Missione ad gentes
|
La missione ad gentes è una delle dimensioni dell'attività della Chiesa; essa risponde al mandato di Cristo espresso in Mt 28,19-20 .
La missione è un aspetto essenziale della fede cristiana in quanto crede il messaggio di Cristo di importanza universale e considera tutte le generazioni della terra come oggetto della volontà salvifica e del disegno di salvezza di Dio o, in termini neotestamentari, considera il "regno di Dio" che è venuto in Gesù Cristo come destinato a tutta l'umanità[1].
La missione ad gentes
« | si distingue dalle altre attività ecclesiali, perché si rivolge a gruppi e ad ambienti non cristiani per l'assenza o insufficienza dell'annunzio evangelico e della presenza ecclesiale. Pertanto, si caratterizza come opera di annunzio del Cristo e del suo Vangelo, di edificazione della chiesa locale, di promozione dei valori del Regno. » | |
Uso del termine missione
Spiritualità della missione | ||||||
|
La realtà della missione ad gentes è stata sempre presente nella storia della Chiesa anche se il termine "missione" riferito in senso tecnico all'opera di evangelizzazione in ambienti non ancora cristianizzati risale al XVI secolo[3].
Prima dell'uso di "missione" la Chiesa si servì di altre espressioni per indicare la stessa realtà: "Dilatatio fidei", "Propagatio fidei", "Evangelii Praedicatio", "ministerium Verbi", "Procuratio salutis", "Convocatio gentium", "Praedicatio apostolica"[4]. Parallelamente, per indicare i "missionari" si usarono queste espressioni: "operarii aut ministri Sancti Evangelii", "peregrinantes pro Christo", "nuntii evangelii", "proficiscentes ad infedeles convertendos", "ministri Christi in gentibus" ecc.[5]
Gli storici spiegano l'inizio dell'utilizzo del termine "missione" facendo riferimento a Ignazio di Loyola che propone alla Compagnia di Gesù il "voto de las misiones", cioè la disponibilità dei suoi membri ad accettare qualsiasi destinazione e compito o "misión" in qualsiasi luogo o territorio o "división". In effetti il termine negli scritti di Ignazio era sinonimo di "obbedienza" e indicava l'invio da parte dell'autorità competente e il luogo dove svolgere tale incarico, senza nessuna specificazione, però, circa il luogo o i destinatari[6].
Progressivamente all'interno stesso della Compagnia si iniziò ad applicare il termine "missione" ai ministeri che implicavano una distanza dal luogo di residenza e un accentuato dinamismo apostolico che spingeva all' itineranza[7].
Il termine già agli inizi del 1600 uscì dall'ambito della letteratura gesuitica e si diffuse velocemente, fino al punto che "missioni" sarebbe equivalso a "missioni estere", in particolare attraverso i carmelitani riformati i quali nella riflessione su quali direzioni dare alla loro riforma si interrogavano sugli aspetti contemplativi e apostolici della riforma teresiana. Padre Giovanni di Gesù Maria, ad esempio, scrisse tra il 1604 e il 1605 ben tre opere sulla missione[8] e il padre Tommaso di Gesù diffuse il termine fuori dall'ambito carmelitano con le sue due opere Stimulus missionum sive de Propaganda a religiosis per universum orbem fidem (Roma 1610) e De procuranda salute omnium gentium (Anversa 1613).
L'accoglienza ecclesiale del termine dipese dai legami che i padri carmelitani ebbero con la curia pontificia[9]. Nel 1599 Clemente VIII aveva istituito una Commissione di nove cardinali che doveva gestire i problemi della missione e della conversione degli eretici[10]; in questa iniziativa non solo i carmelitani furono presenti ma fu carmelitano Pietro della Madre di Dio, il "superintendens missionum" o segretario generale per incarico del quale Giovanni di Gesù Maria scrisse i suoi lavori. Anche per questi motivi il termine "missione" entrò nel linguaggio pontificio: Paolo V lo utilizzò nella bolla di erezione della Congregazione di S. Paolo apostolo per le missioni (Onus pastoralis officii, del 22 luglio 1608). La Congregazione de Propaganda Fide, sorta nel 1622, utilizzerà il temine "missioni" in un significato comprensivo della conversione dei pagani e degli eretici e della pastorale straordinaria presso i cattolici (missioni popolari, ad esempio)[11].
« | Il termine "missione", preso dal contesto e dal significato fornito dai gesuiti, fu utilizzato quindi per indicare l'apostolato iniziale presso i paesi non credenti in Cristo. (..) È proprio in questo periodo dei primi anni del XVII secolo che il termine missione acquista il suo diritto di cittadinanza nella terminologia ecclesiastica per designare le nostre odierne missioni estere. » | |
(Walter Insero, La chiesa è "missionaria per sua natura" (AG 2): origine e contenuto dell'affermazione conciliare e la sua recezione nel dopo Concilio, Roma 2007, 37.)
|
Così si esprime Bosch inserendo il termine nel contesto del suo inizio e della sua prima diffusione:
« | Il nuovo termine, "missione", è legato indissolubilmente, dal punto di vista storico, all'epoca coloniale e all'idea di un incarico magisteriale. Il termine presuppone una chiesa stabilita in Europa che invia delegati a convertire i popoli d'oltremare e costituisce, in quanto tale, un fenomeno collaterale all'espansione europea. » | |
(David Bosch, La trasformazione della missione. Mutamenti di paradigma in missiologia, Brescia 2000, 321.)
|
Storia
La storia della missione ad gentes si intreccia e si confonde con la storia stessa della Chiesa[12]. Le opere di storia delle missioni dell'Ottocento, risentendo eccessivamente del metodo apologetico, furono più attente alla celebrazione delle glorie dei missionari piuttosto che alle informazioni documentarie[13]. Grazie alla facoltà di Missiologia di Münster nel 1924 fu prodotto il primo lavoro scientifico ("secondo le fonti") di parte cattolica sulla storia delle missioni a opera di Joseph Schmidlin[14] seguito da altre opere scientifiche impostate secondo l'ordine cronologico e geografico delle missioni[15]. Recentemente la storia delle missioni è stata affrontata con un'impostazione più teologica in opere di missiologia che privilegiano l'analisi di "modelli" o "paradigmi" missionari rispetto alla scansione geografica e cronologica[16].
Dal I al III secolo
Per approfondire, vedi la voce Storia della Chiesa del I secolo |
Negli anni immediatamente successivi alla Pasqua l'impegno missionario della chiesa primitiva fu indirizzato principalmente a Israele anche se non mancarono proseliti provenienti dai gentili.
