Canone Romano
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Il Canone Romano è l'antica Preghiera Eucaristica del Rito Romano; oggi è la prima e la più importante delle quattro preghiere eucaristiche riportate nel Messale Romano.
Nel suo linguaggio solenne e ieratico rivela una ricca teologia dell'offerta, e la tematica del sacrificio trova in alcuni riferimenti biblici delle sottolineature di grande valore dottrinale[1].
« | [..] È il monumento letterario più importante del culto occidentale. » | |
(Arnaldo Roberti, 1949, 548)
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Dalla tarda antichità fino alla riforma liturgica effettuata dopo il Concilio Vaticano II era l'unica Preghiera Eucaristica del Rito Romano, ed è ancora così per la forma straordinaria di questo rito, celebrata in accordo al Missale Romanum del 1962[2].
Storia
Il Canone Romano può nel suo complesso risalire al IV secolo, quantunque per la composizione l'autore si sia servito della tradizione locale e di documenti anteriori[3].
Dal IV al VI secolo il Canone è in formazione; dal VI al XIII secolo poi si fissa, per arrivare al testo che odierno[4].
Prima del IV secolo
La testimonianza romana più antica di una Preghiera Eucaristica si trova nella Prima Apologia di San Giustino martire († 165). Giustino, che è testimone degli usi liturgici romani, presenta una traccia del canone del suo tempo, articolandolo in azione di grazie e supplica[5]; poco più avanti[6], descrivendo l'Eucaristia domenicale, scrive che colui che presiede rende grazie "per quanto può, secondo la sua capacità". Lo schema della Preghiera sembra stabilito, ma c'è spazio per un'ampia creatività[7].
L'Anafora che Ippolito[8] († 235) riporta nella Tradizione Apostolica è la prima testimonianza romana di una Prece Eucaristica completa. Il testo risale circa al 215, ma non rappresenta la liturgia romana[7] quanto quella Antiochena[9], e ha lasciato solo deboli vestigia nel Canone Romano attuale.
I frammenti nel De Sacramentis e altri frammenti antichi
Solo a partire dal IV secolo compaiono frammenti di Preghiera Eucaristica, e i più significativi sono quelli riportati da Sant'Ambrogio († 397) nel suo De Sacramentis; tale opera consiste in una serie di catechesi tenute ai nuovi battezzati attorno all'anno 390; in essa il vescovo di Milano cita in modo esteso brani della Preghiera Eucaristica utilizzata in quel tempo nella sua città[10]. I brani citati rappresentano le prime formulazioni delle preghiere Quam oblationem, Qui pridie, Unde et memores, Supra quae, e Supplices te rogamus del Canone che si trova successivamente nei primi Sacramentari romani. Tali formule sono già sensibilmente sviluppate e lontane dal nucleo primitivo[2].
Il primo brano rappresenta "un fugace sguardo sull'inizio della Preghiera Eucaristica che egli conosce"[11]:
(LA) | (IT) | ||||
« | Consecratio igitur quibus verbis est et cuius sermonibus? Domini Iesu. Nam et reliqua omnia quae dicuntur in superioribus a sacerdote dicuntur: laus Deo, defertur oratio, petitur pro populo, pro regibus, pro caeteris; ubi venitur ut conficiatur venerabile sacramentum, iam non sui sermonibus utitur sacerdos [..] » | « | Quindi con quali parole e per espressione di chi avviene la consacrazione? Del Signore Gesù. Infatti tutte le altre cose pronunciate precedentemente sono dette dal sacerdote: [si dà] lode a Dio, si presenta la supplica, si prega per il popolo, per i re, per tutti gli altri; quando si giunge però al punto in cui viene celebrato[12] il venerabile Sacramento, il sacerdote non si serve più di parole sue. » | ||
(Libro IV, 14[13] )
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Sembra evidente che la laus corrisponde all'inizio della Preghiera, cioè al Prefazio. L'Oratio è invece un'intercessione che precede la Consacrazione[14].
È da notare l'insistenza di Ambrogio sull'efficacia delle parole stesse di Cristo per la Consacrazione nell'espressione ut conficiatur venerabile sacramentum; poco più avanti Ambrogio afferma che ergo sermo Christi conficit sacramentum, "perciò le parole di Cristo celebrano[12] il Sacramento"[15].
Il secondo brano riporta alcune parti del Canone, e segnatamente la Consacrazione:
(LA) | (IT) | ||||
« | Vis scire quia verbis caelestibus consecratur? Accipe quae sunt verba. Dicit sacerdos: Fac nobis, inquit, hanc oblationem scriptam, rationabilem, acceptabilem; quod est figura[16] corporis et sanguinis Domini nostri Iesu Christi. Qui pridie quam pateretur, in sanctis manibus suis accepit panem, respexit ad coelum, ad te, sancte Pater omnipotens aeterne Deus, gratias agens benedixit, fregit, fractumque apostolis et discipulis suis tradidit dicens: Accipite ed edite ex hoc omnes, hoc est enim corpus meum quod multis confringetur[17]. - Adverte. - Similiter etiam calicem postquam cenatum est, pridie quam pateretur, accepit, respexit ad caelum ad te, sancte Pater omnipotens aeterne Deus, gratias agens benedixit, apostolis et discipulis suis tradidit dicens: Accipit et bibite ex hoc omnes, hic est enim sanguis meus[18]. Vide, illa omnia verba evangelistae sunt usque ad accipite sive corpus, sive sanguinem, inde verba sunt Christi: Accipite et bibite ex hoc omnes, hic est enim sanguis meus. Deide quantum sit sacramentum, cognosce. Vide quid dicat: quotiescumque hoc feceritis, totiens commemorationem mei facietis, donec iterum adveniam. » | « | Vuoi sapere che la Consacrazione avviene con parole celesti? Ascolta quali sono le parole. Il sacerdote dice: "Rendi per noi questa offerta ratificata[19], spirituale[20], gradita; poiché è figura del Corpo e del Sangue di nostro Signore Gesù Cristo. Egli, il giorno prima di subire la passione, prese il pane nelle sue sante mani, volse gli occhi al cielo, a te, Padre, onnipotente Dio eterno, rendendo grazie lo benedisse, lo spezzò, e spezzato lo consegnò ai suoi apostoli e ai discepoli dicendo: Prendete e mangiatene tutti, questo è infatti il mio corpo che è spezzato per molti. - Stai attento! - Allo stesso modo, dopo aver cenato, la vigilia della sua passione, prese anche il calice, alzò gli occhi al cielo, a te, Padre santo, onnipotente Dio eterno, rendendo grazie lo benedisse, e lo consegnò ai suoi apostoli e ai discepoli dicendo: Prendete e bevetene tutti, questo è infatti il mio sangue". Osserva che tutte quelle parole sono dell'evangelista, fino a "prendete" il corpo o il sangue, poi le parole sono di Cristo: "Prendete e bevetene tutti, questo è infatti il mio sangue". Considera quindi quanto grande sia questo Sacramento. Osserva ciò che dice: "Ogni volta che lo avrete fatto, farete ogni volta memoria di me, finché verrò di nuovo. » | ||
(Libro IV, 21-22.26[21] )
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Viene fatta notare la somiglianza del Canone Romano con questo testo, e insieme la presenza di alcune differenze[22].
