Sant'Antonio di Padova

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Sant'Antonio di Padova (o da Padova, o anche da Forlì), O.Min.
Presbitero
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battezzato
Santo
Dottore della Chiesa
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Francisco de Zurbarán, Sant'Antonio da Padova (1640 ca.), olio su tela; Madrid, Museo del Prado
Titolo
Incarichi attuali
Età alla morte 35 anni
Nascita Lisbona
15 agosto 1195
Morte Padova
13 giugno 1231
Sepoltura
Appartenenza Ordine di Sant'Agostino (1210-1220)
Ordine dei Minori (1220-1231)
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Professione religiosa Lisbona, 1210
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° vescovo di Roma
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Cardinali creazioni
Proclamazioni
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Eventi

Iter verso la canonizzazione

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Venerabile il [[{{{aV}}}]]
Beatificazione [[{{{aB}}}]]
Canonizzazione 30 maggio 1232, da Gregorio IX
Ricorrenza 13 giugno
Altre ricorrenze
Santuario principale Basilica di Sant'Antonio, Padova
Attributi Libro, pesce, giglio, Gesù Bambino fra le braccia
Devozioni particolari Invocato per trovare oggetti smarriti e dalle donne per trovare marito
Patrono di Padova, Lisbona, Portogallo, orfani, prigionieri, poveri, oppressi, donne incinte, affamati, viaggiatori, oggetti smarriti, pescatori, cavalli, marinai, nativi americani, sterilità, bambini ammalati, vetrai, reclute.
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Incoronazione
Investitura
Predecessore
Erede
Successore
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Trattamento {{{trattamento}}}
Onorificenze
Nome templare {{{nome templare}}}
Nomi postumi
Altri titoli
Casa reale {{{casa reale}}}
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Coniuge

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Consorte

Consorte di

Figli
Religione {{{religione}}}
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Collegamenti esterni
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Tutti-i-santi.jpgNel Martirologio Romano, 13 giugno, n. 1:
« Memoria di sant'Antonio, sacerdote e dottore della Chiesa, che, nato in Portogallo, già canonico regolare, entrò nell'Ordine dei Minori da poco fondato, per attendere alla diffusione della fede tra le popolazioni dell'Africa, ma esercitò con molto frutto il ministero della predicazione in Italia e in Francia, attirando molti alla vera dottrina; scrisse sermoni imbevuti di dottrina e di finezza di stile e su mandato di san Francesco insegnò la teologia ai suoi confratelli, finché a Padova fece ritorno al Signore. »

Sant'Antonio di Padova (o da Padova, o anche da Forlì), detto anche Doctor Evangelicus (Lisbona, 15 agosto 1195; † Padova, 13 giugno 1231), è stato un presbitero e teologo portoghese naturalizzato italiano dell'Ordine dei Minori, proclamato Dottore della Chiesa da papa Pio XII.

Nacque in una famiglia di nobili portoghesi discendenti dal crociato Goffredo di Buglione.

Prima tra i canonici regolari agostiniani di Coimbra (1210), poi (1220) francescano, predicò dappertutto, nel Portogallo prima, poi in Italia, nutrendo le sue parole con la dottrina delle Sacre Scritture.

Nel 1221 incontrò, alla Porziuncola, San Francesco d'Assisi, che, nel giugno di quell'anno, lo inviò all'eremo di Montepaolo, presso Forlì, città nella quale iniziò, l'anno successivo, la sua attività di predicatore: il suo intervento, oltretutto improvvisato per ovviare all'imprevista assenza della persona incaricata, rivelò gli straordinari doni comunicativi di Antonio. Per questo, venne anche conosciuto, in vita, come Antonio da Forlì: in proposito, lo storico Gabirle Zelli testimonia appunto: esiste a Lisbona, in cattedrale, una lapide che lo ricorda come Sant'Antonio da Forlì[1].

Professore di teologia e nello stesso tempo predicatore, combatté l'eresia catara, specialmente in Francia, con estremo vigore e con una eccezionale forza di convinzione. Fu trasferito poi a Bologna e quindi a Padova, città di cui è patrono.

Morì all'età di 35 anni in concetto di santità. All'indomani della sua morte innumerevoli miracoli fecero sì che egli fosse invocato dai fedeli come un infaticabile taumaturgo.

Nel 1232, l'anno successivo alla sua morte, venne canonizzato da papa Gregorio IX.

Papa Pio XII, che nel 1946 ha annoverato Sant'Antonio tra i dottori della Chiesa cattolica, gli ha dato il titolo di dottore evangelico, tanto era solito sostenere le sue affermazioni con citazioni del Vangelo.

La grande Basilica di Padova è dedicata a Sant'Antonio e viene comunemente ricordata in città come "Il Santo".

Viene ricordato dalla chiesa cattolica il 13 giugno; a Padova, in occasione della ricorrenza, si svolge un'imponente celebrazione con processione.

Nel cuore del Medioevo

Gli anni in cui visse Sant'Antonio si collocano nel cuore del Medioevo. A quel tempo, tutta l'Europa era scossa da profondi cambiamenti: la società feudale dei castelli e dei monasteri stava per lasciare il posto alla società urbana dei Comuni e della borghesia.

L'affrancamento dei servi della gleba (non più schiavi della terra assoggettati al signore feudale) e l'aumento della produzione agricola avevano favorito una maggior mobilità delle persone e la ripresa dei commerci fra campagna e città. Artigiani e commercianti, notai e medici, mercanti e banchieri s'apprestavano a dar vita ad una nuova classe sociale: la borghesia, che andava ad aggiungersi ai cavalieri, al clero e ai nobili.

Le antiche città si ripopolavano, ne sorgevano di nuove: tutte animate da fremiti d'indipendenza e, come scriveva Ottone, vescovo di Frisinga, al nipote Federico Barbarossa: "così desiderose di libertà da volersi reggere col governo dei Consoli anziché dei Principi".

Ad accelerare i cambiamenti - nel corso del Duecento - contribuì il declino dell'Impero. Indebolito dalle lotte con il Papato e dei Comuni, dopo la morte di Federico II, si frantumerà in una miriade di staterelli: è il caso di Germania e Italia. Altrove si costituirono invece regni nazionali: in Francia, Inghilterra e nella Penisola Iberica, dove la Reconquista favorì il sorgere, sulle ceneri dello sconfitto califfato arabo, di tre regni cristiani indipendenti: quelli del Portogallo, di Castiglia, e d'Aragona.

In questo mutato quadro politico europeo meritano un cenno particolare gli avvenimenti della Chiesa di quel tempo. Gli storici, che amano racchiudere periodi ed avvenimenti entro angusti slogan esemplificativi, sostengono essere quella l'epoca delle Cattedrali e delle Crociate; altri, invece, la chiamano l'epoca della Rinascita evangelica. Hanno ragione gli uni e gli altri.

