Eremita diocesano
|
L'eremita diocesano professo o consacrato è un eremita (vedi Voce) di fatto, chierico o laico, che a un certo punto ha voluto e potuto emettere la professione pubblica dei tre consigli evangelici ordinari nelle mani del suo Vescovo diocesano. Egli vive in una relazione di dialogo e di fiducia con il Vescovo (e con il suo delegato), che è per lui la guida di riferimento nell'esercizio dei diritti e dei doveri del suo stato di vita. In questo modo l'eremita diocesano professo vive il suo carisma ascetico e contemplativo, che è carisma profetico, per esplicito mandato del Vescovo. ”La Chiesa infatti, riconoscendo la vita eremitica, se ne fa custode e guida mediante il ministero di cura e di accompagnamento del Vescovo diocesano. A lui compete di riconoscere e di rispettare i singoli carismi, di promuoverli e coordinarli.” (Orientamenti2021 §28a).[1]
Ha scritto mons. Domenico Sorrentino Vescovo di Assisi:
« | Il carisma non è una meteora che interessa tangenzialmente la vita della Chiesa particolare: è un evento ecclesiale che la coinvolge... Esso è una "parola" detta da Dio anche alla Chiesa a cui il carismatico appartiene, come, a un altro livello, alla Chiesa universale. Esso entra nella gratia loci, intendendo con questa espressione quel corredo di grazie speciali che la Chiesa particolare... ha ricevuto e che costituisce il suo patrimonio spirituale. » | |
(Domenico Sorrentino, Vita consacrata e Chiesa particolare. Teologia ed esperienza, Cittadella Editrice, Assisi 2015, p. 15)
|
”Il Vescovo nella sua carità pastorale e a suo prudente giudizio accoglierà il carisma della vita eremitica come grazia che non riguarda soltanto la specifica vocazione di un battezzato, ma contribuisce all'edificazione di tutta la Chiesa.” (Orientamenti2021 §28c).
Questo Magistero ordinario quindi non limita l'eremitismo diocesano a un rapporto speciale tra l'eremita e il suo Vescovo, ma riguarda la formazione graduale di tutto il popolo diocesano a una visione profetico-ascetica della vita.
L'ecclesialità dello stato di vita dell'eremita diocesano fu formulata dapprima dal Codice di Diritto Canonico (CJC) nel Canone 603 §2, dal Catechismo della Chiesa Cattolica al n° 921 e dalla Esortazione Apostolica Vita consecrata ai n.ri 7 e 47; il tutto descritto nella Voce Eremita. Si aggiungano gli Orientamenti2021 (v.nota 1).
Discernimento vocazionale e formazione
Per carattere e per Tradizione, un eremita di fatto o di voti privati non insegue ansiosamente il riconoscimento pubblico del proprio stato di vita. Egli lascia le ratificazioni canoniche al grado di sollecitudine apostolica dei sacri pastori che lo conoscono. La chiamata che lo ha spinto al di là dei paradigmi di questo mondo, lo custodisce nell'abbassamento kenotico come un fertile concime sotterrato e nascosto nel giardino della Chiesa (Lc 17,10 ; Gal 6,3 ). Viene però un giorno non cercato nel quale la sua guida spirituale, il suo parroco o altri sacerdoti, gli consigliano di informare personalmente il Vescovo sulla propria scelta di vita, se essa si protrae da qualche anno e lo ha reso testimone di molte o di tutte le fasi di un cammino ascetico, in modo che l'eremita "di fatto" possa offrire alla Chiesa l'occasione di esercitare il diritto che essa ha di esaminare una sacra Vocazione, anche alla luce delle pregresse esperienze spirituali, affettive, formative e sulla sensibilità di appartenenza alla Chiesa, di quell'eremita.
”La vocazione alla vita eremitica, che i maestri della vita monastica hanno abitualmente presentato come via eccezionale in riferimento alla sua radicalità, esige un attento discernimento circa la verifica delle attitudini personali e dell'idoneità ad assumerne gli impegni. La vita in solitudine infatti [...]può essere occasione di prove, disagi, imprevisti, che richiedono di essere affrontati con senso di equilibrio e di responsabilità.” (Orientamenti2021 §30).
