Prima lettera di Clemente

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La Prima lettera di Clemente ("I Clemente") è un testo attribuito a Papa Clemente I (88-97) scritto in lingua greca tra il 95 e il 98. Godette di una notevole fortuna al punto di essere considerata da alcuni Padri della Chiesa come un testo canonico, ma dalla tradizione successiva fu considerata come un apocrifo del Nuovo Testamento, incluso nella cosiddetta letteratura subapostolica. Secondo Eusebio di Cesarea l'autore è il quarto vescovo di Roma, dopo Pietro, Lino e Anacleto. Eusebio pensò che tale autore fosse il collaboratore al quale San Paolo allude in Fil 4,3 e data la Lettera tra il 92 e il 101[1].

Composizione

Gli elementi utili alla datazione dell'epistola tra il 95 e il 98, sono:

  • la sua contemporaneità all'apostolo Giovanni, del quale non conosce ancora né il Vangelo né l'Apocalisse; il suo uso della tradizione orale dei Vangeli sinottici (capitolo 42);
  • la tradizione tarda di un viaggio di Paolo in Spagna e i racconti delle morti di Paolo e Pietro fatti da qualcuno che non ha assistito personalmente agli eventi (cap. 5)[2];
  • l'importanza data alle nomine di vescovi e diaconi (42,1-5);
  • la morte dei presbiteri nominati dagli apostoli (44,2) e la fine di una seconda generazione di uomini di Chiesa (44,3);
  • la Chiesa di Corinto è definita "antica" (47,6), ma le manca ancora un vescovo che si occupi dei contrasti sorti;
  • gli inviati di Roma hanno vissuto come cristiani dalla loro gioventù alla loro vecchiaia (63,3);
  • la lettera è citata alla metà del II secolo da Egesippo e Dionisio di Corinto (in Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, 3,16, 4,22 e 4,23)

Il contesto di origine della lettera è legato a una disputa nella chiesa di Corinto, disputa che aveva spinto i membri giovani della comunità all'espulsione di diversi presbiteri anziani dal loro ufficio e la loro sostituzione con nuovi; nessuna offesa morale viene addossata ai presbiteri e la loro dimissione viene vista da Clemente come dispotica e ingiustificabile. Sulle cause della rivolta non c'è chiarezza, ma l'autore della lettera fa riferimento al fatto che i Corinti erano «contenti degli aiuti» (ephodios) «di Cristo» (2,1); questi aiuti (ephodia), secondo la testimonianza di Dionisio conservata in Eusebio (4.23.10), erano contributi che già anticamente la Chiesa di Roma versava in aiuto delle altre Chiese. Clemente sembra affermare che i giovani di Corinto erano insoddisfatti dei versamenti romani; inoltre è noto che le sommosse nelle chiese del I e II secolo avevano spesso ragioni economiche, e che il presbitero Valente fu deposto per "avarizia" (Policarpo, Ad Phil. 11).[2] È probabile che a deporre i presbiteri di Corinto fossero stati gruppi di gnostici. Già San Paolo aveva accennato a divisioni nella comunità di Corinto (1Cor 1,10-12;3,3-4 ).

Contenuto e stile

Dopo un resoconto elogiativo della condotta passata della Chiesa di Corinto, Clemente si addentra in una denuncia dei vizi e in una lode delle virtù, e illustra i suoi vari argomenti con copiose illustrazioni dalle scritture del Vecchio Testamento. Perciò egli spiana la strada al suo tardo rimprovero dei presenti disordini, che trattiene fin quando due terzi della sua epistola sono completati. Clemente è molto discorsivo, e la sua lettera raggiunge una lunghezza doppia rispetto alla Lettera agli Ebrei. Molte delle sue esortazioni generali sono indirettamente connesse con l'argomento pratico al quale è diretta la lettera, che molto probabilmente venne stilata basandosi ampiamente sulle omelie con le quali Clemente era solito edificare i suoi seguaci cristiani a Roma.