L'epoca delle Cattedrali

Monumento per eccellenza della città che rinasceva, dopo l'XI secolo, la Cattedrale divenne (così come lo erano stati i monasteri nei secoli precedenti) il cuore della vita religiosa del popolo, che attorno ad essa scandiva i ritmi dell'esistenza quotidiana: il nascere, il vivere, il morire.

All'apice di questa società cristiana medievale c'era l'onnipotenza di Dio. Non meraviglia, quindi, che la sua "casa" venisse trasformata in uno scrigno ripieno di tesori d'arte, segno visibile e maestoso dell'alleanza col suo popolo.

L'epoca delle Crociate

Per l'Europa correva un sol grido: "Dio lo vuole". Fu la parola d'ordine che scatenò le Crociate, in tutto sette: le prima nel 1096, l'ultima nel 1270.

Papa Urbano II fu il primo a prendere l'iniziativa. Convocò un Concilio in Francia, a Clermont, e convinse il popolo cristiano a raggiungere in armi Gerusalemme per liberare la Terra Santa dagli Infedeli.

L'epoca della Rinascita evangelica

I principi che sostenevano la Chiesa medievale - dominio del mondo e fuga dal mondo - trovano mirabile sintesi in due pontefici: Papa Innocenzo III (1198-1216), papa a 37 anni, e in suo nipote Papa Gregorio IX (1227-1241).

Assertori convinti del potere papale ed attenti riformatori in campo spirituale, avvertirono entrambi l'esigenza di rinnovare le istituzioni ecclesiastiche, sospinti anche da un incalzante movimento popolare che criticava l'eccessivo interesse della Chiesa per le cose terrene. Fu sotto questi due Papi, e con la loro benedizione, che sono nati gli Ordini mendicanti, la cui diffusione in Europa fu davvero provvidenziale per arginare il dilagare delle numerose sette ereticali.

In questo difficile apostolato di frontiera si sono distinti, per primi, i francescani e i domenicani, i quali, superando il tradizionale isolamento claustrale con la fondazione di conventi e chiese nelle città e propugnando essi stessi un profondo rinnovamento della vita della Chiesa, seppero fronteggiare le eresie con la predicazione e la testimonianza esemplare.

Francesco d'Assisi e Domenico di Guzmán furono gli artefici di quella rinascita evangelica. Sullo sfondo di tali avvenimenti, e contemporaneo dei due santi, visse ed operò il giovane monaco Antonio, Santo di Padova.

Tra grandi uomini, tre grandi santi; Gregorio IX, che li conobbe personalmente, li canonizzerà tutti e tre, uno dopo l'altro: Francesco nel 1228, Antonio nel 1232, Domenico nel 1234.

Da Fernando ad Antonio

La Chiesa di Sant'Antonio in Lisbona (Portogallo).

Dell'infanzia di Sant'Antonio di Padova si conoscono poche cose con certezza: il nome di battesimo, Fernando (che significa "ardito nella pace"), e la città natale, Lisbona, che si diceva fosse in finibus mundi, ai confini del mondo. Già sulla data di nascita gli storici non concordano, anche se i più propendono per il 15 agosto 1195, deducendo tale data da quella certa della morte: 13 giugno 1231, e sottraendo ad essa gli anni di vita, trentasei, che gli attribuisce il "Liber miraculorum", scritto verso la metà del secolo XIV.

Scarno è pure il racconto che ci offre la biografia più antica, la Vita prima o Assidua, compilata da un anonimo frate nel 1232, dopo appena un anno dalla morte del Santo. E quel che scrive dice d'averlo appreso, in buona parte da Soerio II Viegas, vescovo di Lisbona dal 1210 al 1232.

« Mi hanno informato - ci fa sapere il biografo - che nella zona occidentale del regno di Portogallo sorge una città situata all'estremo confine del mondo. I suoi abitanti la chiamano Ulisbona, poiché secondo l'opinione corrente fu fondata da Ulisse. Entro la cerchia delle mura di questa città s'erge una chiesa d'ammirevole grandezza, dedicata alla gloriosa Vergine Maria, e vi riposano, custodite con grande onore, le spoglie preziose e venerate del beato martire Vincenzo. I fortunati genitori di Antonio possedevano, dirimpetto al fianco ovest di questo tempio una abitazione degna del loro stato, la cui soglia era situata proprio vicino all'ingresso della chiesa. Erano essi nel primo fiore della giovinezza allorché misero al mondo questo felice figlio; e al fonte battesimale gli posero nome Fernando. E fu ancora a questa chiesa, dedicata alla santa Madre di Dio, che lo affidarono affinché apprendesse le lettere sacre e, come guidati da un presagio, incaricarono i ministri di Cristo dell'educazione del futuro araldo di Cristo »

Il racconto è tutto qui, eppure ci dice parecchie cose. Lisbona era poco più di un borgo fortificato sulle colline prospicienti la foce del Tago, dirimpetto all'Oceano Atlantico, avamposto dei Crociati nella lotta contro i Saraceni, da quando nel 1147 re Alfonso I l'espugnò con il loro aiuto. La capitale del regno era invece 200 km più a nord, a Coimbra, in contrade più sicure. Nel mezzo del borgo, com'era normale che ci fosse, stava la Cattedrale: un edificio romanico della seconda metà del XII secolo, ritoccato poi con aggiunte gotiche dopo il terremoto del 1344 e in gran parte rifatto dopo quello del 1755; oggi è sede patriarcale e di fronte ad essa sorge una chiesa barocca dedicata al Santo di Padova, proprio sull'area che l'anonimo biografo descrive come la sua casa natale.

Accanto alla Cattedrale c'era la scuola episcopale, un'istituzione molto diffusa a quei tempi, in parte volta allo studio e in parte al servizio liturgico. Si sa che i genitori erano nel fiore della giovinezza al momento della nascita di Fernando e che possedevano una casa degna del loro stato. Quale stato? Allora come oggi possedere un'abitazione in centro, a ridosso della Cattedrale, non era impresa da poveretti. Sappiamo inoltre dal notaio padovano Rolandino, coevo del Santo ed autore di un'altra Cronaca, che Fernando era nato da una famiglia nobile e potente. Sua madre si chiamava Maria e suo padre Martino Alfonso, cavaliere del re e, secondo alcuni, discendente di Goffredo da Buglione (l'eroe crociato della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso).

Sant'Antonio al momento dell'uscita in processione il 13 giugno, Chiesa di Maria SS. Immacolata di Catenanuova (EN).

Ma chi erano veramente i genitori di Fernando? Sopravvissero al grande figlio, morto ancor giovane? Giunse in quella "periferia del mondo" la sua fama di sapienza e di santità? Ebbero la gioia di venerarlo sull'altare? Sono domande che ogni biografo si pone pur sapendo di non potervi rispondere. Ma queste non sono solo le risposte insolute di chi s'accinge a scrivere dell'infanzia di Sant'Antonio. Se poco si conosce di lui, bambino, ancor meno si sa del Fernando giovanotto.