”Il Concilio Vaticano II e il Magistero successivo [...]hanno ribadito che la formazione non può essere circoscritta a selezionati ambiti e limitati periodi, ma è esperienza quotidiana della sequela Christi, che coinvolge la totalità della persona per custodire il dono della fedeltà e crescere nella gioia della perseveranza” (Orientamenti2021 §30). ”L'esperienza maturata lungo la storia di questa vocazione, suggerisce che, a quanti ne avvertono l'inclinazione, venga richiesto un tempo di discernimento e di formazione in un monastero o altra comunità di vita consacrata sotto la guida di una persona esperta; oppure incontri programmati con la persona o le persone incaricate dal Vescovo ad accompagnare con continuità un cammino formativo specifico. L'obiettivo è quello di una formazione che riguardi tutti gli aspetti più rilevanti dell'impegno umano, spirituale, culturale, relazionale. In questa prospettiva, l'eremita non mancherà di dare particolare rilievo ad un programma di formazione continua, adeguata al suo stato di vita. Sarà quindi necessario mantenere aperto un confronto e una verifica con la guida spirituale e con il Vescovo diocesano, che seguiranno l'evoluzione e la maturazione del cammino. In particolare, l'eremita attingerà alla grande eredità spirituale dei Padri del deserto e al patrimonio della tradizione cristiana, al Magistero e alla testimonianza dei Santi.” (Orientamenti2021 §31).[2]
In ogni caso è essenziale il principio ascetico secondo il quale, in una formazione continua, che dev'essere spirituale, il quotidiano stupore mistico dell'eremita non va offuscato dalla preoccupazione di mostrare garanzie culturali. L'eremita non deve insegnare Religione nelle scuole: se anche fosse dotto in teologia o sempre partecipe a convegni che rompono il suo tipico silenzio, ma poi non vivesse la povertà di spirito (v. sotto, "Voto di povertà") farebbe un pessimo servizio alla Chiesa in quanto segno illeggibile. Piuttosto egli impara ad usare di quella saggezza cattolica popolare che fa "...spontaneamente percepire quando il Vangelo è al primo posto nella Chiesa o quando esso è svuotato del suo contenuto e soffocato da altri interessi" (Evangelii nuntiandi 48 e CCC n°1676): egli deve essere uno "scuoiatore di apparenze". Per conseguenza l'eremita saprà vigilare affinché la propria formazione permanente non sia imprigionata in uno scadenziario amministrativo, indifferente alla sua singolare sensibilità. Il vero eremita ha intelletto non erudito ma sapienziale, ha parola verticale e occhio profetico e percepisce l'invisibile nel visibile. Il glutine della sua vera formazione continua, sa rispondere alla domanda di Cristo:
« | Potete bere il calice che io bevo o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato? » | |
L' ammissione alla vita eremitica consacrata
Riguardo all'ammissione, gli Orientamenti2021 si servono delle norme usuali per l'ammissione negli Istituti religiosi "mancando una disciplina specifica" (§32a); lacuna che in futuro dovrà essere colmata.[3]
In buona sostanza si opera una verifica anzitutto sulla salute fisica, sull'equilibrio psico-affettivo, sulla sufficiente maturità e sull'indole adatta (§32b). Utile aggiungere che l'indole ha due componenti: il temperamento, o insieme delle tendenze ereditate geneticamente e il carattere, cioè il risultato psichico delle interazioni ambientali. C'è chi rimane schiavo del proprio temperamento per tutta la vita, ma la ragione e la volontà, doni di Dio, possono far raggiungere scopi elevati come ad esempio purificazione e discernimento, formando così la personalità matura, che adatta i propri ideali alla realtà esterna. Un aspirante eremita che fosse incline a egotismo, a permalosità, a maldicenza, a faziosità, mostrerebbe di non aver raggiunto la maturità psicologica e spirituale necessaria a ogni tipo di vita consacrata.
