Libro del Siracide
Libro del Siracide | |
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Gesù figlio di Sirach indicate un brano del Sir 2,10 . Miniatura dalla prima pagina dell'Ehrenbuch der Fugger (1545 -1549) | |
Sigla biblica | Sir |
Lingua originale | ebraico |
Autore | Anonimo |
Datazione | 180 a.C. ca. |
Luogo edizione | Gerusalemme |
Il Libro del Siracide (greco Σοφία Σειράχ, Sophía Seirách, "sapienza di Sirach"; latino Siracides), tradizionalmente noto anche come Ecclesiastico[1] è un testo sapienziale contenuto nella Bibbia cristiana (Settanta e Vulgata) ma non accolto nella Bibbia ebraica (Tanakh). Come gli altri libri deuterocanonici è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo.
È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 180 a.C. da "Gesù (o Giosuè) figlio di Sirach", poi tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.C.
È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Benché non sia stato accolto nel canone ebraico, il Siracide è citato frequentemente negli scritti rabbinici; nel Nuovo Testamento la lettera di Giacomo vi attinge molte espressioni e ancor oggi la liturgia si fa portavoce di questa antica tradizione di sapienza.
Autore
Sir rappresenta l'unico testo dell'Antico Testamento del quale è possibile identificare con certezza l'autore, un certo Gesù (Ἰησοῦς) figlio di Sirach:
- il titolo del libro è "Sapienza di Seirach" in alcuni manoscritti, "Sapienza di Gesù figlio di Sirach" in altri;
- nel prologo greco il traduttore accenna all'autore chiamandolo "mio nonno Gesù";
- in 50,27 (LXX) l'autore si indica come "Gesù, figlio di Sirach, figlio di Eleàzaro, di Gerusalemme". Il passo corrispondente ebraico ha la dicitura "Simone, figlio di Gesù, figlio di Eleazaro, figlio di Sirach", ma il nome Simone (incompatibile con le indicazioni del titolo e del prologo) è verosimilmente stato aggiunto erroneamente sulla base di 50,1. Poco seguita è l'ipotesi armonizzatrice presentata anche dalla Jewish Encyclopedia, secondo la quale il nome sarebbe Gesù, figlio di Simone, figlio di Eleazaro, figlio di Sirach.
Nel prologo l'anonimo nipote dell'autore spiega che tradusse il libro quando si trovò a soggiornare in Egitto, verosimilmente ad Alessandria, nel 38° anno del regno di Evergete (Tolomeo VIII Evergete II, detto Fiscone, che regnò in Egitto a più riprese a partire dal 170 a.C.), corrispondente al 132 a.C.. Suo nonno, Gesù ben Sirach, verosimilmente fu attivo verso il 190-180. Un argomento interno conferma questa data: Ben Sirach cita il sommo sacerdote Simone (verosimilmente Simone II, morto nel 200 c.a) facendone un elogio ricco di ricordi personali (50,1-21).
Oltre agli accenni del testo e del prologo, autore e traduttore non ci sono noti da altre fonti storiche coeve. L'analisi degli insegnamenti del testo (cf. dopo) può però permettere di ipotizzare, oltre a una residenza in Gerusalemme, una certa agiatezza economica dell'autore, e la devozione mostrata per il culto del tempio, la legge e il sommo sacerdote Simone ne fanno supporre un'appartenenza alla classe sacerdotale. Questi elementi, assieme ad altri come l'escatologia terrena di Sir, hanno identificato Gesù ben Sirach come una sorta di sadduceo ante-litteram.
Testo
Girolamo afferma di aver avuto tra le mani una copia del testo ebraico (PL 29,404), ma in seguito in occidente il testo ebraico originale andò perduto. Fino al 1900 ca. di Sir era nota solo la traduzione greca, oltre a quella in altre lingue antiche. Il testo greco ci è pervenuto in 2 versioni, una breve (Gr I),[2] che costituisce il testo ufficiale, e una lunga (Gr II) con 150 vv. aggiuntivi.[3]
Nel XX secolo, in differenti circostanze (genizah del Cairo, Qumran e Masada), sono stati ritrovati complessivamente 2/3 del testo in ebraico: 1.100 distici sui 1.616 del testo greco breve.[4] Anche i testimoni del testo ebraico appartengono a due diverse versioni.