« Il tempo che va dai dieci ai vent'anni è stato dimenticato anche dalla leggenda. Il pochissimo che siamo in grado di dirne è frutto di congetture, basate su scarse righe di documenti e sulla conoscenza dell'epoca e dell'ambiente. Finiti gli anni della scuola non sembra inverosimile che Fernando, primogenito e quindi erede di un nome illustre, sia stato indirizzato dal padre ad apprendere il mestiere delle armi insieme ad altri coetanei. Ma in quel modo, pur così brillante e prodigo di promesse, egli trovava un nonsoché di vuoto, d'inutile. Mentre gli amici ristagnavano beatamente nell'ozio e negli amori, sempre più soffocante diventava a Fernando quell'ambiente. »
(Vergilio Gamboso, espero antoniano)

Quando più tardi il Santo fustigherà i vizi dell'opulenta società patavina non farà che rievocare immagini di quegli anni giovanili. Dove c'è abbondanza di ricchezze e delizie - scriverà nei Sermoni -, lì cova la lebbra della lussuria... Essa suole abitare in coloro che sono tiepidi e oziosi.

A quindici anni, Fernando fece il grande passo. Sta scritto nell'Assidua:

« Il mondo già gli offriva occasioni di sperimentarne ogni giorno di più le follie; e quel piede che egli non ancora del tutto vi aveva sulla soglia, ritrasse pel timore che vi si attaccasse la polvere delle gioie terrene, così da recar ostacolo a chi veloce già correva con l'anima sulla via del Signore. »

La vocazione di Sant'Antonio assume valore di scelta coraggiosa perché Fernando ben sapeva quel che lasciava e quanto difficile fosse rinunciarvi senza l'aiuto di Dio. Ma quando, agli agi della casa paterna, preferì le austere mura del convento, non ebbe esitazioni, ammonito anche dalle parole di Gesù: "Chi mette mano all'aratro e poi si volge indietro non è adatto per il regno di Dio" (Lc 9,62 ).

Su di un'altura, poco fuori Lisbona, sorgeva (anzi sorge, perché pur rimaneggiata sussiste ancora) l'Abbazia di San Vincenzo, dono del re Alfonso I e di sua moglie Mafalda di Savoia ai Canonici Regolari (per questo erano chiamati Agostiniani), che allo studio e al raccoglimento nel chiostro alternavano la vita di parrocchia e l'apostolato fra la gente.

Fu alla porta di quel monastero che bussò, nel 1210, il giovane Fernando, accolto con soddisfazione dal priore Gonzalo. Più avanti negli anni, nei suoi Sermoni scriverà:

« Chi si ascrive a un ordine religioso per farvi penitenza, è simile alle pie donne che, la mattina di Pasqua, si recarono al sepolcro di Cristo. Considerando la mole della pietra che ne chiudeva l'imboccatura, dicevano: chi ci rotolerà la pietra? Grande è la pietra, cioè l'asprezza della vita di convento: il difficile ingresso, le lunghe veglie, la frequenza dei digiuni, la parsimonia dei cibi, la rozzezza delle vesti, la disciplina dura, la povertà volontaria, l'obbedienza pronta... Chi ci rotolerà questa pietra dall'entrata del sepolcro? Un angelo sceso dal cielo, narra l'evangelista, ha fatto rotolare la pietra e vi si è seduto sopra. Ecco: l'angelo è la grazia dello Spirito Santo, che irrobustisce la fragilità, ogni asperità ammorbidisce, ogni amarezza rende dolce con il suo amore. »

Rivestito del bianco saio degli Agostiniani, Fernando iniziò così il suo cammino verso il sacerdozio. Un inizio piuttosto "movimentato", stando a quanto si legge nell'Assidua:

« Vi dimorò per circa due anni, molestato dalle frequenti visite degli amici, così importune alle anime assetate di raccoglimento. Per liberarsi di queste cause di turbamento, decise di abbandonare la terra nativa in modo da servire il Signore in tranquillità, nella sicurezza di un porto straniero. E avendo ottenuto a fatica il permesso dal superiore, non mutò ordine, ma solo residenza, trasferendosi al monastero di Santa Croce in Coimbra. »

Finalmente in pace e senza l'appello delle visite importune, Fernando poté dedicarsi completamente agli studi e alla vita ascetica. Divenuto sacerdote, e poiché era versato nelle Sacre Scritture e nella predicazione, al monaco Fernando si prospettava una brillante carriera all'interno del suo Ordine. Se non che...

Nelle vite dei santi si tocca davvero con mano quanto sia veritiero il detto popolare: "l'uomo propone e Dio dispone". La Provvidenza ha dei percorsi tutti suoi, non coincidenti quasi mai con quelli ipotizzati dagli uomini. Sant'Antonio non fa eccezione. Due fatti ce lo confermano.

Il priore corrotto

Finché sul trono del Portogallo regnò Alfonso I, anche gli affari ecclesiastici del Paese filavano via lisci. Ma quando gli succedette il figlio Sancio I e peggio ancora, alla morte di costui (1211), il nipote Alfonso, le cose peggiorarono notevolmente. Alfonso II nominò a Santa Croce un priore condiscendente, un certo Giovanni, che oltre a gettare discredito sull'abito che portava, dando scandalo per la vita dissoluta, dilapidò in poco tempo le sostanze del monastero. Incorse anche nella scomunica papale, ma Papa Onorio III era troppo lontano per impensierirlo e poi, lì sul posto, godeva dell'appoggio del re.

A poco a poco la comunità monastica di Coimbra finì per spaccarsi in due correnti: da una parte gli amici del priore, dall'altra gli amici del Signore, tra cui Fernando, il cui stato d'animo immaginare. Proprio lui, che per non essere importunato dagli amici aveva deciso di cambiare convento!

Di certo il passaggio da Lisbona a Coimbra fu per lui come passare dalla padella alla brace. Ricordando quel tempo, il Santo dirà: "Il superiore è detto Casa del Padre, perché sotto di lui il suddito, come figlio entro la casa paterna, deve trovar riparo dalla pioggia della concupiscenza carnale, dalla tempesta della persecuzione diabolica, dall'arsura della prosperità mondana". L'esatto contrario di come si comportava il priore Giovanni!

Il martirio dei frati

A migliaia di chilometri da Coimbra viveva un altro grande santo, Francesco d'Assisi, che proprio in quegli anni stava approntando una spedizione missionaria fra i Musulmani d'Africa. Fu così che nel 1219, passando per la Francia, la Spagna e il Portogallo, partirono alla volta del Marocco cinque suoi frati: tre sacerdoti, Berardo, Pietro ed Ottone, e due fratelli laici, Adiuto e Accursio.