Tale maturità viene confermata anche dall'aver attraversato "notti dei sensi e dello spirito", cioè tribolazioni incise per sempre nella memoria, specialmente emarginazioni e maldicenze: "Su chi volgerò lo sguardo? Sull'umile e su chi ha lo spirito contrito" (Is 66,2 ); "Le tribolazioni non solo non distruggono la speranza, ma ne sono il fondamento" (San Giovanni Crisostomo, Sulla Lettera ai Romani, 9,2). Perché "Non tutti i santi cominciarono bene, ma tutti hanno finito bene" (J.M.Vianney Santo Curato d'Ars) e "Ogni santo ha avuto un passato e ogni peccatore ha un futuro" (Papa Francesco).
A questo punto va tenuto conto, caso per caso, dell'età del candidato alla consacrazione eremitica "...da stabilirsi in relazione alle sfide e alle esigenze richieste dalla vita solitaria" (Orientamenti2021 §32). La comunione ecclesiale postula il santo abbandono in Dio anche sul progredire dell'età e sulle situazioni che ricordano la drammaticità e la precarietà dell'esistenza. Va dunque ponderata non tanto la prestanza fisica quanto l'esperienza e la maturità umana dell'aspirante, che crescono con l'età. Pertanto non pare saggio stabilire un'età massima di ammissione uguale per tutti, come usa nelle società sportive; piuttosto è prudente stabilire un'età minima. È bene meditare sulla circostanza che i maggiori esempi di santità e discernimento furono storicamente offerti dagli eremiti in età così avanzata da esser chiamata "veneranda": "...ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno" (2Cor 4,16 ). Dai Padri della Chiesa e del deserto fu sempre constatato come, genericamente, fosse prematura l'età giovanile per scelte permanenti di vita eremitica, con vagliate eccezioni per alcuni chierici.
Si passa quindi a considerare la sua vicenda biografica, eventuali esperienze in precedenti àmbiti formativi diocesani o di vita religiosa e i motivi di un avvenuto abbandono, spontaneo o imposto. Va aggiunto quanto sia utile che un aspirante laico abbia visitato Case Religiose sia di vita contemplativa che di vita attiva, abbia affrontato in passato discernimenti vocazionali assistiti e abbia collaborato in attività parrocchiali. Se i candidati sono stati membri di un Istituto di vita consacrata, viene chiesto il parere scritto del Superiore maggiore.
Da ultimo si accerta che l'eremita non abbia debiti o altre pendenze, sia di carattere civile che penale che canonico.
Per approfondire, vedi la voce Eremita |
La professione dei consigli evangelici
Consacrare, cioè "rendere sacra" una cosa o una persona, significa sottrarla all’uso profano e destinarla esclusivamente al culto di Dio. ”Gli eremiti che scelgono di consacrare l'intera esistenza a Dio mediante i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, con la professione pubblica nelle mani del Vescovo diocesano, con voto o altro vincolo sacro, sono riconosciuti [...]nello stato di vita consacrata.” (Orientamenti2021 §33b).[4] ”L'atto liturgico pubblico presieduto dal Vescovo diocesano, con il quale l'eremita emette la professione dei consigli evangelici [...]può aver luogo in una chiesa della diocesi [...]oppure nella chiesa della parrocchia in cui si trova l'eremo o nella chiesa dell'eremo stesso...” (Orientamenti2021 §37a). ”Qualora l'eremita volesse indossare un abito segno della sua consacrazione, lo deciderà in accordo con il Vescovo.” (Orientamenti2021 §37b).[5]
Il consiglio di castità impegna alla continenza perfetta nel celibato (inteso anche come nubilato). Il/la fedele che abbia ottenuto la sentenza di nullità del proprio matrimonio è considerato celibe o nubile. Va ricordato che la storia dell'eremitismo cristiano tramanda casi di anziani coniugi eremiti che condussero vita nel deserto osservando la continenza perfetta. Casti si diventa. La castità è un'offerta sacrificale a Dio, perché loda il Signore non solo con la mente ma anche col corpo, non solo con la bocca ma anche con l'affettività, e può far sentire nascostamente una musica e una danza che prende il cuore, fino a far male per la gioia. Chi la prova lo sa. Il voto comporta altresì la pratica dell'ascesi, la diffidenza di sé nelle tentazioni, la custodia dei sensi e del cuore e la mortificazione (Orientamenti2021 §34). La mortificazione è la molla del fervore secondo San Tommaso e consiste nella preghiera di espiazione dei peccati, nel digiuno (CCC 2043) anzitutto dal peccato ma vedasi anche Is 58,6-7 e nell'elemosina (CCC 2447). La mortificazione è ridurre all'inerzia di un morto (2Cor 4,10 ) ogni concupiscenza. Per Sant'Agostino era lo sforzo per crescere nella capacità di amare come Cristo; per San Benedetto consisteva nell'umiltà.[6]
Il consiglio di povertà si traduce in povertà di fatto e in povertà di spirito (Orientamenti2021 §35 e Can.600 CIC).