La comunità di Antiochia, soprattutto grazie all'opera di Paolo e Barnaba, aprì già intorno al 40 le prospettive della missione cristiana a una dimensione universale accogliendo senza distinzioni ebrei e gentili. Le tensioni con la Chiesa di Gerusalemme circa il ruolo dei gentili furono chiarite nel cosiddetto Concilio apostolico (o Concilio di Gerusalemme) (47 o 48). La guerra giudaica (66-70) e la distruzione di Gerusalemme (70) portarono a un progressivo irrigidimento del giudaismo farisaico che rese prima difficile la partecipazione dei giudeo-cristiani alla vita della sinagoga e infine, intorno all'85, impossibile dopo la promulgazione delle Diciotto benedizioni che anatemizzavano i cristiani e gli eretici[18]. La missione della Chiesa primitiva, dunque, pur non dimenticando la necessità della missione ai Giudei e la priorità permanente di Israele, si rivolse prevalentemente ai gentili.
La veloce diffusione del cristianesimo avvenne per "osmosi" affidata alla predicazione itinerante e alla spontaneità dei normali rapporti personali e sociali dei singoli cristiani[19]:
« | I missionari più numerosi non furono i maestri di perfezione, ma spesso i più semplici tra i cristiani con lo spettacolo di fedeltà e di forza che essi davano al mondo » | |
(Adolf von Harnack, Missione e propagazione del cristianesimo nei primi tre secoli, Cosenza 1986, 276 (orig. tedesco 1902).)
|
In questo primo periodo della storia della Chiesa l'attività missionaria fu spontanea, nel senso che nasceva dalla naturale esigenza di comunicazione della fede cristiana e nel senso che non c'era nessuna tattica predisposta di proselitismo. Le persecuzioni e il martirio più che indebolire o frenare l'espansione cristiana la rinvigorirono conferendo ancor di più agli occhi dei pagani un'autorevolezza che veniva dalla testimonianza dell'amore universale. Il frutto di questa prima espansione missionaria fu la nascita di comunità cristiane che si rendevano progressivamente autonome con la costituzione di una propria gerarchia.
Dal IV al XIII secolo
Con il riconoscimento ufficiale e la libertà di culto promossa da Costantino e Teodosio la Chiesa fece i conti col massiccio ingresso di neofiti dovuto all'identificazione tra cristianesimo e impero. In un impero ormai ufficialmente cristiano si fece strada la necessità di raggiungere i popoli estranei all'impero[20].
Per approfondire, vedi la voce Evangelizzazione dei popoli germanici |
L'evangelizzazione e le conversioni dal IV secolo in poi non furono più il risultato di testimonianza personale e persuasione. Si trattò, soprattutto per i popoli germanici, di conversioni di massa conseguenti alla conversione dei capi. La stretta unione fra la vita dello Stato e il culto religioso, che caratterizzava questi popoli, fece sì che la loro conversione al cristianesimo non fosse solo un atto religioso, ma anche un atto sociale e politico.
Il primo popolo germanico che abbracciò il cristianesimo (di matrice ariana, però) durante la sua migrazione verso l'area mediterranea fu quello dei Visigoti. Un altro popolo, la cui conversione segnò la storia dell'Europa, è quello dei Franchi, grazie al battesimo di Clodoveo I. I Longobardi si convertirono grazie soprattutto al papa Gregorio Magno. Particolarmente lunga e ardua fu l'evangelizzazione dei Sassoni, contro i quali Carlo Magno combatte un'atroce guerra, iniziata nel 772 e conclusa solo oltre trent'anni dopo.
Per approfondire, vedi la voce Evangelizzazione dei popoli slavi |
Per quanto riguarda l'evangelizzazione dei popoli slavi, essa avvenne in un contesto di concorrenza tra l'impero greco e il nuovo impero proclamato da Carlo Magno. Le missioni di Cirillo e Metodio, che fin dall'inizio ebbero come destinazione Roma, intendevano ricomporre la piena unione visibile tra le Chiese di Roma e Costantinopoli.
L'iniziativa fu assunta dai principi e dall'imperatore, l'adesione al cristianesimo dei quali aveva una rilevanza sociale, civile e religiosa insieme. II potere politico imponeva la nuova fede con lo stesso criterio con il quale emanava le leggi dello Stato.
La scelta del modello occidentale di cristianesimo o, all'opposto, di quello orientale esprimeva, così, la volontà di aderire all'una o all'altra sfera d'influenza politica.
Per approfondire, vedi la voce Storia del monachesimo occidentale |
Se l'opera di cristianizzazione dei popoli germanici e slavi vide protagonisti i principi e il potere politico sotto la responsabilità del Papa e si realizzò con metodi militari e coercitivi, l'evangelizzazione vera e propria fu opera del monachesimo:
« | Anche se le comunità monastiche non erano intenzionalmente missionarie (cioè create avendo per scopo la missione), erano permeate da una dimensione missionaria. Anche senza saperlo e senza proporselo intenzionalmente, la loro condotta era totalmente missionaria. » | |
(David Bosch, La trasformazione della missione. Mutamenti di paradigma in missiologia, Brescia 2000, 328.)
|
Il monachesimo dal V al XII secolo salvò il cristianesimo dalle ambiguità che l'alleanza con il potere civile comportò per la Chiesa medioevale[21].
Un ruolo significativo per la missione ebbe il monachesimo irlandese (o celtico), San Colombano, in particolare. Il monachesimo benedettino condivise con quello celtico una forte enfasi escatologica e, pur essendo più realistico, si impegnò in imprese esplicitamente missionarie in maniera ancora più significativa dei monaci celtici.
Fu il papa benedettino Gregorio Magno, in effetti, il primo a concepire una "missione estera" pianificata mandando il monaco Agostino tra i pagani inglesi.
L'incontro tra il monachesimo celtico e quello benedettino diede vita a un monaco missionario, Bonifacio di Crediton, che riuscì a unire la predicazione itinerante a una solida organizzazione ecclesiastica[22].