Secondo l'ipotesi proposta inizialmente da Rüger (1970),[5] i testimoni più antichi (Masada e Qumran, I sec. a.C. - I sec d.C.), con testo più breve, sono relativi all'opera originaria poi tradotta ad Alessandria (Gr I). I testimoni più tardivi (genizah del Cairo, XI-XII sec.) riportano una versione riveduta in senso farisaico e con stile vicino alla Mishnà, forse tra 50 e 150 d.C., poi tradotta in greco tra il 130 e 215 d.C. (Gr II). La versione ebraica breve fu adottata dalla Peshittà, mentre la versione greca lunga fu adottata nella Vetus latina (poi inclusa nella Vulgata) e dalla Siroesaplare.
versione breve: Ebr I -----> Gr I (LXX) ----> Peshittà (190-180 a.C.) (132 a.C.) | (inizio IV sec.) | | |---------------------------------------------------------------- | versione lunga: ------------------------> Ebr II ----> Gr II -----------------------> Siroesaplare (50-150 d.C.) (130-215 d.C.) | (VII sec.) | --> Vetus latina (II sec.)
Struttura
Nella forma, il libro è certamente nella linea dei suoi predecessori e modelli. Alcune sezioni appaiono coerenti e unitarie, come la parte che celebra la gloria di Dio nel creato (42,15-43,33) e nella storia (44,1-50,29). In generale però i temi più disparati sono affrontati senza un preciso ordine logico e con qualche ripetizione. Questo un possibile schema:[6]
- prologo del traduttore;
- cc. 1-23: massime varie, con alcuni brani dedicati alla sapienza (1,1-10; 4,11-19; 6,18-37; 14,20-15,10) e un inno alla creazione (16,24-17,12);
- cc. 24-42,14: massime varie, con l'autopresentazione della sapienza all'inizio di sezione (24,1-32) e alcuni passi centrati sul saggio (24,30-34; 37,16-26; 39,1-11);
- cc. 42,15-50,21: elogio della sapienza, che si manifesta nella natura (42,15-43,33) e nella storia d'Israele (44,1-50,21);
- cc. 50,22-51,30: conclusione, con esortazione finale (50,22-24), proverbio numerico (50,25-26), epilogo (50,27-29), preghiera di ringraziamento (51,1-12), poemetto acrostico (51,13-30). Il testo ebraico di quest'ultimo brano è stato trovato in una grotta di Qumran, inserito in un manoscritto del salterio; questa scoperta conferma che, prima di essere unito al Siracide, è esistito a parte.
Stile
Lo stile di Sir è molto variegato, sia quanto a forme letterarie che quanto a vocabolario.[7]
Quanto alle forme, è predominante l'ammonizione, cioè l'esortazione sia positiva che negativa. È poi presente il proverbio (in particolare il proverbio numerico), i giochi di parole, le similitudini, indovinelli, macarismi, descrizioni di tipi umani, cenni autobiografici, controversie, inni, poemetti, prosopopee, minacce, lamentazioni, ringraziamenti. Quanto al vocabolario, esso appare spesso figurato, con riferimenti ad animali, piante, minerali, mondo della natura in genere, azioni umane, vestiti, oggetti vari.
Contenuto
Prospettiva teologica
La Giudea dell'epoca risentiva dell'influsso ellenista, che lungo il III secolo a.C. diede origine a una corrente filo-ellenista (classe aristocratica, sia laica che sacerdotale) e a una corrente anti-ellenista (popolo, basso clero) che sfocerà nella ribellione dei Maccabei (167-164 a.C.). In tale contesto, alcuni studiosi collocano Sir verso l'area antiellenista (Smend, Sisti, Di Lella, Hengel), altri lo vedono come una mediazione tra la cultura greca e quella giudaica (Lévi, Pautrel, Marböck, Middendorp). Secondo Minissale, Sir si colloca in una posizione quasi neutrale: "Ci sembra in realtà che Ben Sira rimanga ancorato fondamentalmente alla tradizione giudaica, ma cerca di capire dall'interno di essa, pur non evitando qualche tono polemico, certe istanze della cultura ellenistica del suo tempo".[8]
Nello specifico, è possibile ravvisare un confronto con alcune correnti filosofiche elleniste. Per lo stoicismo il cosmo è retto dal logos divino, razionale e panteistico, al quale l'uomo deve uniformarsi. Questo universalismo cosmico è in contrasto con la credenza dell'elezione del popolo d'Israele. Riflessioni in tal senso sono ravvisabili (cf. Paurel) circa l'ideale della dignità umana (41,14-42,8), l'unità del cosmo (43,27) e dell'umanità (36,1-4.17). L'epicureismo invece persegue un'etica razionale, frutto di equilibrio interiore e assenza di dolore e inquietudine, che riecheggia in 14,11-16; 30,21-23; 31,27-29. Altri paralleli possono essere identificati con autori greci tragici: Middendorp identifica circa 100 passi di Sir, ma non è possibile dimostrare una dipendenza diretta.