Il termine "figura", rimanda al versetto di San Paolo indicato nella nota all'interno del testo, ma anche alle espressioni dell'Eucologio di Serapione di Thmuis: Hic panis sancti corporis est similitudo, quoniam Iesus Christus, in qua nocte [..][23], "Questo pane è similitudine del santo Corpo, poiché Gesù Cristo, nella notte in cui [..]".
Il modo di esprimersi del testo gli conferisce una forza teologica particolare: l'offerta (oblatio) è gradita (acceptabilis) poiché è "realtà, al di là del simbolo" (figura), del Corpo e Sangue del Signore. Abbiamo qui un'eco del linguaggio di San Paolo, che è anche quello di Alessandria.
Si nota anche una certa ricerca di parallelismo letterario che si ritroverà, con termini vicini, anche nelle anafore alessandrine.
Il terzo brano è anch'esso molto simile a varie parti del Canone Romano:
(LA) | (IT) | ||||
« | Et sacerdos dicit: Ergo memores gloriosissimae eius passionis et ab inferis resurrectionis et in caelum ascensionis offerimus tibi hanc immaculatam hostiam, rationabilem hostiam, incruentam hostiam, hunc panem sanctum et calicem vitae aeternae. Et petimus et precamur, uti hanc oblationem suscipias in sublime altare tuum per manus angelorum tuorum, sicut suscipere dignatus es munera pueri tui iusti Abel et sacrificium patriarchae nostri Abrahae et quod tibi obtulit summus sacerdos Melchisedech. » | « | E il sacerdote dice: "Dunque memori della sua gloriosissima passione e risurrezione dagli inferi e ascensione al cielo ti offriamo questa vittima immacolata, sacrificio spirituale[20], vittima incruenta, questo pane santo e questo calice di vita eterna. E ti chiediamo e supplichiamo, affinché tu accolga questa offerta sul tuo altare celeste per mano dei tuoi angeli, come ti sei degnato di ricevere i doni del tuo figlio il giusto Abele e il sacrificio del nostro patriarca Abramo e quello che ti offrì il sommo sacerdote Melchisedech". » | ||
(Libro IV, 27[24] )
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Il terzo frammento di Ambrogio e i testi del Canone Romano | ||||||||||
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Tale preghiera è già quella che rimarrà nel Canone Romano; questo però ha diviso in tre parti, ampliandola, la preghiera molto unitaria di Ambrogio (vedi schema a lato):
- la parte iniziale corrisponde all'Unde et memores (anamnesis) del Canone Romano; in essa sono da notare le espressioni rationabilem hostiam, incruentam hostiam, che presentano, insieme al termine figura che compare nel secondo brano, una teologia già molto salda;
- segue poi una preghiera di offerta, o piuttosto una domanda di accettazione del sacrificio, che corrisponde al Supplices te rogamos del Canone; vi compare la menzione del ministero angelico, al plurale in Ambrogio, al singolare nel Canone Romano;
- infine vi è il ricordo dei tipi del sacrificio eucaristico: quelli di Abele, di Abramo e di Melchisedech, che il Canone Romano inserisce all'interno del Supra quae propítio.
Il Canone Romano però inverte la seconda e la terza parte della preghiera di Ambrogio, ma deve introdurre la menzione angelica con una formula "passe-partout" spesso utilizzata nelle preghiere: Supplices te rogamus omnipotens Deus.... Gli studiosi si sono chiesti anzitutto quale delle due successioni sarebbe quella originaria:
- si è ipotizzato che sia Ambrogio ad invertire: egli sta facendo una catechesi che uno stenografo raccoglie, e sta citando a memoria; potrebbe dunque aver invertito la preghiere;
- la maggior parte degli studiosi ritiene però che sia avvenuto il contrario: sarebbe stato il Canone Romano a operare un rifacimento abbastanza importante.
Riguardo poi al perché di questa inversione, il motivo potrebbe essere:
- quello di proporre delle preghiere più brevi, secondo lo stile romano;
- oppure quello di mettere maggiormente in rilievo l'attività della Chiesa che offre;
- oppure, ancora, la preghiera Supplices te rogamos omnipotens Deus poteva variare, come constatiamo in un frammento della liturgia ispanica in cui, dopo aver ricordato il sacrificio di Melchisedech, si chiede che la benedizione di Dio scenda sul sacrificio;
- oppure, infine, la preghiera avrebbe potuto essere, in certi casi, una specie di epiclesi più accentuata.