In questo periodo della storia della Chiesa e della storia delle missioni uno dei principali problemi storiografici è l'analisi degli strumenti coercitivi usati per la diffusione del cristianesimo[23]. Il testo biblico di riferimento[24], usato esplicitamente o implicitamente per giustificare la coercizione al battesimo di pagani e giudei fu Luca 14,23: «Compelle intrare» ("E costringeteli a entrare") usato in questo senso per la prima volta da Agostino nella controversia donatista (in riferimento, però, agli apostati e non ai pagani). Se inizialmente la coercizione escludeva l'uccisione e si riferiva ai soli apostati, piano piano si fece strada, soprattutto con Gregorio Magno, l'idea di una "guerra giusta" (bellum justum) che preparasse indirettamente il terreno per la missione ai pagani. La guerra di Carlo Magno contro i Sassoni (772-804) fu la conseguenza di una progressiva teorizzazione del confuso legame tra religione e politica. Una volta battezzati, i Sassoni andavano incontro alla pena di morte se ritornavano alla loro fede tradizionale: era infatti inconcepibile per la mentalità dell'epoca credere alla loro lealtà politica se era in dubbio la loro lealtà religiosa. La "Capitulatio de partibus Saxoniae", d'incerta datazione, forse del 782, testimonia la violenta severità con la quale Carlo Magno intervenne nei confronti della religione tradizionale del popolo conquistato. La coercizione nell'attività missionaria non fu un fatto isolato ed estremo, perché la si userà ancora per molti secoli[25]; nella cristianizzazione della Norvegia, ad esempio, a opera di Olav II di Norvegia alla fine del decimo secolo e nella sottomissione della Sassonia orientale nel dodicesimo secolo.
Le crociate si collocano in questo contesto, anche se il loro scopo non fu "missionario" ma di difesa della Terra Santa, anzitutto e quindi dei territori cristianizzati, dall'aggressiva espansione islamica[26].
Nella Chiesa di questo periodo ci furono, però, anche figure e stili di missione che rifiutarono la violenza e la coercizione in materia di fede. Esemplare è la posizione di Alcuino di York il quale, ad esempio, cercò di mitigare e consigliare Carlo Magno circa i metodi di cristianizzazione dei popoli sottomessi; in una sua lettera così si esprime con chiarezza: «Absque fide quid proficit baptisma? Dicente apostolo: Sine fide impossibile placere Deo» (Senza la fede a che serve il battesimo? Dice infatti l'apostolo che senza la fede è impossibile essere graditi a Dio)[27]. Nelle missioni dei monaci celtici e benedettini, poi, solo pochi di loro fecero tentativi di convertire con la forza[28].
In questo periodo, la Chiesa subì una serie di profondi mutamenti:
« | Dalla condizione di piccola minoranza perseguitata passò a quella di organizzazione grande e influente; da setta molestata si tramutò in vessatrice di sette; ogni legame fra il cristianesimo e il giudaismo venne spezzato; si sviluppò una stretta relazione fra trono e altare; l'adesione alla Chiesa diventa una cosa data per scontata; il ministero del credente fu in gran parte dimenticato; il dogma venne definitivamente fissato e portato a compimento; la Chiesa si adattò alla lunga posticipazione del ritorno di Cristo; il movimento missionario apocalittico della Chiesa primitiva cedette il passo all'espansione del cristianesimo » | |
(David Bosch, La trasformazione della missione. Mutamenti di paradigma in missiologia, Brescia 2000, 333.)
|
La predicazione missionaria itinerante
Per approfondire, vedi la voce Predicazione missionaria itinerante |
Intorno all'anno mille la storia delle missioni registra un certo indebolimento dell'azione missionaria dovuto alle complesse condizioni della Chiesa di quel periodo (interferenze politiche, lotta per le investiture, feudalesimo ecc.). Si era fatta strada, inoltre, la convinzione che ormai l'Europa fosse già cristiana. Quello che restava da fare era difendersi dall'invasione islamica e cercare di espandersi agli estremi confini del nord Europa.
I primi fermenti in grado di scuotere la struttura fortemente sclerotizzata delle istituzioni ecclesiastiche, ormai del tutto inserite nell'organismo della società feudale, si manifestarono verso la metà dell'XI secolo a opera di movimenti popolari evangelicali. Lo stesso movimento di riforma della chiesa, noto con il termine complessivo di riforma gregoriana, dovette il suo successo, almeno nella sua fase iniziale, all'appoggio di vasti movimenti popolari.
La dimensione missionaria della Chiesa di questo periodo vide protagonisti soprattutto questi movimenti popolari guidati da personalità carismatiche che iniziarono a predicare ideali religiosi di riforma ecclesiastica e che si distinguevano per l'affermazione della povertà evangelica e per la predicazione itinerante[29]. Accanto a esperienze ortodosse (ad esempio Roberto d'Arbrissel e Norberto di Prémontré), ci furono anche manifestazioni religiose di tipo ereticale (ad esempio Bogomili, Patarini, Catari, Valdesi ed Umiliati).
Di fronte a questi fermenti la gerarchia ecclesiastica reagì con varie condanne a partire dalla decretale Ad abolendam diversarum haeresium pravitatem approvata da Lucio III alla Dieta di Verona il 4 novembre 1184.
Il fatto che questi movimenti di predicatori fossero di diversa ispirazione portò Innocenzo III a una diversa reazione nei confronti dei vari gruppi rafforzando la repressione nei confronti di coloro che erano esplicitamente eretici e cercando di contenere i movimenti pauperistici-evangelici riconducendoli all'obbedienza cattolica.
In questo contesto la Chiesa gerarchica promosse la vocazione missionaria alla predicazione itinerante di Francesco d'Assisi e di Domenico di Guzman per far fronte alla predicazione itinerante degli eretici, soprattutto catari e albigesi. Il XIII secolo vide, con la fondazione degli Ordini mendicanti, quindi, un rilancio dell'azione missionaria che fu caratterizzata dalla responsabilità diretta del Papa e dalla itineranza nelle nascenti città, tra gli eretici e i dissidenti.
Oltre alle missioni contro gli eretici, i Mendicanti si interessarono della questione musulmana affrontandola in modo diverso dall'impostazione "crociata" del tempo. Sia i Domenicani che i Francescani si resero conto che il metodo armato delle Crociate poteva difendere la Chiesa ma non convertire l'Islam. Per la conversione sarebbe stato necessario un approccio diverso: bisognava comprendere l'Islam, acquistarne la fiducia, replicare ai suoi argomenti e alla sua teologia con ragioni valide[30]. Esemplari di questo nuovo stile furono Raimondo di Peñafort, domenicano, che organizzò una scuola per le lingue arabe e che sollecitò Tommaso d'Aquino a comporre la Summa contra Gentiles (destinata ai cristiani e agli stessi missionari per avere argomenti adatti nelle dispute coi musulmani) e il terziario francescano Raimondo Lullo che patrocinò la causa missionaria dello studio delle lingue orientali per arrivare a conoscere meglio il mondo medio orientale e il musulmanesimo[31].
Dal XV al XVIII secolo
Nella seconda metà del XV secolo le nuove scoperte geografiche resero evidente alla Chiesa che esistevano ancora territori per i quali era necessaria la cristianizzazione. Quest'opera di cristianizzazione fu affidata ai Regni cattolici del Portogallo e della Spagna.
