessi rendano libera la propria schiavitù, non prestando servizio con perfida paura ma con un affetto leale perché abbia fine l'ingiustizia e siano privati di significato la supremazia e il potere umano, e Dio sia tutto in tutti. » | |
Anche l'esame dei passi che Tommaso d'Aquino dedica alla schiavitù porta a riconoscere che la sua accettazione è vincolata da molti distinguo: è una conseguenza del peccato; gli schiavi sono intellettualmente capaci come i padroni, anche se fattivamente sono vincolati; è causata da debiti economici; la schiavitù deve essere finalizzata al bene dello schiavo; i padroni possono percuotere gli schiavi per educarli, ma con percosse lievi che non lasciano danni permanenti, arrivando anche a misericordia e perdono; non sono soggetti a vincoli quanto al matrimonio; i figli di schiavi sono liberi; l'ordinazione di schiavi ne implica l'emancipazione.
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Iª q. 21 a. 1 ad 3: A ciascuno è dovuto il suo. Ora, una cosa si dice sua, cioè di qualcuno, quando è alle dipendenze di lui: così il servo è del padrone, e non viceversa, perché libero è colui che non ha altra dipendenza che da se stesso. Iª q. 92 a. 1 ad 2: Ci sono due specie di sudditanza. La prima, servile, e quella per cui chi è a capo si serve dei sottoposti per il proprio interesse; e tale dipendenza sopravvenne dopo il peccato. Ma vi è una seconda sudditanza, economica o politica, in forza della quale chi è a capo, si serve dei sottoposti per il loro interesse e per il loro bene. Una tale sudditanza ci sarebbe stata anche prima del peccato; poiché senza il governo dei più saggi, sarebbe mancato il bene dell'ordine nella società umana. E in questa sudditanza la donna è naturalmente soggetta all'uomo; perché l'uomo ha per natura un più vigoroso discernimento di ragione. - Del resto lo stato di innocenza non esclude la disuguaglianza tra gli uomini, come vedremo in seguito. Iª q. 96 a. 4 co.:Il termine dominio si può prendere in due sensi. Primo, come contrapposto di schiavitù: e in tal senso si dice dominus [ossia padrone] colui che tiene altri sotto di sé come schiavi. Secondo, nel significato più comune che si riferisce a una sudditanza qualsiasi: e in tal senso si può chiamare dominus anche chi ha l'ufficio di governare e di dirigere delle persone libere. Prendendo dunque il termine nel primo significato, allora nessun uomo nello stato di innocenza avrebbe dominato su altri uomini; stando invece al secondo significato, un uomo avrebbe potuto avere il dominio sugli altri. E la ragione sta in questo, che mentre "chi è libero è causa di se stesso", come si esprime il Filosofo, lo schiavo viene subordinato ad altri. Perciò uno viene dominato come servo, quando viene subordinato all'altrui utilità. E siccome ciascuno desidera il proprio bene, o per conseguenza si rattristi per dover cedere ad altri quel bene che dovrebbe essere sazio, un tale dominio non è senza pena per i sottoposti. E quindi nello stato di innocenza non ci sarebbe stata questa specie di dominio di un uomo sugli altri uomini. Invece uno è sottoposto al dominio di un altro come persona libera, quando quest'ultimo lo indirizza al bene di chi è governato, oppure al bene comune. E tale dominio di un uomo sull'altro si sarebbe verificato anche nello stato di innocenza, per due motivi. Primo, perché l'uomo è per natura un animale socievole: quindi gli uomini nello stato di innocenza avrebbero vissuto in società. Ma non può esserci vita sociale in una moltitudine senza il comando di uno, il quale abbia di mira il bene comune; poiché di suo una pluralità di persone ha di mira una pluralità di scopi, mentre un individuo mira ad uno scopo unico. Perciò il Filosofo insegna, che in ogni pluralità di cose dirette a un fine, se ne trova sempre una che ha la funzione direttiva e principale. - Secondo, ammesso che un uomo avesse avuto sugli altri una preminenza nel sapere o nella santità, sarebbe stato poco conveniente che non adoperasse queste sue doti in vantaggio degli altri, conforme al passo della Scrittura: "Ognuno di voi ponga al servizio degli altri il dono