Povertà di fatto: ”Il consiglio di povertà comporta la dipendenza e la limitazione nell'uso e nella disposizione dei beni; stabilisce inoltre in quale modo l'eremita rende conto della propria gestione economica al Vescovo, con riferimento sia ai proventi delle attività lavorative, sia a quanto l'eremita percepisce da altre fonti...” (Orientamenti2021 §39e) ad esempio elemosine, donazioni ed eredità. ”La vita dell'eremita si caratterizza [...]per un'operosa sobrietà ed estraneità alle ricchezze terrene e per l'impegno nella comune legge del lavoro [...]Ordinariamente, l'eremita si mantiene con un lavoro compatibile con le esigenze della vita eremitica, in particolare la solitudine e la preghiera. [...]Il Vescovo diocesano, prima dell'accoglienza in diocesi e dell'eventuale professione, avrà cura di accertare quali risorse assicurino all'eremita un adeguato sostentamento, i reali mezzi di sussistenza, la copertura sanitaria e la previdenza sociale; qualora si presentasse l'esigenza di ricorrere ad ulteriori risorse, l'Ordinario la valuterà a suo prudente giudizio” (Orientamenti2021 §40).
Povertà di spirito: essa comprende la semplicità, la sobrietà e l'austerità di vita (Orientamenti2021 §35b). Bisogna aggiungere che per un eremita e un anacoreta comprende soprattutto: mitezza, mansuetudine, operare nel nascondimento senza ricevere onore, occupare il posto più basso fra tanti, non cercare il proprio interesse ma quello degli altri, portare con serena gratitudine la propria croce, sentire di essere in debito con tutti, concepire se stesso in termini di gratuità e non di tornaconto, anelare ai beni che non passano a cui tutti siamo chiamati, cercare solo la volontà di Dio e non la propria, la sua amicizia e non quella di persone influenti (Ger 17,5-7 ), accogliere serenamente per questi scopi le purificazioni che Dio permette, riponendo in Dio una fiducia senza limiti e quindi accettare il mistero, preferire il silenzio, non conoscere l'ansia.
Il consiglio di obbedienza impegna l'eremita diocesano "...a dipendere dal Vescovo suo legittimo Superiore, secondo il progetto di vita." (Orientamenti2021 §36). Quindi la prima obbedienza va esercitata verso il Progetto di vita approvato: esso è un bene da amare, perché il Signore ci ha lavorato molto sopra per offrirlo alla Chiesa. Fin dall'eternità Egli ha disposto che sorgesse tale pianta nel suo giardino: ogni Norma o Progetto di vita è un laborioso disegno di Dio e l'eremita è solo un piccolo punto di quel disegno. "... nel progetto si esplicitano gli orientamenti che devono essere sottoposti al discernimento e alla decisione del Vescovo diocesano, quale legittimo Superiore; viene inoltre stabilita la linea da seguire nelle relazioni con il Vescovo e gli impegni nei confronti della diocesi. Se l'eremita è vincolato ai voti, devono essere stabiliti preferibilmente nel progetto: la durata dei periodi di assenza dall'eremo[7]; l'inserimento o servizio nell'ambito diocesano [...]in quali casi sia richiesta l'autorizzazione del Vescovo." (Orientamenti2021 §39f,g; v. la Sezione successiva "Progetto di vita"). Il Vescovo ha un interesse pastorale e paterno nel facilitare l'obbedienza, sia ispirando fiducia nella propria sincerità, sia nel rendere trasparenti i propri desideri. Può anche stimolare la discussione comune di un problema importante, in vista dell'elaborazione di un piano d'azione condiviso; a volte le osservazioni in contrario sono provvidenziali, quando un anziano eremita offre il consiglio di una propria lunga esperienza diretta, che può scongiurare un grave inconveniente futuro.