Con la bolla Romanus Pontifex di Nicolò V, del 1454, la Inter coetera (13 marzo 1456) di Callisto III e la Aeterni dirigete di Sisto IV (21 giugno 1481), il papato legittimava con fini religiosi le conquiste dei portoghesi in Africa e nelle "Indie". Dopo l'impresa di Cristoforo Colombo del 1492, però, papa Alessandro VI risolse pacificamente la vertenza geografica e politica tra Spagna e Portogallo con una serie di bolle: la prima, [[Inter coetera (3 maggio 1493)|Inter coetera]], datata 3 maggio 1493, fu una bolla di donazione, in quanto il pontefice concedeva ai sovrani spagnoli Ferdinando e Isabella le terre scoperte o da scoprire verso l'India. Il giorno dopo promulgò la seconda bolla, sempre chiamata [[Inter coetera (4 maggio 1493)|Inter coetera]], di spartizione, poiché tracciava una linea in cui assegnava i territori alle due Corone (la linea di demarcazione fu poi modificata con il trattato di Tordesillas). Con la Eximiae devotionis, sempre del 4 maggio, Alessandro VI concesse ai re di Castiglia e d'Aragona gli stessi privilegi pontifici riconosciuti anteriormente al Portogallo tra il 1454 e il 1481. A questi documenti seguirono i brevi Pii fidelium, del 23 giugno 1493 e Dudum si quidem, del 25 settembre dello stesso anno.
La Universalis Ecclesiae Regimini del 1508 di Giulio II investiva il re di Spagna di compiti apostolici fino a farne il suo delegato per la missione. L'investitura simile, per il Portogallo, fu fatta da papa Leone X, nel 1514, con la Pro excellenti praeeminentia[32].
Questi privilegi da parte del papato concessi ai sovrani portoghesi e spagnoli sempre in cambio dell'impegno a cristianizzare i territori occupati, portarono alla teoria del patronato regio (o vicariato regio) secondo il quale i re diventavano vicari del papa e assumevano piena autorità sulle chiese dei nuovi territori, fino a diventarne patroni. Concretamente i re di Spagna e Portogallo conferivano i benefici ecclesiastici, erigevano parrocchie e diocesi definendone i confini, controllavano e autorizzavano le partenze dei missionari in base alla nazionalità e alla lealtà politica. Il patronato portò fino al punto che gli stessi interventi del Papa non avevano valore nei territori di missione se non dopo l'approvazione regia. I re si sentivano investiti di una missione divina, ma la motivazione religiosa dell'attività missionaria da loro organizzata era evidentemente viziata da implicazioni politiche e commerciali.
Le missioni americane
Per approfondire, vedi la voce Evangelizzazione delle Americhe |
I primi missionari che partirono per le Americhe agirono senza metodo nel tentativo di cristianizzare gli indigeni. All'inizio si trattò, in effetti, di una missione frettolosa e superficiale che utilizzava come strumenti il "requerimiento" e l'"encomienda".
Il "requerimiento" era una intimazione fatta agli indigeni ad accogliere la fede cristiana e a sottomettersi alla chiesa, al papa e al re, sotto la minaccia della guerra.
La "encomienda" era la struttura giuridica in base alla quale un "encomendero" riceveva il diritto di colonizzare un territorio e di commerciare con gli indigeni. Questi diritti erano molto vasti: comprendevano insieme a permessi commerciali, anche aspetti amministrativi, militari e religiosi per cui l'"encomendero" aveva il diritto di stabilire divisioni territoriali, di fondare città, di regalare territori ai propri dipendenti, di battere moneta, di dispensare giustizia e altro. Si trattava di un sistema feudale che permise uno spietato sfruttamento coloniale.
Solo successivamente si pensò la missione sul modello apostolico: occorrevano apostoli semplici, virtuosi e liberi da ambizioni e per questo si pensò agli ordini mendicanti, francescani, domenicani, agostiniani e mercedari.
Questi missionari seguirono il metodo della "tabula rasa": nella convinzione che le nuove terre costituissero un mondo dove l'opposizione alla fede e alla morale cristiana era assoluta ne conseguiva la necessità di distruggere ogni forma idolatrica per poter poi instaurare la fede[33].
Saranno i missionari della seconda e della terza generazione a ricorrere a metodi più evangelici e più fruttuosi con l'istituzione della "doctrina", della "congregación" e delle "reducciónes". Le "doctrinas" erano centri di istruzione, quasi delle scuole, che prestavano particolare attenzione alla istruzione religiosa; le "congregaciones" erano delle comunità che dovevano servire a favorire la conversione ma che, pur prefiggendosi di impedire la disgregazione delle comunità indigene, operavano secondo gli schemi e i valori occidentali.
Diverse furono le "reducciónes", che intendevano costruire una società ordinata e giusta, un mondo nuovo quale base di incontro tra il vangelo e la vita degli indigeni.
Lo stretto legame tra l'azione missionaria e quella politica alimentò diffidenza e ostilità verso i missionari e portò, infine, a uno scontro tra le ragioni socio-politiche della conquista e gli ideali dell'evangelizzazione[34]. La colonizzazione fu una forma di brutale conquista, emblematicamente segnata dal dramma della schiavitù. Nel 1537 il papa Paolo III autorizzò l'apertura del mercato degli schiavi di Lisbona; questo avvenne nonostante che, quello stesso anno con la bolla Veritas ipsa, lo stesso papa avesse ribadito, contro ogni obiezione, che gli indiani - cioè gli indigeni delle indie occidentali - erano anch'essi "veri homines".
Non mancarono, in questi contesti confusi, voci che seppero denunciare gli abusi dei "conquistadores" nei confronti delle popolazioni indigene (Matias Paz, Antonio de Montesinos, Bartolomé de Las Casas, Francisco de Vitoria, ad esempio).
Le missioni africane
Per approfondire, vedi la voce Evangelizzazione degli antichi regni africani |
Il continente africano aveva già conosciuto fin dal I secolo il cristianesimo soprattutto nelle regioni settentrionali e in quelle della Nubia e dell'Etiopia[35].
Nel XV secolo iniziò la propagazione del cristianesimo nelle zone costiere grazie al re portoghese Enrico (1394-1460) il quale, nello spirito della "riconquista", decise di affrontare i saraceni sui loro territori. Evidentemente la "riconquista" portoghese aveva anche e soprattutto motivi economici.
Nel 1452 il papa Nicolò V lo autorizzò a conquistare i territori dei musulmani e dei pagani e lo riconfermò nel 1454 con la bolla Romanus Pontifex nella quale assegnava al Portogallo il diritto a tutte le future conquiste a sud di Capo Bojador "fino alle Indie". Questi privilegi furono affiancati in campo religioso dalla bolla [[Inter caetera (13 marzo 1456)|Inter coetera]] di Callisto III il quale concesse "per sempre" la giurisdizione ecclesiastica all'Ordine del Cristo nella persona del Gran Priore di Tomar. Dopo la morte di re Enrico il Papa acconsentì che la guida dell'Ordine fosse affidata al re del Portogallo così che anche la giurisdizione ecclesiastica passò alla corona.