ricevuto". Perciò S. Agostino dice che "i giusti comandano non per ambizione di dominio, ma per il dovere di prendere a cuore [il bene altrui]"; poiché "questo è l'ordine prescritto dalla natura, e così Dio ha creato l'uomo". Iª-IIae q. 105 a. 4 co.: La convivenza delle persone di famiglia, come nota il Filosofo, è basata sulle azioni quotidiane ordinate ad assicurare il necessario alla vita. Ora, la vita umana si conserva in due maniere. Primo, nell'individuo, cioè in quanto vive l'uomo singolo: e per conservare codesta vita l'uomo fa uso dei beni esterni, dai quali ricava il vitto, il vestito e altre cose del genere necessarie alla vita; e per curare codesti beni l'uomo può aver bisogno di servi. Secondo, la vita umana si conserva nella specie mediante la generazione, per la quale l'uomo ha bisogno della moglie, da cui genera i figli. Perciò nella vita familiare possono esserci tre specie di rapporti: padrone e schiavo, marito e moglie, padre e figlio. E rispetto a tutti questi rapporti l'antica legge ha dato opportuni precetti. Infatti rispetto agli schiavi stabiliva che venissero trattati con bontà e quindi che non fossero oppressi col lavoro eccessivo. Infatti il Signore comandava: nel giorno di sabato "riposi come te il tuo schiavo e la tua schiava". Lo stesso si dica per i castighi; poiché impose come punizione, a chi avesse mutilato i propri schiavi, di rimandarli liberi. La stessa cosa comandava per la schiava che uno avesse preso per moglie. - Per gli schiavi ebrei poi stabiliva in particolare che al settimo anno tornassero liberi, con tutte le cose che avevano portato con sé, e con le loro vesti. Inoltre era prescritto di dar loro il necessario per il viaggio. [...] IIª-IIae q. 47 a. 12 co.: La prudenza risiede nella ragione. Ora, comandare e governare è proprio della ragione. E quindi un uomo esige che gli si attribuisca la ragione e la prudenza nella misura in cui partecipa al comando e al governo. Ora, è evidente che il suddito in quanto suddito, e il servo in quanto servo non hanno la facoltà di comandare e di governare, ma piuttosto quella di essere comandati e governati. Perciò la prudenza non è una virtù del servo in quanto tale, né del suddito in quanto suddito. Qualsiasi uomo però, siccome in quanto razionale è partecipe del comando in forza del libero arbitrio della ragione, deve possedere una partecipazione della prudenza. Perciò è evidente che la prudenza risiede nel principe "in qualità di arte architettonica", come si esprime Aristotele; mentre si trova nei sudditi "in qualità di arte manuale". IIª-IIae q. 47 a. 12 ad 2: Il servo è privo della facoltà di deliberare in quanto servo: infatti in tal senso egli è strumento del suo padrone. Tuttavia egli ha capacità di deliberare in quanto è un animale ragionevole. IIª-IIae q. 57 a. 3 ad 2: Considerando le cose per se stesse, non esiste una ragione naturale perché un dato uomo dev'essere schiavo piuttosto che un altro: ma ciò deriva solo da un vantaggio conseguente, cioè dal fatto che è utile per costui esser governato da un uomo più saggio, e per quest'ultimo è vantaggioso. Perciò la schiavitù, che appartiene al diritto delle genti, è naturale nel secondo modo, non già nel primo. IIª-IIae q. 65 a. 2 co.: Con le percosse s'infligge un danno al corpo del paziente, però in maniera diversa che con la mutilazione: quest'ultima infatti ne pregiudica l'integrità, mentre le percosse si limitano al dolore sensibile. Perciò esse sono un danno molto minore della mutilazione. Ora, infliggere un danno a una persona è permesso solo come castigo, per un atto di giustizia. Ma non si può punire con giustizia se non i propri sudditi. Quindi è permesso percuotere soltanto a chi ha un potere sulla persona che viene percossa. E poiché il figlio è sotto il potere del padre, e lo schiavo sotto quello del padrone, il padre e il padrone hanno rispettivamente la facoltà di percuotere il figlio e lo schiavo, allo scopo di correggerli e di educarli. IIª-IIae q. 65 a. 2 ad 1: [...] L'esortazione poi rivolta [da Paolo] ai padroni di mettere da parte le minacce si può intendere in due modi. Primo, nel