Il principale sfondo teologico di Sir è però l'AT: secondo le indicazioni esplicite dell'anonimo nipote nel prologo, il nonno "si è dedicato lungamente alla lettura della legge, dei profeti e degli altri libri dei nostri padri, e avendovi conseguito una notevole competenza, fu spinto a scrivere qualche cosa riguardo all'insegnamento e alla sapienza, perché gli amanti del sapere, assimilato anche questo, possano progredire sempre più in una condotta secondo la legge". Il siracide denuncia polemicamente gli eccessi filoellenisti (1,12; 2,12-14.18; 3,21-24) e, identificando la sapienza con la legge, rivendica orgogliosamente il primato del popolo ebraico nell'umanità (cf. la carrellata storica in 40,1-50,21).
Legge, culto e sapienza
Caratteristica peculiare di Sir, che manifesta la sua visione ebraico-centrica, è la coincidenza tra legge e sapienza, che non è solo un ammonimento fatto da uomo a uomo. La sapienza proviene dal Signore, suo principio è il timore di Dio (1,9-18; 19,18; 31,1-2; 21,11). Le innovazioni di Ben Sira stanno nell'identificazione della sapienza con la legge proclamata da Mosè, cosa che farà anche il poema sapienziale di Baruc (3,9-4,4). Per quanto la sapienza, la cui sintesi è la cura del prossimo (17,12-14), sia diffusa in tutta la creazione (1,7-10), è solo al popolo d'Israele che viene donata la legge (24,8-12.23), sua diretta ed esplicita manifestazione.
A differenza dei predecessori, Sir integra dunque la sapienza nella corrente legalista. Vede l'osservanza della legge in una pratica perfetta del culto del tempio, raccomandando i sacrifici e il mantenimento del clero (7,29-31; 35,1-10; 45,6-26; 50,1-21), al contempo mettendo in guardia contro il culto ipocrita (34,18-26).
Al contrario dei saggi antichi, Ben Sira riflette anche sulla storia sacra (44,1-49,16). Riflette sulle grandi figure dell'Antico Testamento da Enoch fino a Neemia. Su tre di loro, Salomone (il primo saggio), Roboamo e Geroboamo, pronuncia lo stesso severo giudizio della storia deuteronomica e, al pari di questa, condanna in blocco tutti i re, esclusi Davide, Ezechia e Giosia. Ma è fiero del passato del suo popolo, in particolare si sofferma sui santi e ricorda le opere meravigliose che Dio ha compiuto tramite loro. Con Noè, Abramo, Giacobbe, Mosè, Aronne, Pincas, Davide, Dio ha concluso un'alleanza che riguarda tutto il popolo, ma che assicura privilegi duraturi a determinati casati, soprattutto sacerdoti. In realtà, gli sta a cuore l'onore del sacerdozio: nella sua rassegna di antenati dà un posto privilegiato ad Aronne e a Pincas, e termina con l'elogio entusiasta d'un contemporaneo, il sommo sacerdote Simone. Pensando al presente evoca le glorie del passato con una certa melanconia e augura, a riguardo dei Giudici e dei profeti minori, che "le loro ossa rifioriscano dalle tombe" (46,12; 49,10), che abbiano successori. Egli scrive alla vigilia della rivolta dei Maccabei; se l'ha pure vissuta, ha potuto pensare che il suo voto sia stato esaudito.