Il cristianesimo portato in Africa dai navigatori e commercianti portoghesi tra il XV e il XVI secolo non attecchì, anche se in alcune zone i tentativi missionari andarono avanti fino al 1632 (data dell'espulsione dei gesuiti dall'Etiopia dove era stato tentato per circa 150 anni un avvicinamento della Chiesa etiope a quella romana), al 1807 (nel caso del Regno di Warri), al 1835 (nel caso del Regno del Kongo - corrispondente all'attuale Congo e Angola, dell'Impero di Mwene Mutapa - cioè le regioni degli attuali Zimbabwe e Mozambico - e della missione di Luanda). Nell'Africa orientale l'attività missionaria fu limitata alle aree islamizzate delle città-stato (ad esempio Malindi, Kilwa, Sofala, Mombasa, Barawa, Faza, Pate, Lamu, Zanzibar non andò oltre qualche iniziale tentativo d'evangelizzazione. Di tutti questi tentativi l'unico storicamente rilevante fu quello nel regno del Kongo grazie alla sincera conversione e all'opera di cristanizzazione di re Alfonso[36].
Il fallimento delle missioni portoghesi in Africa fu dovuto a vari motivi: la mancanza di una forza missionaria stabile e numerosa dovuta al clima malsano e alle malattie tropicali; l'identificazione tra patronato regio portoghese e la "Conquista" che portò a confondere, anche agli occhi degli indigeni, l'attività missionaria e quella politica, i difetti del metodo missionario che impedirono l'integrazione del Vangelo nella vita e nelle culture locali e infine - e soprattutto - il commercio degli schiavi al quale parteciparono attivamente i missionari portoghesi[37].
Le missioni in Asia
Per approfondire, vedi la voce Evangelizzazione dell'Asia |
Il cristianesimo, secondo la tradizione, era arrivato in Asia già nel primo secolo con l'apostolo Tommaso che dal 52 d.C. avrebbe fondato comunità dall'India dell'est fino al sud del Paese. Tra il III e il V secolo un ruolo fondamentale svolsero le comunità siriane che avevano come centro Edessa. In Cina già nel V secolo arrivarono cristiani persiani che resero poi possibile all'inizio del VII secolo la nascita della prima comunità cristiana che perdurò, durante la dinastia T'ang, per circa due secoli. Nel XIII secolo il Vangelo fu annunciata ai Mongoli[38] e, ancora una volta, ai Cinesi (per opera soprattutto di Giovanni da Pian del Carpine, Guglielmo di Rubruck, Odorico da Pordenone e Giovanni da Montecorvino), ma il cristianesimo quasi scomparve in queste regioni per una serie di cause, tra le quali l'insorgere dell'Islam, l'isolamento geografico, l'assenza di un appropriato adattamento alle culture locali e forse, soprattutto, la mancanza di preparazione a incontrare le grandi religioni dell'Asia[39]. Alla fine del XIV secolo si verificò un drammatico ridimensionamento della Chiesa in Asia, eccetto per quanto concerne la comunità isolata dell'India del sud.
La ripresa dell'espansione missionaria in Asia avvenne nel 1498 quando i portoghesi, grazie a Vasco da Gama, raggiunsero le coste indiane stabilendovi i primi avamposti commerciali e religiosi e stabilendo a Goa la sede del vicerè e dell'arcivescovo.
Le prime missioni, che non diedero grandi frutti, furono opera del clero secolare portoghese e degli antichi ordini religiosi.
Nel 1540, il re del Portogallo chiese l'intervento della nuova congregazione dei gesuiti e sarà con loro che la missione in Asia ebbe una svolta e un singolare sviluppo[40].
Francesco Saverio, responsabile del primo gruppo missionario di gesuiti, fu nominato da Paolo III legato pontificio per i domini portoghesi dell'Oriente; partendo da Goa, dove giunse nel 1542, dedicò il suo impegno alla evangelizzazione dell'India spingendosi fino in Giappone e in Cina: la morte lo colse nel 1552, a San-ch'-uan, un'isoletta di fronte a Canton, alle porte della Cina. Francesco Saverio aprì la strada alle missioni di Roberto de Nobili in India, di António de Andrade e Ippolito Desideri in Tibet e di Matteo Ricci in Cina.
L'eredità missionaria di Francesco Saverio fu presa in mano da Alessandro Valignano, nominato Visitatore generale delle Missioni affidate alla Compagnia di Gesù[41], che si estendevano dall'Etiopia all'India, a Malacca, alle isole Molucche, al Giappone e alla Cina. Valignano inviò Michele Ruggeri[42] e Matteo Ricci a Macao perché vi imparassero il cinese e si preparassero quindi a entrare in Cina[43]. Matteo Ricci si propose di svolgere il suo apostolato presso le classi colte mettendo così a frutto le sue conoscenze di matematica, scienza e filosofia; dapprima come bonzo buddista e poi come letterato confuciano, Ricci svolse la sua attività soprattutto presso la corte, in dialogo con la cultura confuciana e in opposizione a quella buddista e taoista. Alla sua morte, nel 1610, non lasciò molti convertiti ma ottenne che il cristianesimo fosse legalmente presente in Cina e che vi godesse di grande prestigio morale[44]. Il metodo di Ricci non fu condiviso dai suoi successori e soprattutto dai missionari domenicani, francescani, ma anche di altri ordini e congregazioni[45]: la "questione dei riti cinesi"[46] (così è conosciuta la complessa vicenda di comprensione del tentativo di inculturazione di Ricci e le contestazioni al suo metodo nate dopo la sua morte) si protrasse fino al 1742 quando, con la bolla Ex quo singulari di papa Benedetto XIV, fu praticamente decisa l'inaccettabilità dei metodi missionari iniziati da Ricci[47].
Vicenda analoga a quella del Ricci e della questione sui suoi metodi si verificò in India dove Roberto De Nobili, convinto che dovessero essere gli europei a adattarsi agli indigeni, permise ai cristiani la conservazione delle tradizioni che fossero a rischio di idolatria e di superstizioni ed egli stesso vive alla maniera dei sanyassi e dei brahamini. La dibattito sui riti malabarici si concluse nel 1744 con la bolla Omnium sollicitudinum di papa Benedetto XIV[48].