- I frammenti editi dal Mai
Abbiamo dei frammenti del Canone, il cui autore è ariano, che sono di origine romana e sembrano situarsi tra il IV secolo e l'inizio del VI[25]; sono stati editi dal Mai. In essi la preghiera di accettazione delle offerte per il sacrificio inizia subito dopo il prefazio, a questa maniera: Per Iesum Christum Dominum et Deum nostrum, per quem petimus et rogamus, "per Gesù Cristo Signore e Dio nostro, per mezzo del quale chiediamo e preghiamo". Si discute se questo Canone non avesse il Sanctus. Il testo mostra una teologia del sacrificio già sviluppata, perché in esso gratias agere ("rendere grazie") e sacrificium offerre ("offrire il sacrificio") sono due azioni in sé differenti ma intimamente legate: non si può rendere grazie senza offrire al Padre il sacrificio del Figlio.
- I frammenti mozarabici
Ci sono conservati anche alcuni frammenti della Liturgia ispanica[26], chiamati Mozarabici: essi hanno un carattere arcaico che raggiunge l'origine del Canone Romano[25]. Due tra questi frammenti sono molto importanti; essi si situano tra il testo di Ambrogio e il Canone gregoriano Sono sostanzialmente fedeli al testo di Ambrogio.
- Uno di questi frammenti omette alcune parole riportata invece da Ambrogio: sanctum sacrificium, immaculatam hostiam ("santo sacrificio, immacolata vittima"); il Liber Pontificalis informa che fu San Leone Magno († 461) a introdurle nella preghiera Supra quae.
- Un altro frammento riporta il testo di un Memento inserito tra l'inizio della Preghiera Eucaristica e la preghiera che precede immediatamente la Consacrazione; esso riprende un importante espressione che Ambrogio riporta nei suoi frammenti di Canone; se Ambrogio aveva quod est figura corporis et sanguinis Domini ("che è figura del corpo e sangue del Signore"), il frammento mozarabico ha, in maniera molto simile: Quorum oblationem benedictam, ratam, rationabile facere digneris, quae est imago et similitudo corporis et sanguinis Iesu Christi, Filii tui, ac redemptoris nostri[27] ("Degnati di rendere quest'offerta benedetta, accetta, spirituale: essa è immagine e similitudine del corpo e sangue di Gesù Cristo, Figlio tuo e redentore nostro"). In questa frase il frammento mozarabico è in accordo un testo di papa Gelasio della fine V secolo, nella quale si legge Imago et similitudo corporis et sanguinis Christi in actione mysteriorum celebrantur[28], "Nell'azione liturgica dei santi misteri si celebrano l'immagine e la similitudine del corpo e sangue di Cristo".
- Valutazione
Tra il III e il IV secolo dunque il Canone Romano ha ricevuto la sua redazione sostanziale.
La vicinanza tra i tre gruppi di frammenti analizzati dimostra che tutti provengono da una Preghiera Eucaristica già ben costruita, e della quale riprendono largamente il vocabolario[29].
A partire da questi frammenti, che ci riportano a metà del V secolo, rimane però molto difficile ricostruire il Canone primitivo, ed ogni tentativo rimane nel puro campo delle ipotesi[30]. Specificarne l'autore, poi, "è avventurarsi nella preistoria della liturgia e affrontare questioni pressoché insolubili"[3]. A Roma stessa, nel V-VI secolo, epoca della composizione del Liber Pontificalis, si sapeva poco delle origini e dell'autore della Preghiera Eucaristica: ci si accontentava di un "si dice", e Papa Vigilio, scrivendo nel 538 a Profuturo di Braga lo ritiene addirittura ex traditione apostolica susceptum ("ricevuto dalla tradizione apostolica").
I primi sviluppi
Il primo testimone del testo completo del Canone Romano è il Sacramentario Gelasiano Antico[31] (VII-VIII secolo). Il testo in esso riportato riprende quello di Sant'Ambrogio, ma con importanti rimaneggiamenti. Così come è improbabile che sia Papa Gelasio l'autore del Gelasianum Vetus, ugualmente non si ha alcuna certezza che si debba allo stesso papa la redazione del testo del Canone, anche se la maggior parte degli studiosi ritiene verosimile l'affermazione del Messale di Stowe: Incipit Canon dominicus Papae Gelasii ("inizia il Canone del Signore di Papa Gelasio")[32].
Il testo del Gelasiano è stato rivisto al tempo di San Gregorio Magno († 604) da persone private o incaricate dai papi; Gregorio peraltro non professa stima esagerata al Canone Romano e lo considera come precem quam scholasticus composuerat ("preghiera che un dotto aveva composto"), opera quindi di un anonimo letterato[33]. Resta però il fatto che il testo si impone, con varianti più o meno importanti, a tutta la Chiesa occidentale.
Lo studio del Canone Romano nel I millennio lascia aperti vari interrogativi[34]:
- La collocazione delle intercessioni: alcuni documenti fanno pensare che in epoca antica esse si trovassero al momento dell'offertorio; rimane però il fatto che Ambrogio le presenta all'interno del Canone. In definitiva "l'ipotesi che il Canone Romano non avrebbe conosciuto questi dittici nel luogo in cui si trovano attualmente non ha molti appoggi"[35];
- L'esistenza o meno in passato di un'epiclesi, attualmente assente: qualcuno ha ipotizzato che ci fosse, e che vi fossero delle allusioni ad essa nel Quam oblationem e nel Supplices te rogamus; la conclusione di quest'ultima preghiera assomiglia a una conclusione di epiclesi. Papa Gelasio parla dell'intervento dello Spirito nella consacrazione[36], ma ciò non prova la presenza di un testo liturgico epicletico.