A Coimbra vennero accolti dalla regina Urraca, simpatizzante dei "poverelli", ai quali aveva donato il romitorio di Olivares poco lontano dalla città. Ma prima dei frati giunse la fama: il loro fondatore - si diceva - aveva abbandonato la vita ricca e spensierata per dedicarsi completamente al Signore; e ad essi aveva imposto di vivere in grande povertà, elemosinando per le strade e praticando alla lettera il Vangelo. Lo sconfinato amore per Dio e il prossimo conferiva loro un fascino particolare, che ammaliò subito il nostro Fernando.

Quando seppe - mesi dopo - del loro martirio in Marocco, provò grande dolore. Scrive l'Assidua che Fernando diceva in cuor suo: {{Oh, se l'Altissimo volesse far partecipe anche me della corona dei suoi martiri!". E quando i corpi dei cinque frati vennero traslati a Coimbra ed esposti ai fedeli nella chiesa reale di Santa Croce, Fernando fu tra i primi ad accorrere. Lì, davanti a quei martiri, prese una decisione che maturava da tempo: Fratelli carissimi, con vivo desiderio vorrei indossare il saio del vostro ordine.}}

Da Lisbona a Coimbra, ed ora lungo le strade del mondo, la Provvidenza, seppur per gradi, l'aveva condotto alla scelta vocazionale definitiva.

Lasciato il bianco saio agostiniano per quello grigio dei "poverelli", e volendo rimarcare con un gesto eclatante il radicale mutamento di vita, decise di cambiare il nome di battesimo: da Fernando in Antonio, per omaggiare il grande monaco orientale cui era dedicato il romitorio francescano di Olivares.

Naufrago in Sicilia

Rivestito del ruvido saio di sacco dei seguaci di Francesco, Antonio s'apprestava a lasciare il convento di Santa Croce, quand'ecco sulla soglia comparire un monaco agostiniano che gli grida in faccia tutta la sua amarezza per quella dipartita: "Va', va' pure con loro che diventerai santo!". E Antonio, di rimando: "Vorrà dire che quando sentirai che lo sono diventato ne loderai il Signore". Poi, chinato il capo, si unì ai nuovi confratelli e "scortato" da loro s'incamminò, a piedi scalzi, su per la collina sovrastante la città.

I mesi passavano veloci, ma un chiodo fisso lo tormentava. Non riusciva a togliersi dalla mente quei cinque frati, decapitati in Marocco, che ora riposavano laggiù in città, nella cripta del suo vecchio monastero. Passeggiando sulla collina degli ulivi gli pareva che il vento gli portasse le loro voci. Dapprima flebili poi sempre più forti, dicevano: "Antonio perché non prendi il nostro posto?". Dice l'Assidua che "lo zelo per la diffusione della fede lo stimolava con forza sempre più incalzante e la sete di martirio, che gli ardeva in cuore, non gli consentiva riposo". Gli rimordeva pure la coscienza: lui, quand'era ancora Fernando, laggiù in Santa Croce, davanti a quelle bare, aveva giurato di sostituirli nella terra dei Saraceni per spartire con essi la palma del martirio. E quando quelle voci trasportate dal vento divennero grida e tormento, Antonio lasciò il romitorio e corse dal superiore, quel Fra Giovanni Parenti, allora provinciale della Spagna e del Portogallo, che aveva incontrato il giorno della traslazione dei martiri; lo stesso che l'aveva accolto nell'ordine dei frati Minori. Aprì il suo cuore a Fra Giovanni ed ottenne il premesso di partire. Finalmente missionario! Nell'autunno del 1220 diede addio alla terra natale, che mai più avrebbe riveduto, e s'imbarcò con un confratello, Fra Filippino di Castiglia, alla volta del Marocco. Ma ancora una volta i piani d'Antonio erano destinati a scontrarsi con quelli di Dio.

La malaria, invece del martirio

Nei Sermoni c'è una pagina in cui Sant'Antonio parla del regno di Dio: "È il bene supremo, per questo dobbiamo cercarlo. Lo si cerca con la fede, con la speranza, con la carità".

Ebbene, Antonio sbarcando in Africa si sentiva Cavaliere di quel regno e ciò che andava cercando era di estenderne il dominio e di "arruolarvi nuovi soldati". Se questi erano i progetti di Antonio, la Provvidenza ne coltivava ben altri. E, come leggiamo nell'Assidua, "l'Altissimo, che conosce il cuore degli uomini, si oppose ai suoi progetti e, colpendolo con grave malattia, lo afflisse duramente per tutto l'inverno".

Costretto a letto dalle febbri malariche, Antonio non si dava pace: era venuto in Marocco per offrire la sua vita a Dio per la conversione dei Saraceni ed ora se la sentiva da lui togliere prim'ancora d'averne incontrato uno. Se la malaria lo fiaccava nel fisico, quell'ansia missionaria non appagata lo tormentava nello spirito, finché l'assalì il dubbio atroce d'aver tentato di forzare la volontà di Dio e che la sua venuta in Africa fosse da ascriversi a superbia, alla sua sete di gloria. Ma Antonio era uomo di profonda pietà: nella preghiera e nella meditazione sapeva mettere a nudo l'anima e trovarvi il giusto lenimento per le sue ferite. A poco a poco si convinse che accettare la volontà di Dio voleva dire abbandonarsi nelle sue mani.

Spiritualmente rasserenato, non gli restava ora che curare il corpo. La salute, però, andava di male in peggio e il clima torrido non gli dava requie. Fra Filippino lo convinse finalmente a rientrare a Coimbra, laddove, fra gli ulivi del romitorio, il clima sarebbe stato più propizio per una completa guarigione.

Neanche stavolta, però, il vento della Provvidenza soffiò per il verso giusto. Investita da una tremenda tempesta, la nave che riportava in patria Antonio e Filippino ruppe le vele e il timone. Smarrita la rotta e ormai alla deriva sulle onde del Mediterraneo, lo scafo finì per arenarsi sulla coste della Sicilia, poco sotto Messina. Soccorsi dai pescatori, i due frati vennero portati in un vicino convento dei Francescani.

Dai confratelli di Messina, Antonio apprese che nel mese di maggio, in occasione della Pentecoste, Francesco avrebbe radunato tutti i suoi frati per il Capitolo Generale. L'invito a parteciparvi era esteso a tutti, e tutti l'accettarono di buongrado, compreso Antonio, che aveva qualche motivo in più per gioirne: finalmente avrebbe conosciuto l'uomo per il quale aveva abbandonato la carriera degli studi per seguirlo sulla strada della povertà; e poi, naufragando in Sicilia, era rimasto senza casa e senza superiori. Andando pellegrino ad Assisi, avrebbe reso omaggio a Francesco e ritrovato il suo Provinciale, Fra Giovanni Parenti. Così, nella primavera di quell'anno 1221, a piedi, accompagnato dai frati di Messina, Antonio cominciò a risalire l'Italia.