senso che si deve usare con moderazione di esse: e questo fa parte della moderazione nel correggere. Secondo, nel senso che non sempre si deve porre in atto il castigo minacciato: e questo implica l'obbligo di temperare talvolta con la misericordia del condono la sentenza con la quale era stata decretata la punizione. IIª-IIae q. 65 a. 2 ad 2: [...] Il padre e il padrone, i quali governano la società domestica, che è una società imperfetta, hanno un potere coercitivo imperfetto limitato a lievi punizioni, le quali non infliggono danni irreparabili. E le percosse sono una di queste. IIª-IIae q. 106 a. 3 ad 4: Come Seneca insegna, "finché uno schiavo dà quello che si è soliti esigere da uno schiavo, è suo ufficio: ma quando dà più di quanto si richiede da uno schiavo, allora il suo è un beneficio. Infatti quando egli raggiunge l'affetto di un amico, si comincia a parlare di beneficio". Perciò si deve gratitudine anche agli schiavi, quando fanno più del dovuto. IIª-IIae, q. 189 a. 6 ad 2: Essendo la schiavitù un castigo del peccato, priva l'uomo di qualche prerogativa che altrimenti gli spetterebbe, e cioè della facoltà di disporre liberamente della propria persona: "Infatti il servo per tutto ciò che è, è del padrone". I figli invece non sono menomati dalla sottomissione al padre, così da non poter disporre liberamente della propria persona, mettendosi al servizio di Dio: il che costituisce per l'uomo il bene più grande. Suppl., q. 52 a. 1 ad 1: [...] Lo stato di schiavitù non dirime il matrimonio, se non quando è ignorata dall'altro contraente, e questi sia di libera condizione. Niente perciò impedisce che ci siano matrimoni tra schiavi, o tra un uomo libero e una schiava. Suppl., q. 52 a. 2 co.: [...] Allo stesso modo che lo schiavo sottostà al padrone non senza poter mangiare e dormire liberamente, e compiere quanto riguarda le sue necessità corporali; così non deve sottostare al punto da non poter contrarre liberamente il matrimonio, anche all'insaputa e contro la volontà del padrone. Suppl., q. 52 a. 3 ad 5: Se l'ordinazione di uno schiavo avviene a conoscenza del padrone e senza la sua protesta, ne produce per se stessa l'emancipazione. Se avviene all'insaputa del padrone, allora il vescovo e chi l'ha presentato sono tenuti a sborsare al padrone il doppio del prezzo dello schiavo, se essi sapevano che si trattava di uno schiavo. Altrimenti, se lo schiavo possiede un peculio deve redimere se stesso: diversamente egli torna schiavo del suo padrone, sebbene questo gl'impedisca l'esercizio del proprio ordine. » | |
Magistero
Il magistero ecclesiale contiene numerosi pronunciamenti che intendono mitigare o abolire ("manomissione") del tutto la schiavitù, segno sia dell'attenzione della Chiesa a questo ingiusto istituto, sia dell'effettiva inefficacia delle condanne.[3] Può stupire una certa tiepidezza che segna i pronunciamenti ecclesiali fino all'epoca moderna, che sembrano limitarsi ad accettare tacitamente la schiavitù condannandone le deviazioni più estreme (abusi sugli schiavi, riasservimento dopo la manomissione), con l'implicito comandamento di considerare lo schiavo come un fratello. Va però considerato come questo istituto economico-sociale rappresentava una colonna portante delle società greco-romane e barbariche, e come notava Gregorio XVI, fu solo "col trascorrere del tempo, essendosi dissipata più ampiamente la caligine delle superstizioni barbariche ed essendosi mitigati i costumi anche dei popoli più selvaggi sotto l'influsso della carità cristiana, che si arrivò al punto che da diversi secoli non ci sono più schiavi presso moltissimi popoli cristiani" (In Supremo Apostolatus Fastigio, 1839).
Impero e medioevo
Uno dei più antichi pronunciamenti del magistero attinenti la schiavitù riguarda il Concilio di Gangra (Armenia, 340).[4] In esso vengono condannate alcune dottrine proprie dei manichei, inclusa (can. 3) la ribellione degli schiavi ai padroni: "Se qualcuno col pretesto del culto divino insegna a uno schiavo a opporsi al padrone e a fuggire al suo servizio, e a non servirlo con buona fede e ogni onore, sia anatema".