L'evangelizzazione dell'Asia tra il XVI e il XVIII secolo conobbe oltre al problema dei metodi missionari, la difficoltà dovuta ai contrasti tra le varie potenze europee che si contendevano le zone costiere per il controllo del commercio. Questi contrasti furono aggravati, dalla prima metà del XVII secolo, dalla nascita di Propaganda Fide che si pose in atteggiamento critico nei confronti dell'arroganza del patronato portoghese.
In India Propaganda decise di erigere territori propri come vicariati apostolici indipendenti dal patronato portoghese. Questa duplice giurisdizione creò confusione, conflitti, gelosie, nocendo gravemente alla missione. A partire dall'India tentativi missionari furono fatti nel Tibet, nell'India settentrionale, in Persia e in Birmania, ma con scarsi risultati[49].
Le missioni in Cina, attraversate dalla tensione della questione dei riti, furono portate avanti soprattutto dai gesuiti tedeschi e francesi e poi dai francescani spagnoli delle Filippine[50]. Anche in Cina il Portogallo cercò di far valere il patronato e ottenne dal debole Alessandro VIII nel 1690 i vescovadi di Nanchino e Pechino dipendenti dal patronato. A Pechino fino al XIX secolo coesistevano chiese cattoliche dipendenti dal patronato, quelle dipendenti dai gesuiti francesi (che Luigi XIV non volle mai sottomettere a nessun'altra autorità che non fosse francese) e quelle dei missionari di Propaganda Fide.
Le missioni in Giappone furono provate, dopo un inizio promettente, da una serie di persecuzioni[51] che culminarono con la chiusura agli europei (1614), missionari compresi.
Solo nelle Filippine i missionari spagnoli riuscirono a inserirsi nella vita del popolo indigeno fondando una chiesa locale realmente vitale. Anche se l'inizio della missione, nel 1521 con lo sbarco di alcuni Eremitani Agostiniani (che erano al seguito di Ferdinando Magellano il quale fu ucciso dagli indigeni), fu segnato dalla reazione delle popolazioni locali, dopo il 1564 con l'agostiniano Andrea di Urdaneta e la presa di possesso formale da parte della Spagna nel 1569 la diffusione del Vangelo non trovò ostacoli se non nei principati islamici di Jolo e di Mindanao. Nell'opera missionaria furono impiegati oltre agli Eremitani Agostiniani, i Francescani (1579), i Domenicani (1581), i Gesuiti (1581) e gli Agostiniani Recolletti (1606). Per il fatto della difficoltà delle comunicazioni con la madre patria, gli spagnoli considerarono poco le opportunità economiche e commerciali dei possedimenti filippini e i missionari poterono dedicarsi all'opera di evangelizzazione senza i problemi che c'erano stati nelle Americhe. Nel 1579 Manila divenne vescovado e già nel 1595 arcivescovado in modo che la chiesa Filippina iniziò ad avere una propria gerarchia. Il risultato delle circostanze geografiche e del lavoro missionario fu una nazione che dopo cinquant'anni di missioni era praticamente tutta cattolica, l'unica dell'Estremo oriente[52].
La nascita di Propaganda Fide (1622)
Per approfondire, vedi la voce Sacra Congregatio de Propaganda Fide |
Il sistema del patronato regio aveva garantito la diffusione della Chiesa nelle terre colonizzate da Spagna e Portogallo. Col passare degli anni, però, la Santa Sede si rese conto degli inconvenienti della connessione e confusione tra colonialismo e missione anche a motivo delle ingerenze degli ufficiali statali negli affari ecclesiastici.
Papa Pio V nel 1568 tentò la costituzione di una commissione cardinalizia che presiedesse alle attività missionarie. Analogo tentativo fu fatto nel 1599 da Clemente VIII che aveva istituito una commissione di nove cardinali super negotiis Sanctae Fidei et Religionis Catholicae che avrebbe dovuto gestire i problemi della missione e della conversione degli eretici. Questa Commissione prenderà il nome di "Congregatio de Fide Propaganda" la quale, una volta sciolta, sarà sostituita dal "Segretariato generale delle Missioni" che avrà il compito di preparare la creazione della Sacra Congregatio De Propaganda Fide, fondata il 6 gennaio 1622 da Gregorio XV[53]. La bolla di fondazione "Inscrutabili Divinae Providentiae", è datata 22 giugno); a questa fecero seguito altri documenti pontifici fondamentali: "Romanum decet" (con la medesima data), "Cum inter multiplices" (14 dicembre 1622), "Cum nuper" (13 giugno 1623), e infine "Immortalis Dei" (1º agosto 1627).
Gregorio XV diede a questa Congregazione una solida organizzazione interna, fondi necessari e soprattutto uomini capaci di darle la necessaria impostazione iniziale. Tra questi va ricordato in particolare il primo segretario, Francesco Ingoli (1578-1649), uomo deciso e dinamico che seppe dare un impronta indelebile alla congregazione disciplinando il movimento missionario, fino ad allora travagliato da rivalità all'interno della stessa Chiesa[54].
La nuova Congregazione era incaricata di promuovere la propagazione della fede e assicurare la conservazione della fede nelle comunità cattoliche in diaspora.
Per quanto riguarda la promozione della fede, era compito di Propaganda
« | coordinare tutte le forze missionarie, fino ad allora sovente sparse; dare direttive uniformi per le missioni; organizzare le missioni sistematicamente in tutto il mondo, anche in quelle parti, fino allora "dimenticate"; mettere in guardia i missionari dalle conseguenze perniciose del colonialismo e dal confondere le cose ecclesiastiche con quelle politiche; liberare le missioni dalle grinfie del colonialismo politico e trasformare le missioni da un fenomeno coloniale in un movimento puramente ecclesiastico e spirituale; promuovere energicamente la formazione del clero autoctono e l'erezione delle gerarchie episcopali autoctone; finalmente aiutare le missioni materialmente. » | |
(Josef Metzler, La Congregazione "de Propaganda Fide" e lo sviluppo delle missioni cattoliche (secoli XVIII-XX), in Anuario de Historia de la Iglesia 9 (2000) 145-154, 146.)
|
L'importanza di "Propaganda Fide" per lo sviluppo delle missioni fu nelle indicazioni che offrì ai missionari per la valorizzazione delle culture locali. In effetti i tentativi missionari del XVI secolo avevano mancato soprattutto sotto questo aspetto. La valorizzazione delle culture locali si manifestò anche nell'insistenza con la quale "Propaganda" chiedeva e supportava la formazione di clero e di gerarchie autoctone[55].