L'incontro con Francesco

Simone Martini, Sant'Antonio da Padova e san Francesco d'Assisi (1312 - 1317), affresco; Assisi, Basilica di San Francesco, chiesa inferiore

Ci vollero mesi di cammino per raggiungere l'Umbria ma, al pari dei suoi confratelli di Messina, l'unico conforto che mitigasse ad Antonio il faticoso viaggio era la gran voglia d'incontrare Francesco e d'abbeverarsi alla fonte genuina del suo insegnamento. Aveva conosciuto il "Poverello d'Assisi" attraverso la testimonianza di alcuni dei suoi seguaci, e facendo vita comune con essi aveva assaporato il profumo del Vangelo. Questo gli era bastato per lasciare l'agiato convento di Santa Croce e farsi francescano. Nella tranquillità del romitorio di Coimbra aveva poi ritrovato la pace e se stesso, e nella semplicità di quei frati uno stimolo a ricercare le cose di Dio con spirito nuovo. Scriverà nei Sermoni: "In un'acqua torbida e mossa chi vi s'affaccia non viene rispecchiato. Se vuoi che il viso di Cristo che ti guarda si rispecchi in te, esci dal tumulo delle cose esteriori, sia tranquilla la tua anima". Ed ora, arrivando ad Assisi, avrebbe potuto finalmente ammirare l'albero di cui aveva gustato i frutti, il cui nettare l'aveva rigenerato.

Man mano che la piccola comitiva s'avvicinava alla meta, andava numericamente ingrossandosi. E quando Antonio vi giunse, la valle mistica attorno alla Porziuncola risuonava già di canti e di preghiere. Ospitati dentro capanne improvvisate con canne e stuoie e sfamati da ventitré mense, più di tremila frati attendevano l'inizio del Capitolo Generale, che aveva per tema un versetto del Salmo 143: "Sia benedetto il Signore mio Dio, che addestra le mie mani alla battaglia". Presiedeva le riunioni plenarie, quell'anno, il cardinale Raniero Capocci (in assenza del "patron" dell'Ordine, il cardinale Ugolino dei Conti di Segni, futuro Papa Gregorio IX, il papa che canonizzerà Francesco), coadiuvato come consuetudine da frate Elia, l'efficiente braccio destro del Poverello.

Così descrive quell'adunata un testimone oculare, Fra Giordano da Giano:

« In questo Capitolo, Francesco (che era da poco tornato dopo un anno di missione in Oriente) predicò ai frati insegnando loro la virtù ed esortandoli a mostrare al mondo la pazienza e il buon esempio. Ma quant'era in quel tempo tra i frati la carità, la pazienza, l'umiltà, l'obbedienza e la letizia fraterna, chi mai potrà raccontarlo? Un Capitolo così, sia per la moltitudine dei religiosi come per la solennità delle cerimonie, io non vidi mai più nel nostro Ordine. E benché tanto fosse il numero dei frati, tuttavia con tale abbondanza la popolazione vi provvedeva, che dopo sette giorni i frati furono costretti a chiudere la porta e a non accettare più niente; anzi restarono altri due giorni per consumare le vivande già offerte e accettate. »

Il Capitolo durò per tutta l'Ottava di Pentecoste; molti i problemi sul tappeto: lo stato dell'Ordine, la richiesta di novanta missionari per la Germania, la discussione sulla nuova Regola. Le richieste di modifica della Regola primitiva furono per Francesco un cruccio ed una pena: lassisti e spiritualisti rischiavano di spaccare l'Ordine in due tronconi, né lui da solo - se ne rendeva conto - poteva porvi rimedio. L'Ordine s'era troppo ingrandito e ai giovani accorsi con entusiasmo difettava un'eguale adesione alla disciplina, mentre ai dotti risultavano strette le disposizioni sulla povertà assoluta. Con la mediazione del Cardinale si addivenne, però, ad un compromesso che salvaguardava ad un tempo l'autorità morale di Francesco e l'integrità dell'Ordine. La nuova Regola verrà poi approvata da Papa Onorio III il 29 novembre 1223.

Antonio si trovò quindi, suo malgrado, nel mezzo di discussioni che, per la sua giovane militanza nell'Ordine, forse poco comprendeva. Egli era venuto per incontrare il maestro, colui che aveva cambiato il corso della sua vita, e questo gli bastava. Era pure venuto nella speranza di ritrovare il suo antico superiore, ma tacendo gli storici dobbiamo arguire che l'incontro non sia avvenuto. Di certo sappiamo quanto scrive l'anonimo frate nell'Assidua:

« Concluso il Capitolo nel modo consueto, quando i ministri provinciali ebbero inviato i fratelli loro affidati alla propria destinazione, solo Antonio restò abbandonato nelle mani del ministro generale, non essendo stato chiesto da nessun provinciale in quanto, essendo sconosciuto, pareva un novellino buono a nulla. Finalmente, chiamato in disparte frate Graziano, che allora governava i frati della Romagna, Antonio prese a supplicarlo che, chiedendolo al ministro generale, lo conducesse con sé in Romagna e là gl'impartisse i primi rudimenti della formazione spirituale. Nessun accenno fece ai suoi studi, nessun vanto per il ministero ecclesiastico esercitato, ma nascondendo la sua cultura e intelligenza per amor di Cristo, dichiarava di non voler conoscere, amare e abbracciare altri che Gesù crocifisso. »

Frate Graziano, apprezzando l'umiltà d'Antonio, decise di prenderlo con sé. Oltretutto aveva giusto bisogno di un sacerdote per l'eremo di Montepaolo (vicino all'odierna Castrocaro), sulle colline del forlivese. Lassù, in mezzo ai boschi, una chiesetta, alcune capanne ed un orto ospitavano sei frati, tutti laici, che necessitavano di un confratello che celebrasse l'Eucaristia. Da tempo ne aspettavano uno, e arrivandovi Antonio gli fecero gran festa.

In compagnia di quei sei monaci, Antonio vivrà un intero anno. Aveva chiesto ed ottenuto che gli venissero affidati i lavori più umili, quali lavare pentole e pulire per terra. Preghiera e meditazione erano invece, per il resto della giornata, le occupazioni principali, nel nascondimento della sua cella ricavata in una grotta poco distante dall'eremo. Dice a proposito l'Assidua:

« Soddisfatto l'obbligo della preghiera mattutina comunitaria si ritirava in quella cella, portando con sé un piccolo pezzo di pane e una ciotola d'acqua. Così passava la giornata in solitudine, costringendo la carne a servire lo spirito; tuttavia, seguendo le prescrizioni della regola, sempre ritornava in comunità all'ora della riunione. Ma più di una volta, al richiamo della campana, mentre s'accingeva a raggiungere i fratelli, sfinito dalle veglie e spossato dall'astinenza, vacillava nel cammino e, non reggendosi, i abbatteva al suolo. »

Sarà il suo secondo noviziato. Il primo, quello di Coimbra, fu il periodo dell'approccio, dell'iniziazione; questo di Montepaolo fu scuola di vita. Lontano dalla città e dagli studi eruditi, a contatto diretto con la natura, la mente e il cuore d'Antonio si lasciarono plasmare dalla voce di Cristo, nella preghiera e nella contemplazione, e dall'esempio quotidiano dei confratelli, esperti maestri di regola francescana. Nel frattempo, le mani di Dio, in cui Antonio s'era definitivamente abbandonato, stavano preparando per lui gli anni più belli, quelli della vita pubblica, della predicazione e dell'apostolato diretto.