Progetto di vita e apostolato dell'eremita diocesano consacrato
Va chiarito che il Progetto di vita di un eremita, non essendo univoco per tutti gli eremiti, è anzitutto il Progetto di vita di Dio per quell'eremita; il quale eremita dunque, a Dio deve rivolgersi per capire cosa gli chiede. Riguardo a questa vocazione specialissima, un Progetto di vita non vuol costringere in una forma angusta un'ascesi così particolare (idioritmica) come quella eremitica. "La Chiesa desidera rendere grazie per questa «perla preziosa» (Mt 13,44)..." (Orientamenti2021 §1c). Il Progetto vuol svelare piuttosto una perla preziosa da proteggere in una forma, come un'ostrica, dato che senza un guscio non può crescere una perla. Esso quindi deve presentare ”...in modo sobrio ed essenziale gli elementi spirituali e normativi della specifica identità vocazionale. [...]Nell'elaborazione del progetto di vita -redatto in conformità al diritto universale e particolare, al Magistero e alla tradizione della vita eremitica- [...]l'eremita puntualizza gli obblighi e gli impegni derivanti dall'assunzione/professione dei consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza mediante voto o altri vincoli sacri. [...]In particolare, nel progetto si esplicitano gli orientamenti che devono essere sottoposti al discernimento e alla decisione del Vescovo diocesano, quale legittimo Superiore; viene inoltre stabilita la linea da seguire nelle relazioni con il Vescovo e gli impegni nei confronti della diocesi. Se l'eremita è vincolato ai voti, devono essere stabiliti preferibilmente nel progetto: la durata dei periodi di assenza dall'eremo; l'inserimento o servizio nell'ambito diocesano; l'eventualità di tempi e spazi per l'accoglienza e l'ospitalità; in quali casi sia richiesta l'autorizzazione del Vescovo. A tal fine, risulta opportuno che l'eremita interessato alla stesura del progetto e il Vescovo diocesano chiamato ad approvarlo, si avvalgano della consulenza di persone esperte, capaci di giudicare la reale congruità tra i valori sanciti e le esigenze proprie della vita eremitica. La prudenza ecclesiale suggerisce di procedere per gradi, ricorrendo anche all'approvazione ad experimentum del progetto, per un determinato periodo prima dell'impegno definitivo. Col trascorrere degli anni è possibile che si renda necessaria una revisione; in tal caso le modifiche saranno sottoposte al Vescovo per la necessaria approvazione.” (Orientamenti2021 §39).[8]
L'essenza della vocazione eremitica non consiste nella continua collaborazione all'azione pastorale attiva: consiste nel combattimento "nel deserto" in un respiro contemplativo, esercitando l'apostolato della preghiera e della penitenza, con fastidio verso l'effimero e il superfluo. Consiste in un esempio evangelico di vita che ha a cuore la trasmissione testimoniale della fede, che si spende nell'adorazione dell'Assoluto, che affonda nel suo mistero sotto il segno della gratuità e senza umano compenso. Questa grazia quindi, "...di una più rigorosa (artiore) separazione dal mondo..." (Can.603 CIC), va rispettata al pari di quella dei membri degli Istituti interamente dediti alla contemplazione, i quali "...per quanto urgente sia la necessità dell'apostolato attivo...non possono essere chiamati a prestare l'aiuto della loro opera nei diversi ministeri pastorali" (Can.674 CIC). ”Nel caso dell'eremita presbitero, l'esercizio pastorale del ministero sacerdotale deve essere occasionale e non prevalente; per tale ragione anche il Vescovo s'impegna a tutelare la peculiare vocazione dell'eremita e a non considerarlo a piena disposizione delle esigenze pastorali della Chiesa locale.” (Orientamenti2021 §40b). Criterio che mutatis mutandis, dovrebbe vigere anche per l'eremita laico, in quanto il Magistero non prevede per gli eremiti la tradizionale figura monastico-cenobitica del “fratello converso”.