Cambiamenti dovuti a nuove sensibilità teologiche
Verso la fine del I millennio inizia a presentarsi la prassi della recita in silenzio del Canone. Non vi è alcun dubbio che antecedentemente il Canone fu pregato ad alta voce. Nel IX secolo l'Ordo Romano XXVIII, il cui archetipo romano risale al IX secolo, ha una rubrica concernente l'Exsultet che prescrive di eseguirlo come il Canone: Decantando quasi canonem, "cantandolo come il Canone"[37]. Però l'Ordo I e l'Ordo XV (dopo il 787) parlano di una recitazione dissimili voce, ita ut a circumstantibus altare tantum audiatur, "con voce diversa, cosicché venga udito solo da quanti sono vicini all'altare"[38]. Poi l'Ordo V, che appare nel X secolo e che è destinato al clero francese, afferma: surgit solus pontifex et tacite intrat in canonem, "si alza solo il pontefice e in silenzio entra nel Canone". Circa i motivi di questa evoluzione si è pensato a un'influenza orientale; vi influì senz'altro anche il nuovo modo di concepire la celebrazione eucaristica come discesa della divinità sull'altare, per cui il cerimoniale si allontana sempre più dal concetto di cena sacrificale del Signore.
Anche il gesto dell'elevazione è legato alla stessa concezione della discesa del Signore sull'altare: l'Ostia viene sollevata per il desiderio dei fedeli di vederla. Questa prima elevazione dopo la consacrazione del pane sembra avere lo scopo di sottolineare più l'efficacia immediata delle parole consacratorie che l'espressione della presenza reale; secondo alcuni infatti il pane non sarebbe stato consacrato che dopo la consacrazione del vino. Sta di fatto che nel XII secolo un decreto giunge a prescrivere l'elevazione. Il calice invece fu elevato solo in seguito, un secolo dopo, per una specie di parallelismo. Queste elevazioni portarono come conseguenza la perdita d'importanza dell'elevazione effettuata alla dossologia finale; essa rivestiva precedentemente un'importanza molto maggiore.
Con il tempo si moltiplicano anche i segni della croce. Essi hanno il loro punto di partenza nella teologia di Amalario di Metz († 850 ca.), il quale vedeva nella Messa non la riproduzione dell'Ultima Cena e attraverso di essa l'attualizzazione del sacrificio del Calvario, quanto la rappresentazione diretta del Calvario, che bisognava simboleggiare il più possibile. I segni di croce che appaiono alla dossologia si rivestono di simbolismi sempre più numerosi, e provocano l'attenuazione dell'elevazione dell'Ostia e del calice[39].
Abusi e istanze di riforma
Gli sviluppi nella forma di celebrare la Messa avvenuti nei secoli precedenti il Concilio di Trento avevano portato anche a prassi abusive, tra le quali le chiacchiere coi fedeli prima della celebrazione, il compiacersi di gesti teatrali da parte dei sacerdoti, il piazzarsi in faccia al sacerdote celebrante da parte dei fedeli; lo stesso Concilio stabilì una speciale commissione che poté raccoglierne un centinaio.
Uno studioso di liturgia così sintetizza la situazione dell'epoca:
« | Il corpo di Cristo aveva preso l'aspetto di una grande macchina tutta umana di salvezza attraverso sacramenti messi in opera per motivi tutti umani da uomini che agivano in nome e con la tecnica di un Cristo assente. Macchina che era venuta crescendo in modo assai complicato. [...] Tutta la sua forza e la sua energia erano assorbite dal mantenere sé stessa in funzione. [...] La vita della Chiesa era in mano alla macchina e la macchina funzionava, ma altro non si può dire. » | |
Basandosi su questi abusi i protestanti rifiutavano la Messa e in particolare il Canone. Lutero paragonava il Canone Romano all'altare che Acaz mise al posto dell'altare di bronzo nel Tempio di Salomone (cfr. 2Re 16,7-18 ):
« | L'empio Acaz tolse l'altare di bronzo e lo sostituì con un altro fatto venire da Damasco. Parlo del lacero e abominevole Canone raccolta di omissioni e di immondezze: lì la Messa ha preso a diventare un sacrificio, lì furono aggiunti l'offertorio e orazioni mercenarie, lì furono inserite in mezzo al Sanctus e al Gloria in excelsis sequenze e frasi. [...] E neppure oggi si smette di fare aggiunte a questo Canone.[40] » |
Il Concilio di Trento
Il Concilio di Trento prese le difese del Canone. Lo fece nel decreto Doctrina de SS. Missae Sacrificio ("Dottrina del sacrificio della SS. Messa"), la cui discussione avvenne nell'estate 1562, e che venne votato definitivamente il 17 settembre di quell'anno.
Negli schemi del decreto precedenti quello finale si parlava del Canone come istituzione ecclesiastica, senza alcun riferimento alla sua antichità né alla tradizione da cui scaturiva.
Nel testo definitivo, invece, pur non specificando la data e le parti della sua composizione, e pur facendolo pur sempre risalire alla Chiesa (Ecclesia catholica sacrum Canonem instituit, "la Chiesa Cattolica istituì il sacro Canone"), si afferma però che il Canone era stato istituito "da molti secoli" e formato "dalle parole stesse del Signore", da "ciò che è stato tramandato dagli apostoli" e "da ciò che è stato piamente stabilito da santi pontefici". È per questo (il testo latino ha enim), cioè perché raccoglie il deposito della tradizione, che è immune da ogni errore. E solo così può essere condannato, nel corrispondente canone 6, chi ne chiede l'abrogazione. Non contenendo errori, "proprio per questo" (ideoque) non deve essere abrogato.
Così sintetizza Gregory Dix il frutto del lavoro di Trento:
« | Il vantaggio della Controriforma fu che essa conservò il testo di una liturgia che in sostanza risaliva a molto prima dello sviluppo medievale. Con questo preservò quelle primitive formulazioni in cui riposava la vera soluzione delle difficoltà medievali, anche se ci volle del tempo prima che la Chiesa postridentina ne facesse uso per lo scopo. I protestanti al contrario abbandonarono l'intero testo della liturgia e specialmente quegli elementi in essa che erano un genuino documento di quella Chiesa primitiva che essi affermavano di restaurare. Introdussero al suo posto forme che derivavano e esprimevano la tradizione medievale dalla quale scaturiva il loro stesso movimento.[40] » |
La riforma seguita al Concilio Vaticano II
Nel corso dei lavori del Concilio Vaticano II non si registrano fatti particolarmente rilevanti a proposito del Canone Romano[41]; l'orientamento prevalente fu quello di non ritenere il Canone tra le parti della Messa per le quali si possa prevedere l'uso della lingua volgare[42].