La chiamata venne improvvisa e - al solito - casuale. Sul finire dell'estate del 1222 (ma alcuni anticipano la data alla Quaresima) la comunità francescana scese a valle per assistere alle ordinazioni sacerdotali nella cattedrale di Forlì. L'Assidua racconta che "venuta l'ora della conferenza spirituale il Vescovo cominciò a pregare i frati Predicatori presenti affinché rivolgessero un discorso d'esortazione; ma quelli, uno dopo l'altro, si schermirono affermando che non era loro possibile né lecito improvvisare. Allora il superiore, volgendosi ad Antonio, gli impose d'annunciare ai convenuti quanto gli venisse suggerito dallo Spirito". Non che il superiore dell'eremo di Montepaolo stravedesse per la preparazione culturale d'Antonio, anzi lo stimava più adatto a strofinare pentole che ad esporre i sacri testi delle Scritture; però si ricordava di averlo sentito parlare - al di fuori della messa - in latino.

Antonio oppose resistenza fin che l'obbedienza non gli impose di salire sul pulpito. Si può immaginare quanto i sei fraticelli di Montepaolo si sentissero in imbarazzo osservando il loro confratello in procinto di predicare davanti al Vescovo, ai preti e al popolo di Forlì. Chissà che magra figura - ed essi con lui - avrebbe rimediato! Invece "la sua lingua, mossa dallo Spirito Santo, prese a ragionare di molti argomenti con ponderatezza, in maniera chiara e concisa".

Prim'ancora che la predica volgesse alla fine, la meraviglia e lo stupore avevano lasciato il posto all'ammirazione. Quella predica improvvisa fu un gran successo; la fama d'Antonio valicò i confini della Romagna e giunse fino ad Assisi. Da lì partì l'ordine di distogliere quel santo frate dai servizi di cucina per destinarlo definitivamente alla predicazione. Né dal canto suo Antonio si montò la testa; dirà: "Dobbiamo temere il lampo delle lodi umane; subito dobbiamo raccoglierci e chiuderci in noi stessi per non perdere, tra i clamori del mondo, il prezioso tesoro che va maturando nell'intimo della nostra anima".

La mula e gli eretici

Scendendo da Montepaolo, frate Antonio non sottovalutava affatto le difficoltà che avrebbe incontrato nello svolgimento del suo nuovo incarico. Profondo conoscitore della Sacra Scrittura ben sapeva che l'annuncio del messaggio cristiano avrebbe comportato sacrifici, incomprensioni, umiliazioni; i profeti, i martiri, lo stesso Gesù Crocifisso lo mettevano in guardia dai facili entusiasmi. Il mondo - ieri come oggi - mal sopporta chi diffonde parole di vita eterna, perché ascoltarle vuole dire convertirsi e, quindi, cambiare abitudini e mentalità; ma tutto questo comporta fatiche e rinunce: dubitava che fosse meglio soprassedere e tirare avanti nella mediocrità.

Mentre "passava per città e castelli, villaggi e campagne, dovunque spargendo i semi della vita con generosa abbondanza e con fervente passione", Antonio andava rimuginando in cuor suo le parole del Signore al profeta Isaia: "Grida a piena gola, non desistere. Come una tromba alza la tua voce, denuncia al mio popolo i suoi peccati!".

Antonio ne era convinto: ingiustizie e vizi andavano presi di petto, senza guardare in faccia nessuno; non ebbe pietà soprattutto per quelli che lui chiamava i "cani muti", per chi aveva l'obbligo, dinanzi a Dio, di guidare il gregge e di correggerne i costumi, e non lo faceva. Nei Sermoni scriverà: "La verità genera odio; per questo alcuni, per non incorrere nell'odio degli ascoltatori, velano la bocca con il manto del silenzio. Se predicassero la verità, come verità stessa esige e la divina Scrittura apertamente impone, essi incorrerebbero nell'odio delle persone mondane, che finirebbero per estrometterli dai loro ambienti. Ma siccome camminano secondo la mentalità dei mondani, temono di scandalizzarli, mentre non si deve mai venir meno alla verità, neppure a costo di scandalo". Ed a questo impegno il Santo non venne mai meno.

Ecco una bella preghiera da lui composta per il predicatore:

« Oh Signore Gesù, riguarda il tuo testamento, che hai voluto confermare col tuo sangue. Dà a noi di parlare con fiducia la tua parola. Non abbandonare le anime dei tuoi poveri, che tu hai redente e che altre eredità fuori di te non hanno. Sorreggili, Signore, con la tua forza, perché sono i tuoi poveri. Guidali. Non abbandonarli, perché senza di te si smarrirebbero, ma dirigili fino al traguardo, affinché uniti perfettamente a te, possano giungere a te, fine supremo. »

Oltre all'opera moralizzatrice fra il popolo cristiano, una seconda e più proterva battaglia attendeva frate Antonio: quella contro gli eretici.

Fra i movimenti eretici più diffusi in quel secolo, bisogna menzionare quella degli Albigesi, che prendeva il nome dalla città di Albi nella Francia meridionale; quella dei Catari, che si diffondeva in varie parti d'Italia e della Francia e quella dei Patarini in Lombardia.

Un profondo desiderio di rinnovamento spirituale le animava tutte e tre, ma una visione angelicata del Cristo - ad esempio - in cui vedevano il Maestro e non il Redentore e un'aperta ostilità nei confronti di tutto ciò che era materiale e terreno, le poneva in contrasto con l'insegnamento della Chiesa, che esse identificavano nel potere temporale del Papa e nei preti corrotti.

Anche il francescanesimo era nato come movimento di rinnovamento spirituale, ma la tempra e la probità di Francesco lo seppe mantenere nell'alveo genuino del Vangelo. Il popolo medievale, affascinato da questi segnali di rinascita, ma digiuno di nozioni teologiche, era spesso vittima di movimenti e sette ereticali. Antonio, con la predicazione e con l'esempio, fu un campione nel frapporre argini sicuri tra il popolo e le eresie, che combatté con accanimento, tanto da meritarsi l'appellativo di martello degli eretici.

A salvaguardia della fede non bastava, però, un solo condottiero (anche se battagliero come lui), ma un esercito intero: di qui l'urgenza di promuovere la preparazione teologica dei frati perché fossero in grado di essere maestri di verità fra il popolo. Alla caparbia ostinazione di frate Antonio si deve, tra l'altro, la fondazione nel 1223 del primo studentato teologico francescano a Bologna, presso il convento di Santa Maria della Pugliola.