Nel Concilio di Agde (506),[5] tenuto nel sud della Francia, si afferma (cann. 7; 29) che gli schiavi della Chiesa (cioè di persone o enti ecclesiastici) una volta liberati mantengono questo stato, e impone che al momento della liberazione ricevano anche una somma di denaro per iniziare un'attività economica autonoma.[6]
Similmente il Quinto concilio di Orleans (549),[7] circa gli schiavi della Chiesa manomessi, afferma l'irrevocabilità della libertà raggiunta (can. 7). Circa gli schiavi in generale (non solo della Chiesa) che sono stati manomessi e hanno scelto di rimanere col padrone, qualora questo volesse punirli per un qualche motivo e fuggono in una chiesa, viene garantito loro il diritto d'asilo, e viene imposta la scomunica al padrone che volesse ritrattare il giuramento di manomissione (can. 22).
Un concilio tenuto in una località non precisata nel nord della Francia, attorno al 615,[8] stabilisce che (can. 14) chi è diventato schiavo per motivi economici riacquista immediatamente la libertà non appena riesce a pagare il debito. Viene ammesso il matrimonio tra il servo e una donna libera o la serva e un uomo libero, e i figli avuti durante la servitù sono da considerare liberi.
Il Quarto concilio di Toledo (633)[9] dedica alla schiavitù diversi canoni. Viene vietato agli ebrei di possedere schiavi cristiani (66); gli schiavi della Chiesa liberati devono rimanere liberi, e così anche i loro figli (70); i liberti possono essere ordinati (73); gli schiavi della Chiesa possono essere ordinati presbiteri e diaconi e con questo acquistano la libertà (74).
Gregorio III, scrivendo al vescovo di Magonza nel 731,[10] rimprovera l'uso di vendere ai pagani dei cristiani come schiavi per immolazioni rituali, e auspica che la pena sia la stessa dell'omicidio.
Il Concilio di Worms (868)[11] impone la scomunica o una penitenza pubblica di 2 anni al padrone che uccide uno schiavo (can. 38), e nel caso di una padrona che colpisce una schiava per gelosia facendola morire, la penitenza pubblica è di 5 anni, 7 anni se la morte era voluta (c. 39).
Giovanni VIII con la lettera Unum Est (ca. 873) rivolta ai principi di Sardegna, chiede che venissero liberati schiavi pagani che erano stati venduti da mercanti greci: "È bene e santo, come conviene a cristiani, che voi, se li avete comprati dai greci, li lasciate andare liberi per amore di Cristo e ne riceviate il prezzo non da uomini, ma dallo stesso Signore Gesù Cristo. Vi esortiamo e comandiamo con paterno amore che, se avete comprato da loro qualche prigioniero, lo lasciate andare libero per la salvezza della vostra anima".[12]
Il Concilio di Coblenza (922)[13] equipara la tratta di cristiani all'omicidio (can. 7).
Il Concilio di Londra (1102)[14] rappresenta la prima esplicita condanna in blocco della schiavitù: "Nessuno voglia entrare nel nefasto commercio, che era in uso qui in Anglia, per cui si solevano vendere uomini come se fossero bruti animali" (can. 27).
Il Concilio di Armagh (Irlanda, 1171)[15] riconduce alla vendetta divina la schiavitù nella quale erano incorsi degli Angli razziati da pirati, rimproverando agli stessi Angli l'uso di vendere i figli come schiavi, e viene comunque stabilito che tutti gli Angli che si trovano come schiavi in Irlanda possano riacquistare la libertà.
Il Terzo concilio lateranense (1179), condannando gli eretici, esorta affinché "siano confiscati i loro beni e i principi siano liberi di assogettarli in servitù" (can. 27).[16] Il canone però non può essere assunto come indicazione di liceità della schiavitù. All'epoca il nord della Spagna e il sud della Francia erano devastati dai catari o patari, i quali "facevano crudeltà contro i cristiani, senza rispetto per chiese e monasteri, né vedove e ragazze, né anziani e bambini, né qualunque età e sesso, ma alla maniera dei pagani devastano e distruggono ogni cosa" (ib.), e l'esortazione al loro asservimento va inteso come un'eccezionale concessione ai regnanti per fronteggiare la situazione.
Epoca moderna
Alle soglie dell'era moderna la schiavitù nell'occidente cristiano era finalmente scemata d'intensità. Tuttavia le esplorazioni verso l'Africa e l'America portarono popolazioni inermi a essere oggetto di sfruttamento da parte di schiavisti "cristiani": "Ci furono perfino dal numero stesso dei fedeli alcuni che, accecati in modo turpe dalla cupidigia di un sordido guadagno, in lontane e remore tere, ridussero in schiavitù indiani, negri e altri miseri, ovvero con un commercio istituito e allargato di coloro che erano stati fatti prigionieri da altri, non esitarono a favorire l'indegno misfatto di costoro" (Gregorio XVI, In Supremo, 1839). Nei secoli della cosiddetta tratta atlantica furono numerose le condanne papali.