Si pose però in maniera esplicita il problema "pastorale" del Canone: se all'antico e solenne testo dell'anafora romana si riconoscevano ricchezza dottrinale e linee di pensiero feconde di spiritualità, non si vedevano in esso quelle caratteristiche di linearità e chiarezza da poter facilitare la partecipazione attiva e consapevole dell'assemblea liturgica. Quando il problema fu posto pubblicamente prevalse l'opinione di chi sconsigliava un ritocco anche consistente di un testo così venerando; ci si aprì quindi alla possibilità di avere nuove Preghiere Eucaristiche da affiancare al Canone Romano.
La editio typica del Messale pubblicata nel 1970 riporta quindi il Canone Romano nella sua forma tradizionale, apportandovi soltanto alcune modifiche secondarie e riducendo i gesti rubricali[2][43].
Nella sezione della Consacrazione vi sono però alcuni cambi abbastanza significativi:
- le parole Accípite, et manducáte ex hoc ómnes., che precedentemente non avevano il risalto tipografico dato alle parole della consacrazione, sono ora graficamente parte integrante della formula consacratoria del pane; ugualmente le parole Accipite et bibite ex eo omnes per la consacrazione del vino;
- la formula consacratoria del pane si arricchisce dell'aggiunta quod pro vobis tradetur;
- le parole haec quotiescúmque fecéritis, in mei memóriam faciétis passano a far parte integrante della formula consacratoria e divengono hoc facite in meam commemorationes;
- l'acclamazione Mysterium fidei passa da dentro le parole consacratorie del vino a dopo l'ostensione del calice e introduce l'acclamazione dell'assemblea, per la quale sono proposte tre formule a scelta:
- Mortem tuam annuntiamus, Domine, et tuam resurrectionem confitemur, donec venias, "Annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell'attesa della tua venuta".
- Quotiescumque manducamus panem hunc et calicem bibimus, mortem tuam annuntiamus, Domine, donec venias, "Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo a questo calice, annunziamo la tua morte, Signore, nell'attesa della tua venuta".
- Salvator mundi, salva nos, qui per crucem et resurrectionem tuam liberasti nos, "Tu ci hai redenti con la tua croce e la tua risurrezione: salvaci, o Salvatore del mondo".
Il nuovo Messale comprende poi tre ulteriori Preghiere Eucaristiche.
Analisi
Lo schema del Canone Romano è articolato e complesso, ed è assai diverso dalle caratteristiche del tutto peculiari della tradizione orientale[1].
La struttura è la seguente[44]. I testi latino e italiano sono quelli del Messale Romano attuale.
Prefazio
Per approfondire, vedi le voci Prefazio e Sanctus |
Il dialogo che inizia il prefazio è attestato già all'inizio del III secolo nella Tradizione Apostolica di Ippolito[45]; esso è comune a tutti i riti liturgici.
Al prefazio sembra alludere Sant'Ambrogio quando, nel De Sacramentis, parla della laus ("lode")[46]. Tale sezione di lode è divenuta in seguito molto variabile: la diversità delle sue formule ha provocato la costituzione di un corpo di prefazi, e questo li ha separati dal resto del Canone; è anche invalso l'uso di miniare la lettera maiuscola iniziale del Te igitur, che è diventata una croce e ha iniziato ad occupare tutta la pagina. Nonostante tutto questo il prefazio fa parte integrante del Canone.
Il prefazio si conclude con il Sactus, che però non è presente nell'Anafora di Ippolito. Il Liber Pontificalis (530 ca.) ne attribuisce l'introduzione al papa Sisto I[47]; San Cesario di Arles († 543) testimonia la presenza dell'acclamazione nel Canone[48].
Preghiere di intercessione iniziali
- Te igitur
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È la "raccomandazione" delle oblate e della Chiesa, raccolta attorno al papa e ai vescovi; la menzione della gerarchia ecclesiastica ha lo scopo di esprimere l'unità della Chiesa.
Nel De Sacramentis di Sant'Ambrogio, si trova accennato anche un ricordo del potere civile, ma tale contenuto compare in forma definitiva solo con i secoli IX-X, per scomparire nuovamente poi nel Messale di San Pio V del 1570[49].
Nella forma attuale il Te igitur si può considerare quasi una conclusione del ringraziamento del Prefazio; l'avverbio igitur ("pertanto", "dunque") ne rappresenta l'addentellato logico.
- Memento dei vivi
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In questa sezione del Canone si prega per particolari intenzioni.
Era costume antico recitare pubblicamente il nome degli offerenti e delle persone per le quali si intendeva pregare. Queste liste erano scritte su tavolette di legno o di avorio, ripiegate a forma di libro, e chiamate con termine greco "Dittici". La lettura di tali nomi, di origine antichissima, doveva aver luogo in tempo antico nella zona offertoriale; non si sa quando Roma trasferì i dittici nel posto attuale, ma sicuramente in epoca remota, poiché la lettera[50] di Papa Innocenzo I a Decenzio vescovo di Gubbio (416) colloca già la Commendatio nominum ("raccomandazione dei nomi") all'interno del Canone. La lettura dei Dittici, fatta ad alta voce dal diacono, durò sino all'VIII secolo.
Si ritiene che l'inserzione di siffatti nomi nel Canone sia di origine extraromana, e il Sacramentario Gelasiano prescrive che si recitino solo nelle Messe private.