Dapprima, Francesco, che allo studio preferiva la preghiera, si manifestò scettico di fronte a quel progetto di scuola, ma pressato dagli eventi finì poi per dare il suo assenso, addirittura per iscritto: "A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Mi piace che tu insegni teologia ai nostri fratelli, a condizione però che, a causa di tale studio, non si spenga in esso lo spirito di santa orazione e devozione, com'è prescritto nella regola. Stammi bene".

L'approvazione di Francesco confermò ad Antonio che stava viaggiando nel solco tracciato dalla Provvidenza, la quale non mancherà di sostenere la sua predicazione - all'occorrenza - con miracoli e prodigi.

Per le contrade di Romagna

Antonio ricevette l'incarico di predicare nell'autunno del 1222 e il territorio affidatogli comprendeva, oltre alla Romagna, l'Emilia, la Marca Trevigiana, la Lombardia e la Liguria. Ma fu la Romagna a raccogliere le primizie del suo nuovo apostolato. L'Assidua racconta che Antonio "per volere del cielo raggiunse nella città di Rimini e, vedendo che molti erano ingannati dagli eretici, cominciò a predicare con ardore; la sua parola vigorosa e la dottrina salutare misero radici così profonde nel cuore degli uditori che una folla di credenti si riaccostò lealmente al Signore".

Il capo di quegli eretici, un certo Bonillo, non si lasciava, però, intimorire né convincere dalle parole di Antonio; e non avendo argomentazioni logiche per confutare le sue tesi, gli lanciò una pubblica sfida:

« Frate! Te lo dico davanti a tutti: crederò nell'Eucaristia se la mia mula, che terrò digiuna per tre giorni, mangerà l'Ostia che gli offrirai tu piuttosto che la biada che gli darò io. »

Senza scomporsi, il Santo accettò la sfida. Quattro giorni dopo, ai riminesi ch'erano accorsi in piazza per la grande sfida si parò dinanzi una mula macilenta, malferma sulle gambe per il prolungato digiuno, che tra lo stupore di tutti - e ancor più del suo padrone - rifiutò la biada e andò ad inginocchiarsi ai piedi di frate Antonio.

Né questo è l'unico fatto prodigioso di cui ci parlano le cronache antoniane. Gli eretici, intimoriti dalla sapienza dell'oratore, evitavano di scontrarsi con lui nei pubblici dibattiti; anzi, cercavano di fargli il vuoto attorno, dissuadendo chiunque, con la forza e con l'inganno, dal convenire in piazza per ascoltarlo. Stanco di vedersi "sottrarre" il popolo, un giorno Antonio prese la via del mare e là, dove sfocia la Marecchia, si mise a predicare ai pesci, che facendo capolino tra le onde, si sistemarono per file ordinate, assentendo a bocca aperta alle parole di frate Antonio. La notizia del prodigio passò di bocca in bocca e le piazze si riempirono nuovamente per ascoltare quel santo predicatore.

Leggiamo negli scritti del Santo: "Come le folgori si sprigionano dalle nubi, così dai santi predicatori emanano opere meravigliose. Scoccano le folgori quando dai predicatori balenano i miracoli; ritornano le folgori quando i predicatori non attribuiscono le loro forti gesta a se stessi, ma alla grazia di Dio".

Notizia delle folgori e dei miracoli giunse anche all'orecchio di San Francesco. E quando il Poverello d'Assisi decise, in obbedienza a Papa Onorio III, d'inviare missionari nella Francia meridionale per convertire i catari e gli albigesi, pensò subito ad Antonio.

In Francia contro gli eretici

In terra francese, Antonio giunse nel tardo autunno del 1224 e vi rimase un paio d'anni, fino alla morte del Santo Fondatore.

La sua fama, però, di martello degli eretici l'aveva preceduto; scrive l'Assidua: "Nessun riguardo alle persone lo piegava, né si lasciava sedurre da alcun plauso umano; ma, secondo la parola del profeta, simile ad un carro per trebbiare, munito rostri taglienti, egli spianò i monti e ridusse le colline in polvere".

La Provenza, la Linguadoca, la Guascogna sono le regioni che più di altre beneficarono della predicazione di frate Antonio; Arles, Montpellier, Tolosa le città più popolate dagli eretici.

A riguardo della sua arte oratoria, un cronista dell'epoca, il francese Giovanni Rigauldt, dice che "gli uomini di lettere ammiravano in lui l'acutezza dell'ingegno e la bella eloquenza (..) Calibrava il suo dire a seconda delle persone, così che l'errante abbandonava la strada sbagliata, il peccatore si sentiva pentito e mutato, il buono era stimolato a migliorare, nessuno, insomma, si allontanava malcontento".

È difficile ricostruire, dato il silenzio delle fonti, l'itinerario antoniano in terra di Francia. Si sa per certo che nel novembre del 1225 partecipò al Sinodo di Bourges, convocato dal Primate d'Aquitania per valutare la situazione della Chiesa francese e per pacificare le regioni meridionali. All'arcivescovo Simone de Sully, che si lamentava degli eretici, Frate Antonio, invitato quel giorno a predicare, disse a bruciapelo: "Adesso ho da dire una parola a te, che siedi mitrato in questa cattedrale... L'esempio della vita dev'essere l'arma di persuasione; getta la rete con successo solo chi vive secondo ciò che insegna..". Quel che il Santo disse poi non ci è pervenuto; si sa, però, che l'arcivescovo di Bourges, colpito dalle parole d'Antonio, si gettò ai suoi piedi chiedendo perdono per i suoi peccati.

Le doti di Antonio erano apprezzate anche dentro le mura di casa, tra i francescani, tanto che il Provinciale della Provenza, Fra Giovanni Bonelli da Firenze, lo nominò dapprima Guardiano del convento di Le-Puy e poi Custode (superiore, cioè) di un gruppo di conventi attorno a Limoges.

Lassù nel Limosino, vicino a Brive, aveva scoperto, in un bosco di castagni e di querce, una grotta che gli ricordava gli anni passati nel romitorio di Montepaolo, e lì "amava ritirarsi, da solo, in una grande austerità di vita, applicandosi alla contemplazione e alla preghiera".

Ancora oggi, Brive è un centro di forte spiritualità antoniana, anche in virtù del ricordo di molti miracoli operati, il più celebrato dei quali è quello della bilocazione (un fenomeno soprannaturale che premette la presenza contemporanea di una persona in due luoghi diversi). Antonio era sceso a Montpellier per il sermone di Pasqua, quando all'improvviso - a metà della predica - gli sovvenne che a quell'ora i suoi confratelli di Brive (a centinaia di chilometri di distanza) stavano riuniti in coro per la consueta recita del breviario. Senza scomporsi, zittì per alcuni secondi... poi riprese a predicare: in quegli attimi di silenzio si materializzò come d'incanto tra i confratelli di Brive, dove intonò l'Alleluia pasquale e subito dopo disparve.