Tra le attività iniziali di particolare rilievo della Congregazione ci fu l'istituzione, nel 1626, della Tipografia Polyglotta per stampare libri nelle lingue delle popolazioni presenti nei territori di missioni e la fondazione, con la bolla di Urbano VIII del 1º agosto 1627 del Pontificio Ateneo de Propaganda Fide con annesso il Pontificio Collegio Urbano de Propaganda Fide per accogliere i seminaristi dei paesi di missione.
La caratteristica di apertura spirituale e culturale della nuova Congregazione fu ben descritta in un documento che è considerato la "Magna Charta" di "Propaganda"[56], l'"Istruzione per i Vicari Apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina", del 1659[57]
Un passaggio di questa "Istruzione" recita così:
« | Non compite nessun sforzo, non usate alcun mezzo di persuasione per indurre quei popoli a mutare i loro riti, le loro consuetudini e i loro costumi, a meno che non siano apertamente contrari alla religione e ai buoni costumi. Che cosa c'è infatti di più assurdo che trapiantare in Cina la Francia, la Spagna, l'Italia o qualche altro paese d'Europa? Non è questo che voi dovete introdurre, ma la fede, che non respinge né lede i riti e le consuetudini di alcun popolo, purché non siano cattivi, ma vuole piuttosto salvaguardarli e consolidarli. (...) Quanto ai costumi che sono manifestamente cattivi, sarà bene rimuoverli con l'atteggiamento e col silenzio più che con le parole, cogliendo beninteso l'occasione di sradicarli pian piano e quasi insensibilmente, una volta che gli animi siano disposti ad abbracciare la verità. » | |
(Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, Istruzione per i Vicari Apostolici della Cocincina, del Tonchino e della Cina, 1659.)
|
La questione dei riti che scoppiò nonostante le chiare direttive che la Congregazione aveva dato ai missionari dell'Estremo Oriente
« | fu una vera e propria tragedia della storia missionaria. La "maledetta questione dei riti cinesi ha ritardato di due secoli l'evangelizzazione della Cina", ha detto Pio XI. » | |
(Josef Metzler, La Congregazione "de Propaganda Fide" e lo sviluppo delle missioni cattoliche (secoli XVIII-XX), in Anuario de Historia de la Iglesia 9 (2000) 145-154, 148.)
|
Il valore storico di Propaganda sta nell'affermazione, con la sua costituzione e con le sue attività, del carattere ecclesiale della missione. Il Pontefice riservava alla sua giurisdizione l'azione missionaria nei territori di missione. Questa rivendicazione del compito di unificare e dirigere le attività missionarie dovette entrare necessariamente in conflitto con le potenze economiche e politiche dell'epoca. Il metodo della nomina dei vicari apostolici a partire dal 1637 fu la prima grande azione di separazione tra evangelizzazione e colonizzazione.
Tra XVIII e XIX secolo
Nel XVIII secolo fino ai primi anni del XIX secolo gli storici registrano una crisi nell'attività missionaria della Chiesa.
I motivi furono molteplici: il regresso sociale e politico di Spagna e Portogallo che, pur con tutti i problemi, attraverso il patronato regio avevano mantenuto costante un certo impegno missionario; l'imporsi di nazioni protestanti come Inghilterra e Olanda; l'affermarsi di una concezione mitica del mondo primitivo con i suoi corollari sulla "bontà naturale" e sul "buon selvaggio" da non inquietare con la predicazione missionaria; la propaganda illuministica e razionalistica che avrebbe minato la fede cristiana nelle sue basi[58]; e, infine, la soppressione dell'ordine dei gesuiti (1773) che rappresentava una delle forze più lucide dell'impegno missionario della Chiesa.
L'offensiva giacobina e gli esiti della Rivoluzione francese, con la soppressione degli istituti francesi impegnati nelle missioni (agosto 1792)[59] e la chiusura della Congregazione di Propaganda Fide decisa dalla Repubblica Romana del 1798 sollecitarono una revisione sulla formazione delle gerarchie autoctone, sul clero indigeno e sulle autonomie finanziarie che avrebbe condotto a una nuova strategia sulle missioni e ai successi delle missioni ottocentesche[60].
Le missioni ottocentesche
La sensibilità e l'attività missionaria della Chiesa riprese agli inizi dell'Ottocento grazie all'opera di pontefici come Pio VII, Gregorio XVI e Pio IX che rivitalizzarono Propaganda Fide, al clima culturale romantico che esaltava l'opera civilizzatrice della Chiesa, alle nuove esplorazioni soprattutto in Africa ed Estremo Oriente Oriente.
In questo periodo la sensibilità missionaria fu condivisa da tutto il popolo di Dio. Provvidenziale fu la nascita Pontificia Opera per la Propagazione della Fede fondata a Lione nel 1822 dalla Venerabile Pauline Jaricot, la quale era riuscita a diffondere l'idea che tutti i battezzati fossero protagonisti della missione. Grazie al coinvolgimento di tutti, le fu possibile sostenere anche economicamente le opere missionarie dopo che a causa delle spogliazioni napoleoniche e dei governi massonici sia Propaganda Fide che i grandi ordini religiosi erano stati ridotti a una reale povertà di mezzi.
Importante fu poi la nascita della Pontificia Opera della Santa Infanzia, fondata nel 1843 da Janson de Forbin, vescovo di Nancy e della Pontificia Opera di San Pietro Apostolo, fondata nel 1889 dalle Signore Bigard a Caen.
Numerose furono poi le Congregazione nate missionarie o che si sarebbero poi dedicate alla missione ad gentes: i Maristi e gli Oblati di Maria Immacolata (1816), i Marianisti (1817), i Pallottini (1835), gli Assunzionisti (1845), i Clarettiani (1849), i Missionari della Salette (1852), la Società delle missioni africane (1856), le Missioni Estere di Milano e i Salesiani (1859), i Missionari di Scheut (1862), i Missionari di Mill Hill (1866), i Comboniani (1867), i Padri Bianchi (1868), la Società del Verbo Divino (1875), i Saveriani (1895).
Gli sforzi missionari si diressero soprattutto in Africa[61] e nell'Estremo Oriente, in particolare in Cina, Giappone, Indocina e Oceania.
L'entusiasmo per le missioni che veniva "dal basso" fu anche provvidenzialmente sostenuto dal personale convincimento dei pontefici che si avvicendarono da Pio VII in poi[62].
Nell'Ottocento la strategia missionaria ricorse praticamente ovunque agli stessi metodi: si cominciava con un insediamento materiale che garantisse la visibilità della missione e dimostrasse il potenziale civilizzatore del cattolicesimo attraverso una serie di servizi; si concentravano in uno spazio, inizialmente modesto, cappelle, scuole maschili e femminili, dispensari, laboratori, officine e fattorie. Con questa strategia progressivamente la missione si legò indissolubilmente a tutte le opere sociali che preparavano e prolungavano l'azione propriamente religiosa.