Le parole pro quibus tibi offerimus vel qui tibi offerunt ("per i quali ti offriamo, e anch'essi ti offrono") sono anch'esse un'innovazione del IX-X secolo, e molti vi vedono una distinzione tra i presenti che offrono e i fedeli per i quali viene offerto il sacrificio.
- Communicantes
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Questa parte nomina la Vergine Maria e, dopo di lei, i dodici Apostoli e dodici martiri. A questa lista di santi il Canone Romano fa seguire, più avanti, una seconda lista, nel Nobis quoque peccatoribus.
Sembra assodato che il Communicantes non appartenga affatto al Canone primitivo; sarebbe stato inserito tardivamente, e ne sarebbe prova la rottura violenta della successione di idee: il Communicantes non si aggancia né con quanto precede né con quanto segue.
È oggetto di disputa tra gli studioso il senso vago della parola Communicantes ("in comunione"), che è grammaticalmente senza complemento[51]. Il contenuto della preghiera è però ovvio: in comunione con i santi si chiede l'aiuto divino per i loro meriti. Non è tanto una supplica quanto una commemorazione. Il participio Communicantes acquisterebbe così il senso di Commemorantes.
La lista dei santi non può essere anteriore al VI secolo, epoca in cui per molti di essi nasce il culto liturgico a Roma.
La redazione della lista attuale si dimostra frutto di un'intelligente revisione[52]. Si compone di ventiquattro nomi, senza contare quello di Maria che li precede. I ventiquattro santi sono:
- dodici apostoli (con Paolo, senza Mattia);
- dodici martiri; tra essi sei vescovi (cinque di Roma, uno di Cartagine), due altri ecclesiastici (Lorenzo e Crisogono, quest'ultimo creduto sacerdote) e quattro laici.
Si pensa comunemente che la redazione definitiva nella forma attuale, sia di San Gregorio Magno. L'elenco romano primitivo (IV-V secolo) fu probabilmente questo: Maria, Pietro, Paolo, Sisto, Lorenzo, Cornelio, Cipriano. Gli apostoli Giovanni e Andrea ebbero culto liturgico a Roma già nel V secolo; durante il VI secolo anche Tommaso, Filippo e Giacomo; nello stesso VI secolo dovettero entrare nel Canone gli altri martiri, e finalmente anche gli apostoli mancanti. Nessun confessore entrò nel Canone Romano.
Il fatto che la lista dei dodici apostoli qui presente si differenzi nettamente dagli elenchi evangelici attesta, se ve ne fosse bisogno, che si sviluppò per conto proprio.
Nel corso della storia le varie liturgie antiche che aveva recepito il Canone Romano vi aggiunsero i santi nazionali e locali, e gli elenchi crebbero. La riforma di San Pio V ridusse stabilmente la lista dei santi del Communicantes al numero definitivo di ventiquattro.
- Hanc igitur
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Tale sezione conclude la parte dell'intercessione. Una volta essa ammetteva molte varianti, come appare dai Sacramentari. Questo era infatti il momento in cui si esprimevano le intenzioni particolari dei fedeli per i quali veniva offerto il sacrificio. Non era una formula fissa, ma si recitava solo in circostanze precise, come ad esempio in occasione di scrutini battesimali, di ordinazioni, di nozze, per defunti, per persone cioè che in determinate circostanze presentavano una speciale offerta. Sotto questo punto di vista assumeva un carattere piuttosto privato e individuale.
Solo più tardi (forse con Gregorio Magno, che ne ha ridotto i numero e vi ha incluso la frase diesque nostros in tua pace disponas, "e disponi i nostri giorni nella tua pace") la preghiera ricevette una formulazione di indole generale, e in quanto destinata alla universalità dei fedeli venne ad essere quasi un duplicato della grande prece intercessoria.
Oggi tale sezione ha conservato il suo carattere originario di raccomandazione particolare in rarissimi casi: Giovedì Santo, Pasqua, Pentecoste (feste battesimali), Messa di cosacrazione episcopale.
Preghiere consacratorie
- Quam oblationem
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Il passaggio dall'ordine dell'offerta materiale a quello del Sacramento si effettua con il testo del Quam oblationem: si domanda che i doni presentati siano benedetti e accetti in modo da diventare il Corpo e il Sangue di Cristo.
In tale parte il testo del Canone Romano si discosta alquanto, ritoccandolo e correggendolo, da quello arcaico che si trova nel De Sacramentis di Ambrogio: quest'ultimo testo contiene espressioni conformi all'antica tradizione, e in particolare all'anafora di Serapione.
Circa i termini usati, spiega il Righetti:
« | La formula (quam oblationem) domanda con una serie di termini propri del linguaggio giuridico romano, che l'oblazione diventi in omnibus, interamente, sotto ogni rapporto, benedictam, consacrata; adscriptam, registrata a merito degli offerenti; ratam, ratificata, cioè riconosciuta valida; rationabilem, spirituale, secondo l'elevato concetto del sacrificio che i filosofi greci dichiaravano essere l'unica forma di culto degna di Dio, in opposizione ai sacrifici carnali, cruenti, ormai aboliti; od anche nel senso di "canonica", secondo le debite forme; acceptabilem, gradita. » | |
Recentemente si è voluto vedere in queste parole una specie di epiclesi della liturgia romana; in realtà si tratta solo di una formula che, anche grazie alla presenza della congiunzione ut ("affinché")[53], ha il significato di costituire un'ultima preparazione al grande mistero.
- Qui pridie quam pateretur
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Seguono le tre formule a scelta dell'acclamazione dell'assemblea, vedi sopra. |
Se fino a questo punto le varie liturgie hanno sviluppato l'anafora in maniera libera, da qui in poi si ritrova invece una chiara uniformità. Il racconto della Cena è l'unico elemento veramente immobile nella storia della Celebrazione eucaristica[54].
Il testo romano del racconto riproduce sostanzialmente i dati evangelici, ma con modifiche e aggiunte verbali derivate in parte dalla tradizione e destinate ad incorniciare le formule consacratorie.