Papa Eugenio IV con una bolla, indicata come Creator Omnium (con data 17 dicembre 1434) o Sicut Dudum (con data 13 gennaio 1435), prende le difese dei nativi (battezzati, neofiti e pagani) delle isole Canarie, da poco scoperte dagli iberici, che avevano iniziato a ridurli in schiavitù, e impone la liberazione degli schiavi pena la scomunica entro 15 giorni dalla conoscenza della lettera.
Le bolle di Papa Niccolò V Dum Diversas (16 giugno 1452) e Romanus Pontifex (8 gennaio 1454) rivolte al re del Portogallo Alfonso V (1438-1481) autorizzano il sovrano a ridurre in "perpetua schiavitù" le popolazioni pagane e saracene contro le quali i portoghesi si stavano battendo in Africa. Queste indicazioni sono in evidente contrasto con lo spirito evangelico e l'insegnamento cattolico precedente e successivo, ma vanno contestualizzate con l'energetica espansione islamica dell'epoca (cf. la caduta di Costantinopoli nel 1453).
La bolla Illud Reputantes (1° ottobre 1456) di Callisto III, come la precedente Creator Omnium (1434), condanna la riduzione in schiavitù di cristiani (ortodossi orientali) da parte di altri cristiani (occidentali, nella fattispecie genovesi), e similmente la bolla di Pio II Pastor Bonus (7 ottobre 1462) tutela i neofiti cristiani, ma anche gli infedeli, di Canarie e Guinea dai soprusi dei trafficanti portoghesi.
La bolla di donazione Ineffabilis et Summi Patris (1 giugno 1497) di Alessandro VI rappresenta un ridimensionamento della licenza già offerta alla riduzione in "perpetua schiavitù" delle popolazione incontrate dai portoghesi: viene ammesso l'assoggettamento (non la schiavitù) ma solo se queste lo vogliono.
Papa Paolo III col breve Pastorale Officium rivolto all'arcivescovo di Toledo Giovanni de Tavera (29 maggio 1537), condanna la riduzione in schiavitù degli amerindi da parte degli spagnoli, pena la scomunica:
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Prestando attenzione a che gli stessi Indiani, anche se sono al di fuori del grembo della Chiesa, non siano stati privati o non stiano per essere privati della loro libertà o del dominio sulle loro cose, poiché sono uomini e per questo capaci di fede e di salvezza, o a che non stiano per essere ridotti in schiavitù, [...] desiderando reprimere tanto infami misfatti di empi di tal fatta, [...] diamo mandato [...] affinché [...] sotto pena di scomunica come da sentenza pronunciata [...], con più grande severità tu impedisca che in nessun modo presumano di ridurre in qualsiasi modo in schiavitù gli Indiani di cui sopra, o di spogliarli dei loro beni » |
Contemporanea a questa bolla è la Sublimis Deus (o Veritas Ipsa, Paolo III, 2 giugno 1537), e dopo questi documenti sono stati molti i pronunciamenti pontifici che impongono la scomunica ai commercianti di schiavi, cristiani e non, la cui ricorrenza e numerosità è segno della effettiva scarsa efficacia delle condanne: Licet Omnibus (Pio V, 25 dicembre 1570); Postquam Nuper (Pio V, 21 dicembre 1571); Cum Sicuti (Gregorio XIV, 18 aprile 1591); Clemente VIII, 1605;[17] Commissum Nobis (Urbano VIII, 22 aprile 1639); Istruzione 230 (Innocenzo XI , 20 marzo 1686); Immensa Pastorum Principis (Benedetto XIV, 20 dicembre 1741); Istruzione 515 (Pio VI, 12 settembre 1776); In Supremo Apostolatus (Gregorio XVI, 3 dicembre 1839); Istruzione 1293 (Pio IX, 20 giugno 1866);[18] In Plurimis (Leone XIII, 5 maggio 1888); Catholicae Ecclesiae (Leone XIII, 20 novembre 1890); Lacrimabili Statu (Pio X, 7 giugno 1912).