Le missioni nel XX secolo
Prima ancora che, tra le due guerre mondiali, il modello missionario ottocentesco andasse in crisi, furono tentati stili missionari diversi ad esempio da parte di Francis Aupiais, della Società delle Missioni Africane di Lione, partito nel 1903 per il Dahomey o da Charles de Foucauld assassinato a Tamanrasset nel 1916.
La fondazione della Missione di Francia nel 1941 e della Missione di Parigi nel 1943, la pubblicazione del libro La France, pays de mission?[63], l'enciclica di Pio XII fidei donum del 1957[64] furono solo alcuni degli avvenimenti ecclesiali che fecero emergere la coscienza della dimensione intrinsecamente missionaria della Chiesa che trovò poi la sua autorevole e matura espressione magisteriale nel decreto Ad gentes del Concilio Vaticano II («La Chiesa durante il suo pellegrinaggio sulla terra è per sua natura missionaria», Ad gentes, 2)[65].
Nonostante questa rinnovata coscienza missionaria che il Concilio contribuì a risvegliare nella Chiesa, negli anni Settanta si manifestò una profonda crisi nelle missioni estere dovuta sostenzialmente alla polemica culturale sulla positività della missione civilizzatrice dell'Occidente e alle vicende storiche legate alle decolonizzazioni.
« | Tutti questi fenomeni rappresentano la fine di una certa idea della missione perché il modello si è esaurito. Nei decenni 1960-1970 ha inizio uno spettacolare trasferimento di generosità e di obiettivi militanti. Il Terzo Mondo dà il cambio alla missione estera tradizionale. (...) La riconversione del militante portatore di una buona novella religiosa in militante deciso a cambiare il mondo segna la fine di un'epoca in cui l'impegno cristiano aveva lo scopo di prolungare l'influenza della Chiesa grazie ai laici. Il militante cristiano inizia a dubitare della sua identità e si domanda se in realtà possiede qualcosa più degli altri. (...) La crisi è dunque una crisi d'identità che si basa sulla finalità della missione. Traduce l'esaurimento dell'antica teologia fondata su una concezione della salvezza che conduceva a relativizzare la trasformazione della città. La principale risposta nasce allora da una teologia della liberazione, multiforme, ma decisa a considerare la salvezza in una prospettiva globale che associa trasformazione delle strutture e conversione dei cuori, impegno nel sociale e scelta di fede. Fra salvezza e liberazione, negli anni Settanta gli articoli e le opere di teologia sembrano ancora esitare prima di propendere dalla parte della liberazione.
Malgrado questo sforzi, la critica si trasforma nel 1973-74 in contestazione radicale dell'idea missionaria tout court. » | |
L'appello del gesuita camerunense Fabien Eboussi Boulaga pubblicato su Spiritus nel 1974 divenne il simbolo della contestazione dell'idea di missione tradizionale:
« | Che cosa si deve fare? La risposta sarà breve: l'Europa e l'America in primo luogo devono evangelizzare ss stesse. E poi si pianifichi in buon ordine la partenza dall'Africa dei missionari. » | |
(Fabien Eboussi Boulaga, La démission, in Spiritus 56 (1974) 287.)
|
Se risentì di questo clima anche l'enciclica di Paolo VI Evangelii nuntiandi, all'indomani del sinodo del 1974, nella quale non viene utilizzato il termine "missione".
L'enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II mise a tema e interpretò la crisi che la missione ad gentes aveva vissuto, ribadendone i fondamenti e rilanciandola con nuove prospettive:
« | Molti sono già stati i frutti missionari del concilio: si sono moltiplicate le chiese locali fornite di propri vescovi, clero e personale apostolico; si verifica un più profondo inserimento delle comunità cristiane nella vita dei popoli; la comunione fra le chiese porta a un vivace scambio di beni spirituali e di doni; l'impegno evangelizzatore dei laici sta cambiando la vita ecclesiale; le chiese particolari si aprono all'incontro, al dialogo e alla collaborazione con i membri di altre chiese cristiane e religioni. Soprattutto si sta affermando una coscienza nuova: cioè che la missione riguarda tutti i cristiani, tutte le diocesi e parrocchie, le istituzioni e associazioni ecclesiali. Tuttavia, in questa "nuova primavera" del cristianesimo non si può nascondere una tendenza negativa, che questo documento vuol contribuire a superare: la missione specifica ad gentes sembra in fase di rallentamento, non certo in linea con le indicazioni del concilio e del magistero successivo. Difficoltà interne ed esterne hanno indebolito lo slancio missionario della chiesa verso i non cristiani, ed è un fatto, questo, che deve preoccupare tutti i credenti in Cristo. Nella storia della chiesa, infatti, la spinta missionaria è sempre stata segno di vitalità, come la sua diminuzione è segno di una crisi di fede. (...) Ciò che ancor più mi spinge a proclamare l'urgenza dell'evangelizzazione missionaria è che essa costituisce il primo servizio che la chiesa può rendere a ciascun uomo e all'intera umanità nel mondo odierno, il quale conosce stupende conquiste, ma sembra avere smarrito il senso delle realtà ultime e della stessa esistenza. » | |
(Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, 2)
|
Le missioni cattoliche oggi
Le chiese che fanno riferimento alla Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli vivono negli ultimi decenni di una singolare vivacità[66].
Attualmente alla Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli sono affidate complessivamente 1.069 Circoscrizioni ecclesiastiche[67]. Di esse 180 Arcidiocesi Metropolitane, 750 Diocesi, 1 Abbazia Territoriale, 72 Vicariati Apostolici, 45 Prefetture Apostoliche, 4 Amministrazioni Apostoliche, 11 Missioni "sui iuris" e 6 Ordinariati Militari.
Su 2.850 milioni di persone che gravitano nei territori di riferimento della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli i cattolici battezzati sono 200 milioni[68].
A servizio della "missio ad gentes" lavorano all'incirca 85.000 sacerdoti tra appartenenti al clero diocesano o a Istituti e ordini religiosi[69], 28.000 Religiosi non sacerdoti; da 45.000 Suore e da 1.650.000 Catechisti. La Congregazione accompagna, poi, nei vari territori, la formazione spirituale e accademica di 280 Seminari Maggiori interdiocesani e di 110 Seminari minori, assicurando loro anche un sussidio economico.
A ciò, vanno aggiunte attività educative (circa 42.000 scuole); attività sanitarie (1.600 ospedali, oltre 6.000 dispensari, 780 lebbrosari); attività creative e sociali (12.000 iniziative).
Note | |||||||
| |||||||
Fonti | |||||||
Bibliografia | |||||||
| |||||||
Voci correlate | |||||||