Tra le aggiunte è tipica della liturgia romana l'inciso mysterium fidei ("mistero della fede"), ora traslato dopo le parole della consacrazione e dopo l'elevazione del calice, ma fino al 1970 pronunciato tra le parole di consacrazione del vino. L'aggiunta sembra datare dal VI secolo, e potrebbe essere un'interpolazione di origine gallicana; è probabile che al principio fosse un'acclamazione rituale oppure l'avviso del diacono per richiamare l'attenzione dei fedeli al momento della Consacrazione.
La formula consacratoria è immediatamente seguita da un'ostensione del Corpo e Sangue di Cristo (elevazione). Fino al XII secolo l'unica elevazione delle sacre specie nella Messa era quella che ancora chiude il Canone, durante la dossologia finale. L'elevazione dopo la Consacrazione è piuttosto recente e sembra sorta a causa di una controversia, all'università di Parigi a principio del XIII secolo, circa il momento preciso della transustanziazione. L'elevazione del calice venne poi molto più tardi, per ragioni di simmetria, e si generalizzò solo con il Messale di San Pio V. La visio Corporis Christi ("visione del Corpo di Cristo") era una delle devozioni più care degli ultimi secoli del medioevo, ed entusiasmava i fedeli. Da XVI secolo poi l'uso di guardare le sacre specie scomparve, per ritornare all'inizio del XX secolo, anche grazie alle indulgenze che papa Pio X concesse all'invocazione "mio Signore e mio Dio" (cfr. Gv 20,28 ).
Il rito consacratorio termina con il ricordo del comando di Cristo di ripetere il gesto eucaristico in sua memoria (cfr. Lc 22,19 ).
Preghiere di offerta
Dopo la Consacrazione si trova, in maniera logica, la presentazione al Padre della vittima santa: in questa offerta si può dire che è contenuto tutto il Canone.
Le tre preghiera che la compongono formano una sola orazione; la divisione, introdotta dalle rubriche mette in evidenza tre aspetti della stessa oblazione.
- Unde et memores
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Questa parte del Canone commemora - da qui il nome di anamnesi - i principali misteri della vita e della morte di Gesù. Nel ricordo di questi misteri salutari la Chiesa presenta al Padre il "pane santo della vita eterna e [il] calice dell'eterna salvezza".
Si può considerare come l'espressione più elevata del ringraziamento e della lode a Dio, perché gli presenta l'unico dono degno di Lui (de tuis donis ac datis).
Il testo presenta separatamente il collegio sacerdotale e la famiglia dei fedeli (nos servi tui, sed et plebs tua sancta), e ciò rimanda all'epoca antica in cui l'Eucaristia era celebrata dal Vescovo circondato dal suo presbiterio[55].
- Supra quae propítio
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In questa sezione viene fatta allusione ai sacrifici-tipo dell'Antico Testamento:
- quello di Abele (Gen 4,4 );
- quello di Abramo (Gen 22,1-18 );
- quello di Melchisedek (Gen 14,18 ; cfr. Sal 110,4 ; Eb 5,5-6.10; 6,20-7,17 ).
Tale richiamo, collocato all'interno della formula di offerta, si ritrova in quasi tutte le liturgie orientali del V secolo: il suo simbolismo è passato da un'anafora all'altra, divenendo patrimonio anche del Canone Romano.
San Leone Magno ha poi aggiunto le parole sanctum sacrifícium, immaculátam hóstiam, facendo risaltare così il sacrificio di Melchisedek, che più degli altri si accosta a quello eucaristico.
- Súpplices te rogámus
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Questa terza parte della preghiera di offerta è quella che più ha suscitato discussione tra gli studiosi, soprattutto in relazione alla menzione dell'angelo: liturgisti anche eminenti hanno voluto vedere in esso, che è invocato perché porti l'oblazione santa sull'altare del cielo, o lo Spirito Santo, o lo stesso Verbo[56], o un particolare spirito celeste (l'"angelo del sacrificio"). In realtà sembra che non vi si debba vedere altro che il ministero angelico, il quale presenta a Dio il tributo di adorazione e di ringraziamento della Chiesa, affinché sia non solo un sacrificio gradito a Lui, ma anche Sacramento fruttuoso per le anime. La difficoltà interpretativa è dovuta in parte al fatto che la formula ha subito alterazioni successive, delle quali non si conosce né la data né l'autore.
Se la prima parte di questa frase è una preghiera di offerta (iube haec perférri), la seconda (ut quotquot [..] sumpsérimus [..] repleámur) è una supplica di santificazione per i comunicandi, che in tutte le altre preghiere eucaristiche trova posto nell'epiclesi. In ragione di ciò si parla di un'affinità tra l'epiclesi e questa particolare preghiera.
Approfondendo il significato dell'epiclesi, occorre dire che il termine significa "appello", "chiamata", ed esso indicava in origine la solenne invocazione del nome di Dio sopra una persona o una cosa, quasi a far scendere su di essa la virtù onnipotente di Dio. In questo senso generico l'intero Canone può essere considerato un'epiclesi[57]. Solo con il IV secolo, al tempo delle controversie macedoniane, si insinua il concetto di invocazione particolare dello Spirito Santo affinché trasformi il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo; ciò che di fatto si trova nelle liturgie orientali, ma non in Occidente, dove l'epiclesi fu probabilmente limitata alla semplice invocazione Padre, probabilmente a scopo trinitario. In questo senso si spiega la presenza di un'epiclesi a Roma, chiaramente documentata dalla lettera di Papa Gelasio I a Elpidio di Volterra.
Oggettivamente, però, nell'odierno Supplices te rogamus, dove si vuole fosse l'antica epiclesi, non esiste alcuna menzione dello Spirito Santo, né alcun punto di somiglianza con la concezione orientale. Ciò significa che la Chiesa di Roma non attribuì all'epiclesi nessun valore consacratorio, ma solo una valenza di supplica perché lo Spirito Santo, con la sua presenza, ratifichi l'offerta del popolo di Dio rendendola più gradita al Padre e più gradita ai fedeli.