Secondo la lettera (1.7), la Chiesa di Roma, per quanto sofferente delle persecuzioni, venne fermamente tenuta assieme da fede e amore, ed esibì la sua unità in un culto disciplinato. L'epistola venne letta pubblicamente di tanto in tanto a Corinto, e per il IV secolo il suo uso si era diffuso ad altre chiese. La si trova allegata al Codex Alexandrinus (Codice Alessandrino), ma ciò non implica che raggiunse mai il rango canonico.

Il tono di autorità nella lettera è notevole, specialmente nelle ultime parti (56, 58 ecc.).

Dottrina

Exquisite-kfind.png Vedi la voce: Dottrina cristiana

Nell'epistola ci sono pochi insegnamenti dogmatici intenzionali, in quanto è quasi tutta esortativa. Le sue parole sul ministero cristiano diedero adito a discussioni (42 e 44): "Gli Apostoli ricevettero il Vangelo per noi dal Signore Gesù Cristo; Gesù Cristo fu inviato da Dio. Così Cristo proviene da Dio, e gli Apostoli da Cristo. Ambo le missioni perciò hanno origine dalla volontà di Dio... così, predicando dappertutto in campagna ed in città, nominarono i loro primi successori, essendo stati messi alla prova dallo Spirito, per essere vescovi e diaconi."

In ogni caso il significato generale è chiaro: gli Apostoli provvidero ad una successione legale di ministri. I Presbiteri sono menzionati molte volte, ma non c'è distinzione con i vescovi. Non c'è alcuna indicazione di un vescovo a Corinto, e le autorità ecclesiastiche vengono sempre citate al plurale. Rudolph Sohm pensa che, quando Clemente scrisse, ancora non c'era alcun vescovo di Corinto, ma che, in conseguenza della lettera se ne sarebbe dovuto nominare uno.

Il carattere liturgico di alcune parti dell'epistola è dettagliatamente sviscerato da Joseph Barber Lightfoot. La preghiera (59-61), che ricorda l'Anafora delle prime liturgie, non può essere vista, affermava Louis Duchesne, "come la riproduzione di un formulario sacro, ma è un eccellente esempio dello stile di preghiera solenne nel quale i capi ecclesiastici di quel tempo erano abituati ad esprimersi nelle riunioni per l'adorazione" (Origines du culte chretienne, III ed.). Il brano sulla creazione, 32-3, è nello stile di una prefazione, e si conclude introducendo il Sanctus con la solita menzione dei poteri angelici.

L'epistola nella letteratura

L'epistola di Clemente venne tradotta in almeno tre lingue in epoca antica: una traduzione del II secolo o del III secolo venne trovata in un manoscritto dell'XI secolo a Namur, in Belgio e pubblicata da Morin nel 1894; un manoscritto siriaco, oggi all'università di Cambridge, venne trovato da Robert Lubbock Bensly nel 1876, e venne tradotto nel 1899; ed una traduzione copta è sopravvissuta in due copie in papiro, una pubblicata da C. Schmidt nel 1908 e l'altra da F. Rösch nel 1910.

L'epistola venne pubblicata nel 1633 da Patrick Young che la trasse dal Codice Alessandrino, nel quale un foglio verso la fine era mancante, così che la grande preghiera (capitoli 55 - 64) rimase sconosciuta. Nel 1875 (sei anni dopo la prima edizione di Joseph Barber Lightfoot) Philotheus Bryennius pubblicò un testo completo proveniente da un manoscritto di Costantinopoli (datato 1055), dal quale nel 1883 trasse la Didaché. Lightfoot fece uso delle traduzioni in latino e siriaco in un'appendice alla ristampa della prima edizione (1877); la sua seconda edizione, sulla quale stava lavorando all'epoca della sua morte, venne pubblicata nel 1890. La monografia di Adolf von Harnack, Einführung in die alte Kirchengeschichte (Leiden, 1929), è considerata l'inizio degli studi moderni su quest'opera.

Note
  1. Nella sua Storia Ecclesiastica 3.15 e 34.
  2. 2,0 2,1 Laurence Welborn, The Anchor Bible Dictionary, volume 1, pp. 1059-1060.
Bibliografia
Voci correlate
Collegamenti esterni