Epoca contemporanea
Il Codice di Diritto Canonico del 1917 puniva la schiavitù includendola nei delitti "contro la vita, la libertà, la proprità, la buona fama e i buoni costumi". I laici che sono stati legittimamente condannati per omicidio, "rapimento di bambini di ambo i sessi, vendita di uomini in schiavitù" (can. 2354 §1) e altre azioni malvage, "devono essere automaticamente esclusi da qualunque azione ecclesiale e qualunque stipendio, qualora lo avessero nella Chiesa, con l'obbligo di riparare i danni". I chierici che hanno commesso gli stessi delitti (can. 2354 §2) devono essere puniti da un tribunale ecclesiastico "a seconda della diversa gravità del reato, con penitenze, censure, privazioni di uffici e benefici, titoli, e se il caso lo comporta, anche con la riduzione allo stato laicale".
Nel Codice di Diritto Canonico vigente (1983) si trova un accenno implicito alla schiavitù nella sezione dei "delitti contro la vita e la libertà umana": can. 1397:
« | Chi commette omicidio, rapisce oppure detiene con la violenza o la frode una persona, o la mutila o la ferisce gravemente, sia punito a seconda della gravità del delitto con le privazioni e le proibizioni di cui nel can. 1336. » |
Il can. 1336 stabilisce le pene che possono essere inflitte:
« | 1) la proibizione o l'ingiunzione di dimorare in un determinato luogo o territorio; 2) la privazione della potestà, dell'ufficio, dell'incarico, di un diritto, di un privilegio, di una facoltà, di una grazia, di un titolo, di un'insegna, anche se semplicemente onorifica; 3) la proibizione di esercitare quanto si dice al n. 2, o di farlo in un determinato luogo o fuori di esso; queste proibizioni non sono mai sotto pena di nullità; 4) il trasferimento penale ad altro ufficio; 5) la dimissione dallo stato clericale. » |
Nel Concilio Vaticano II si trova un accenno alla schiavitù in un lungo elenco di pratiche "vergognose" che ledono la dignità umana:
« | Scendendo a conseguenze pratiche di maggiore urgenza, il Concilio inculca il rispetto verso l'uomo: ciascuno consideri il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro «se stesso», tenendo conto della sua esistenza e dei mezzi necessari per viverla degnamente, per non imitare quel ricco che non ebbe nessuna cura del povero Lazzaro. Soprattutto oggi urge l'obbligo che diventiamo prossimi di ogni uomo e rendiamo servizio con i fatti a colui che ci passa accanto: vecchio abbandonato da tutti, o lavoratore straniero ingiustamente disprezzato, o esiliato, o fanciullo nato da un'unione illegittima, che patisce immeritatamente per un peccato da lui non commesso, o affamato che richiama la nostra coscienza, rievocando la voce del Signore: «Quanto avete fatto ad uno di questi minimi miei fratelli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40). Inoltre tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche; tutto ciò che offende la dignità umana, come le condizioni di vita subumana, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili: tutte queste cose, e altre simili, sono certamente vergognose. Mentre guastano la civiltà umana, disonorano coloro che così si comportano più ancora che quelli che le subiscono e ledono grandemente l'onore del Creatore. » | |
Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1994) condanna la schiavitù nella sezione sul settimo comandamento, "non rubare":
« |
Il settimo comandamento proibisce gli atti o le iniziative che, per qualsiasi ragione, egoistica o ideologica, mercantile o totalitaria, portano all'asservimento di esseri umani, a misconoscere la loro dignità personale, ad acquistarli, a venderli e a scambiarli come se fossero merci. Ridurre le persone, con la violenza, ad un valore d'uso oppure ad una fonte di guadagno, è un peccato contro la loro dignità e i loro diritti fondamentali. San Paolo ordinava ad un padrone cristiano di trattare il suo schiavo cristiano "non più come schiavo, ma [...] come un fratello carissimo [...], come uomo, nel Signore" (Fm 16 ) » | |
Sintesi teologica
Questi gli elementi teologici contro la schiavitù che possono essere colti nei vari pronunciamenti patristici ed ecclesiali:
- in origine Dio è il creatore di tutti gli uomini, che godono di pari capacità e dignità;
- il dominio dell'uomo sull'altro è conseguenza del peccato degli uomini;
- il sacrificio di Cristo ha liberato in egual misura tutti gli uomini dalla schiavitù del male;
- tutti gli uomini, anche gli infedeli, sono capaci della fede in Cristo;
- la schiavitù è un ostacolo alla conversione a Dio per la testimonianza negativa dei cristiani che offre.
Note | |
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Bibliografia | |
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