Preghiere di intercessione finali
Il ritorno delle preghiere d'intercessione dopo la Consacrazione non è originario. Come le prime intercessioni, probabilmente anche queste avevano la loro collocazione originaria nella zona dell'offertorio, ma ogni ipotesi sulla loro primitiva disposizione e sul relativo formulario non può che aver valore di congettura.
Nel linguaggio degli studiosi della liturgia tale sezione viene detta anche "Seconda lettura dei dittici".
- Memento dei defunti
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L'introduzione del Memento dei defunti in questo punto è certamente tardiva; essa manca nei codici più antichi. Ciò viene spiegato[58] con il fatto che a Roma fino al IX secolo non si faceva menzione dei defunti nelle Messe pubbliche celebrate di domenica o in giorno di festa. Non è improbabile che in un primo tempo tale commemorazione fosse legata all'Hanc igitur, dove il ricordo dei trapassati era occasionato dall'offerta presentata in loro suffragio. Aveva quindi un carattere privato e avventizio, bel lontano da quello del Memento dei vivi.
Il linguaggio di questa parte del Canone sa di veneranda antichità[59], e deve considerarsi un riflesso dell'epigrafia dei cimiteri.
- Nobis quoque peccatoribus
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È questo una specie di embolismo del memento dei defunti; si continua infatti la preghiera d'intercessione per i frutti del sacrificio.
Oggetto della supplica è però qui lo stesso sacerdote celebrante e il collegio dei presbiteri, designati chiaramente con l'espressione classica dell'antichità cristiana: famulis tuis. È quindi una preghiera specificamente sacerdotale.
Appare illogica la nuova enumerazione dei santi in questo punto del Canone, dopo quella del Communicantes; la stessa forma stilistica dell'orazione, nella quale i nomi dei martiri hanno una collocazione accidentale, tradisce qualcosa di artificioso. La lista poi non è una prosecuzione ordinata della lista presente sopra, nel Communicantes, ma ne è un'aggiunta supplettiva, inserita qui probabilmente da papa Simmaco all'inizio del VI secolo. In ogni caso questa lista di santi appare come il risultato di una storia di redazione, il cui elemento conclusivo corrisponderebbe a San Gregorio Magno.
La lista si apre con il nome di Giovanni Battista, al quale fanno seguito quattordici martiri: sette uomini e sette donne.
Cercando di decifrare lo sviluppo di questa lista, l'elenco primitivo (VI secolo) si apriva certamente con il Battista e Stefano; seguirono con ogni probabilità Pietro e Marcellino, poi Agnese, Cecilia e Felicita, che furono tre martiri romane. Ben presto si aggiunsero altri santi venerati a Roma:
- Alessandro, con molta probabilità il martire del 10 giugno, cambiato in seguito in Papa Alessandro I;
- le due siciliane Agata e Lucia, che godettero di gran culto a Roma nei secoli V e VI;
- nell'epoca bizantini si aggiunse Anastasia;
- il nome di Felicita trasse la martire africana Perpetua, per cui anche Felicita fu in seguito creduta l'omonima martire africana;
- non sappiamo quando e perché fu inserito Ignazio, che all'epoca era liturgicamente poco venerato;
- gli ultimi a completare la lista furono Mattia e Barnaba, evidentemente allo scopo di includere nel Canone tutti gli apostoli.
Anche questa lista, come quella del Communicantes, subì fuori di Roma varie aggiunte, ma in grado molto minore. San Pio V ammise nel suo Messale l'elenco completo romano dei tempi di San Gregorio Magno.
Dossologie finali
Il Canone Romano si conclude con una solenne glorificazione della Trinità; è uno delgi elementi più antichi della Messa, ed è composta di due frasi indipendenti.
- Prima parte
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La prima parte riprende il tema iniziale del Canone, la glorificazione del Padre per mezzo di Cristo, ma il suo esatto valore è ancora discusso: dal diverso legame della frase con i testi precedenti dipende il significato dell'intera formula.
- Vari autori riallacciano le parole haec omnia al panem sanctum vitae aeternae et calicem salutis perpetuae, anche in forza del fatto che ad essi si riferisce pronome relativo quae nel Supra quae propitio e il pronome dimostrativo haec nel Supplices te rogamus; in questa maniera la preghiera si riferisce ai doni stessi del sacrificio, ma rimane il fatto che la parola omnia appare ridondante per indicare semplicemente gli elementi eucaristici.
- Un'altra interpretazione parte dal fatto che la frase ha forse subito ampliamenti, e ha forse sentito l'influenza della benedizione dei frutti della terra, che in alcune circostanze liturgiche aveva luogo a questo punto della Messa. In tale ottica l'omnia si riferiva alla varietà dei doni presentati all'altare, doni sacrificali e doni di natura. Le formule degli antichi sacramentari precisano chiaramente tale intenzione. Nella liturgia precedente il Concilio Vaticano II rimaneva qui come unico residuo la solenne benedizione dell'Olio degli infermi nella Messa Crismale.
- Seconda parte
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È questa la vera dossologia finale, lode suprema e concorde di tutta la creazione, che, unita a Cristo, in Cristo e per mezzo di Cristo, eleva alla Trinità santa un canto di gloria perenne.
L'Amen conclusivo rappresenta il solo intervento dei fedeli laici nella Preghiera Eucaristica, ma già nel II secolo Giustino ne sottolineava l'importanza: è il grido del popolo cristiano, che esprime a Dio la pienezza del suo culto e gli dice il grazie di tutta l'umanità redenta.
Curiosità
Alessandro Manzoni ha tratto ispirazione dalla lista di santi del Nobis quoque peccatoribus per alcuni personaggi dei suoi Promessi Sposi.
Note | ||||||||||
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Bibliografia | ||||||||||
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Voci correlate | ||||||||||
Collegamenti esterni | ||||||||||
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