D'altro canto, un eremita diocesano consacrato non è un anacoreta recluso, non è un 'hikikomori' e l'eremo non è un rifugio di persone accidiose, perciò egli stesso non vuole assolutizzare la solitudine, non vuole porre condizioni difensive allo Spirito Santo, ma accetta di vivere la vita di Nazareth a imitazione di Cristo, di proclamare la Parola di Dio nell'assemblea (Lc 4,16-17 ) e di lavare i piedi agli amici (Gv 13,4-15 ), rimanendo aperto alle imprevedibilità dello Spirito dovunque decida di condurlo per compiere un'opera di misericordia. L'astenersi da una carità necessaria e richiesta, non potrebbe risultare spiritualmente fruttuoso se diventasse una frustrazione irrimediabile per chi ha bisogno di ricevere quella carità: se lo sguardo di un eremita non esprime fraternità verso chiunque, si può star certi che quegli occhi non contemplano Dio.
L'eremita, ”...accolto in una diocesi, non può dirsi “estraneo” alla sua vita, al territorio in cui abita, ad una storia di santità incarnata in tradizioni spirituali e pastorali, alle istituzioni di una concreta comunità.” (Orientamenti2021 §29a).
L'allontanarsi dal mondo infatti, vale nella Chiesa solo nella misura in cui questa condizione dilata il cuore nella carità (1Cor 13, 2-7 ) e il frutto della carità è il servizio nella gratuità. Il vincolo sacro dell'obbedienza al Vescovo permette di provvedere a necessità ecclesiali urgenti, che possono avvalersi della collaborazione di un eremita in alcuni àmbiti consoni alla sua vocazione.
Anche un eremita professo laico, se anziano e preparato, può essere invitato da alcuni fedeli a svolgere servizi nella Chiesa particolare o all'ascolto e all'accompagnamento spirituale in gruppi di preghiera o in associazioni di diritto pontificio, ripercorrendo così una santa e celebre tradizione testimoniale del deserto. Ove non fossero disponibili diaconi permanenti, l'eremita laico, su mandato vescovile, può guidare liturgie della Parola di Dio in assenza di celebrazione eucaristica.
Non fa bene a un eremita diocesano che intercede nella preghiera, ignorare quanto accade nella sua diocesi, nella sua nazione e nel mondo, perché egli partecipa alle speranze e alle delusioni della Chiesa (Gaudium et Spes 1. Cfr. Vita consecrata 39, Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II).
In ogni caso del resto -come ogni eremita sa- presto o tardi il suo volto diventa pubblico e il contemplativo si scopre "contemplato" dai curiosi, che vogliono vedere se anche in una piatta realtà sensibile, lui sappia conservare la gioia del Tabor (gioia: Gv 15,11 ; Fil 4,4 ).
L'eremo urbano o di città
Vi sono sempre stati eremiti sia nelle campagne, che sui monti, che nelle città: il loro eremo infatti, prima che un luogo geografico, è una condizione interiore. Il requisito sostanziale di un eremo consiste nello stato del cuore di chi lo abita in appartata quiete, umile e adorante, anche nei momenti di ricreazione; non consiste in un luogo disabitato e impervio, circostanza accidentale e suggestiva ma non costitutiva, come non è costitutiva la presenza nell'eremo di una foresteria. Il deserto o eremo è qualunque luogo di penitenza e nascondimento che venga scelto da Dio per organizzare il combattimento spirituale annunciato in Ef 6,10-18; Gal 5,16-25; 1Gv 2,15-17; Gc 1,12. Lì si eleva un fronte di resistenza a ciò che è "carnale", cioè egotistico: alla vanagloria, all'utilitarismo, al pregiudizio.