Ben Sira, in questa storia sacra, mentre mette in rilievo la nozione di alleanza, non dà per così dire spazio alcuno alla speranza in una salvezza futura. E' vero che nella preghiera di 36,1-17 ricorda a Dio le sue promesse e gli domanda di aver pietà di Sion e di riunire le tribù di Giacobbe. Ma questa espressione di nazionalismo profetico è una eccezione nel Siracide. Da vero saggio sembra che anch'egli si sia rassegnato alla situazione umiliante ma tranquilla, a cui il popolo era stato ridotto: spera in una futura liberazione, ma questa sarà la ricompensa della fedeltà alla legge, non tanto l'opera d'un Messia salvatore.
Teodicea ed escatologia
Riguardo al male e al destino dell'uomo, Sir ha le stesse incertezze di Giobbe e del Qoèlet. Prende atto dell'esistenza del male, considerandolo (in maniera ottimistica ed epicurea) componente ineludibile della vita, in costante ed armoniosa associazione col bene (29,14.19; 32,15; 33,14-15; 37,18; 39,24-27; 42,25). Peculiare è la difesa della libertà umana, 15,11-20. Sir crede nella retribuzione, sente la tragica importanza del momento della morte, ma ancora non sa come Dio ricompenserà ciascuno secondo le proprie azioni. Anche sulla natura della sapienza divina (24,1-22) ripresenta le intuizioni dei Proverbi di Giobbe. Ammette l'esistenza degli inferi, lo scheòl (14,12.16; 17,27; 41,4; 48,5; 51,5.6), ma alla maniera greca e veterotestamentaria lo considera come una sopravvivenza vaga e penosa. L'escatologia è dunque immanente, è in questa vita che Dio premia i giusti e punisce gli empi, con la benedizione o la malattia (1,11; 38,15): si tratta di una soteriologia terrena e senza messia, alla maniera dei sadducei neotestamentari.
Morale sociale
Quanto alla morale sociale, Sir espone i suoi detti all'insegna di prudenza, moderazione, armonia, evitando eccessi sotto diversi ambiti:[9] nel parlare (5,9-6,1), nel cibo (31,12-31), nelle passioni (6,2-4), nelle ambizioni (4,29-5,8), nel dolore (38,16-23). Importante è però anche l'elemosina (3,29-30; 4,6.10; 17,17; 29,12; 40,24) e la cura dei genitori anziani (3,3-6.8.14-16).
L'escatologia terrena di Sir dovrebbe portare a vedere la ricchezza come segno evidente della benedizione divina, come accadeva per i patriarchi. L'autore è però critico verso i rischi della ricchezza (4,7.27; 7,4-6; 13,1-11), affermando che è meglio una dignitosa povertà vissuta nella salute (29,22; 30,14-16). Elogia anche l'attività intellettuale dello scriba (38,24-34; 39,1-11).
Quanto ai legami sociali, Sir si colloca in una visione androcentrica verso i figli (30,1-13; 42,5), le figlie (22,3-4; 42,9-13), gli schiavi (33,25-33; 42,5). La buona moglie viene elogiata (9,1-9), ma può esserci anche il caso della cattiva moglie (25,12-18), e in genereale vi sono insistenti richiami contro le seduzioni delle donne (19,2; 25,20; 26,9.12; 41,22-24; 42,14).
Canone
Siracide fa parte dei cosiddetti libri deuterocanonici (con Tb, Gdt, 1Mac - 2 Mac, Bar e Sap), cioè dei testi dell'Antico Testamento composti in epoca pre-cristiana che però non sono stati accolti nel canone ebraico, definito verso la fine del I secolo d.C. (cf. l'ipotetico Concilio di Jamnia). L'esclusione del testo va forse ricondotta al fatto che ai rabbini ebrei doveva apparire di stampo sadduceo. Nonostante questo, nei secoli successivi Sir ha avuto una grande influenza nella tradizione rabbinica, venendo citato nel Talmud, in commentari e nel pensiero di studiosi ebrei.
Nel Nuovo Testamento non viene citato espressamente, ma riecheggia in alcuni passi della lettera di Giacomo (cf. Sir 1,11 - Gc 1,20 ; Sir 5,11 - Gc 1,19 ; Sir 28,22 - Gc 3,6 ; Sir 29,10 - Gc 5,3 ). Diversamente da altri padri, Girolamo non lo considerò ispirato e non ne curò la traduzione per la sua Vulgata, dove è stata inclusa la precedente versione della Vetus latina.
Nella liturgia cattolica contemporanea viene citato per la descrizione della sapienza.
Note | |
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Bibliografia | |
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Collegamenti esterni | |
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