L'eremita laico (secolare) fu sovente unico arbitro sulla scelta del proprio domicilio o eremo, perché Dio stesso l'ha deciso per lui. Un esempio agiografico celebre è quello di Santa Caterina da Siena, grande penitente e mistica fin dall'infanzia, eremita di città in casa propria e Terziaria domenicana.
Si dice eremita urbano l'eremita che ha il proprio eremo in una città, grande o piccola, a volte offerto dal Vescovo, altre volte in un appartamento che fu la casa paterna, senza alternative praticabili. La città oggi è un luogo vero della solitudine moderna e del combattimento contro i nuovi demòni. In essa gli eremiti percorrono la via che San Giovanni Climaco eremita e abate, e altri Padri della Chiesa chiamarono Regale (Basiliké Odos) ossìa un'alternanza fra la continua solitudine orante e qualche breve uscita per collaborare in un servizio ecclesiale. Si tratta di un tipo di eremiti convinti che il sale e il lievito vadano messi ben dentro la pasta e non accanto ad essa, che una lampada vada ogni tanto posta sul tavolo e non sotto (Mt 5,13-16; 13,33 ); quindi proprio nel tessuto della vita diocesana e parrocchiale "...dono di sé non come nascondimento dagli uomini, ma come nascondimento in mezzo agli uomini" (Orientamenti2021 §10b). In tal modo questi asceti superano lo stereotipo profano dell'eremita inteso come uno strano misantropo o come un raro aneddoto di santità inimitabile in qualche landa agreste, conosciuto solo da chi è andato faticosamente a scovarlo. Questa scelta, ponderata con il direttore spirituale e con altri eremiti, dev'essere descritta nel Progetto di vita insieme ai suoi effetti (ad esempio la maggior facilità per l'eremita laico di città nel partecipare alla Messa quotidiana).[9]
Può sembrare che in una città non si goda un perfetto silenzio esteriore ma, così come per l'eremo rurale, il silenzio vero è nel cuore; può sembrare che in città ci siano troppe distrazioni dannose alla contemplazione, ma il pericolo non sta nelle tentazioni, che anzi un eremita aspetta per combattere il maligno, ma sta nella volontà che consente o rifiuta; in città manca l'immersione in un idillico ambiente agreste, il quale però, può non essere salubre o conveniente per tutti. A un eremita è adatto solo il luogo che il Signore preferisce per lui, suggerito da molti segnali e indizi. Se la chiamata di Dio è per una collocazione urbana, sarà accompagnata dalla grazia necessaria. La preziosa e silente ascesi in una città, ricorda che il silenzio occorre alla vita interiore di tutti, oggi specialmente in zone urbane, e che in essa l'eremita testimonia a tutti, in modo facilmente conoscibile, la provvisorietà del tempo presente.
Gli eremiti di città, sempre esistiti ma in grande crescita nei tempi moderni, abbracciano con determinazione le mortificazioni legate alla loro vocazione, sia prevedibili che imprevedibili. Essi, nel loro eremo urbano, si sottopongono a una faticosa formazione penitenziale e sulle virtù cristiane, impartita casualmente proprio da quei cittadini che si mostrano ostili alla fede o allo stile ascetico di vita. Costoro infatti inducono gli eremiti a guardare in faccia la loro vera inclinazione, l'umiltà o l'orgoglio, a dare un nome a cosa si muove davvero nel loro cuore e a collaudare così il loro cammino testimoniale, in modo più efficace di quanto oserebbe imporre un inflessibile superiore religioso. Il Padre del deserto Abba Zosima, uno dei maestri di San Doroteo di Gaza, soleva dire:
Chi ha offerto a santo Stefano la sua gloria, se non quelli che l'hanno lapidato?...così si può guadagnare da tali maldicenti quanto abbiamo perduto a causa di quelli che ci lodano. |
Alle persone consacrate è chiesto di offrire la loro testimonianza con la franchezza del profeta, che non teme di rischiare anche la vita. | ||
(Vita consecrata 85-86)
|
.
Note | |
| |
Bibliografia | |
| |
Voci correlate | |
Collegamenti esterni | |
|