Nel romitorio di Brive si concluderà la sua esperienza francese. Il 3 ottobre 1226, al tramonto, in una cella della Porziuncola, moriva Francesco d'Assisi, il capo spirituale dei francescani, a soli 44 anni. La notizia della morte fu portata in Francia da una lettera circolare di frate Elia, vicario generale dell'Ordine, che fissava per la Pentecoste dell'anno seguente il Capitolo per la nomina del successore. L'invito per quel Capitolo era esteso anche ad Antonio, superiore dei conventi di Limoges.

Padova, seconda patria

Il primo sole di primavera già riscaldava le giornate quando Antonio s'accomiatò - non senza qualche rimpianto - dai suoi frati della Custodia di Limoges per raggiungere Assisi. Il Santo presagiva che quel distacco sarebbe stato definitivo e che la Provvidenza lo stava chiamando altrove.

L'appuntamento per il Capitolo Generale era ormai prossimo e il viaggio si prospettava lungo e disagevole. Come frate Antonio abbia raggiunto - se per mare o per terra - l'Umbria non c'è dato sapere. Tacendo le fonti storiche, però, ancora una volta parla la leggenda. Un'antica tradizione popolare racconta, con dovizia di particolari, che Antonio prese il mare a bordo di un veliero e che una violenta tempesta lo sospinse - per la seconda volta - sulle coste della Sicilia.

Nella chiesa di Santa Maria, a Cefalù, si conserva un calice che egli avrebbe usato per celebrare l'Eucaristia. Lo testimonia un'iscrizione marmorea colà conservata: "Vieni, vedi et honora / tra queste sacre mura / il calice in cui bevve / e la campana sonora / di Antonio il padovano: / memoria sono e doni della sua mano".

La campana menzionata è quella "miracolosa" di un vicino convento: regalo d'Antonio per quei frati che tanto desideravano possederne una. Il miracolo sta nel trasporto: avutala lui stesso in dono, per portarla fin lì se l'era dovuta caricare sulle spalle!

Un altro calice è conservato a Vizzini, nel convento che sorge accanto alla chiesa dell'Annunziata, e nel cui chiostro si può ammirare una piccola grotta dentro la quale - si dice - avrebbe soggiornato per qualche tempo Antonio.

A Messina, invece, nella bella chiesa dell'Immacolata è conservata una pietra spruzzata dal sangue del Santo durante una delle sue flagellazioni penitenziali.

Ma lasciamo la Sicilia e risaliamo ad Assisi. Di certo, Antonio lo troviamo lassù il 30 maggio 1227, festa di Pentecoste e giorno scelto per l'apertura del Capitolo Generale, che doveva eleggere il successore di San Francesco.

Tutti s'aspettavano che da quel Capitolo uscisse eletto frate Elia, il vicario generale di Francesco e suo fedele compagno di missione in Oriente. Ed invece non fu così. Geniale organizzatore ma di temperamento piuttosto focoso, i superiori dell'Ordine gli preferirono il più prudente Fra Giovanni Parenti, ex magistrato, nativo di Civita Castellana e Provinciale della Spagna.

Fra Giovanni era il superiore che accolse Antonio tra i francescani e che il Nostro sperava d'incontrare già nel Capitolo del 1221. Quell'incontro mancato di sei anni prima avvenne, invece, all'indomani dell'elezione del nuovo Ministro Generale. Quella volta, Antonio non dovette aspettare che tutti i frati se ne fossero tornati nelle loro province per cercarsi un superiore che - al pari di Fra Graziano - lo prendesse con sé. La prima mossa la fece Fra Graziano, che ben conosceva le doti intellettuali e le virtù del suo giovane frate portoghese. Chiamatolo, lo nominò Ministro Provinciale per l'Italia settentrionale; in pratica, la seconda carica - per importanza - dopo la sua.

Antonio aveva 32 anni e soltanto altri quattro gliene riservava la Provvidenza: saranno, però, gli anni che tramanderanno nei secoli la sua santità.

Dal Friuli alla Liguria

Come tutte le cariche, anche quella d'Antonio assommava gli oneri agli onori. Il prestigio che godeva nell'Ordine da quel momento avrebbe dovuto dimostrarlo sul campo.

Come Antonio abbia corrisposto ai suoi doveri di superiore ce lo riferisce una delle cronache antiche, la Benignitas:

« Resse con lode per più anni il servizio dei frati, e sebbene per eloquenza e dottrina si può dire superasse ogni uomo d'Italia, tuttavia nell'ufficio di prelato si mostrava cortese in modo mirabile e governava i suoi frati con clemenza e benignità. »

Giovanni Rigauld, il suo biografo francese, dirà che nonostante la carica di Guardiano "non sembrava affatto superiore, ma compagno dei frati; voleva essere considerato uno di loro, anzi inferiore a tutti. Quando era in viaggio, lasciava la precedenza al suo compagno (..) E pensando che Cristo lavò i piedi ai suoi discepoli, lavava anche lui i piedi ai frati e si adoperava a tenere puliti gli utensili della cucina...".

Queste parole trovano eco nei Sermoni, scritti in quegli anni dal Santo, dove si legge:

« La vita del prelato deve splendere d'intima purezza, dev'essere pacifica con i sudditi, che il superiore ha da riconciliare con Dio e tra loro; modesta, cioè di costumi irreprensibili; colma di bontà verso i bisognosi. Invero, i beni di cui egli dispone, fatta eccezione del necessario, appartengono ai poveri, e se non li dona generosamente è un rapinatore, e come rapinatore sarà giudicato. Deve governare senza doppiezza, cioè senza parzialità, e caricare se stesso della penitenza che toccherebbe agli altri (..) Inargentino i prelati le loro parole con l'umiltà di Cristo, comandando con benignità e affabilità, con previdenza e comprensione. Ché non nel vento gagliardo, non nel sussulto del terremoto, non nell'incendio è il Signore, ma nel sussurro di una brezza soave ivi è il Signore. »

E ancora: "Assai più vi piaccia essere amati che temuti. L'amore rende dolci le cose aspre e leggere le cose pesanti; il timore, invece, rende insopportabili anche le cose più lievi".

La Regola francescana imponeva ai Ministri Provinciali di visitare i conventi e i religiosi affidati alle loro cure:

« I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, visitino e ammoniscano i loro fratelli e li correggano con umiltà e carità (..) Benché sia permesso di provvedersi un buon corredo di cultura, pur si ricordi più di ogni altro di essere complice nei costumi e nel contegno, favorendo così la virtù. Abbia in orrore il denaro, rovina principale della nostra professione e perfezione; sapendo di essere capo di un Ordine povero e di dover dare il buon esempio agli altri, non si permetta alcun abuso in fatto di denaro. Non sia appassionato raccoglitore di libri e non sia troppo intento allo studio e all'insegnamento, per non sottrarre all'ufficio ciò che dedica allo studio. Sia un uomo capace di consolare gli afflitti, perché è l'ultimo rifugio dei tribolati, onde evitare che, venendo a mancare i rimedi per guarire, gli infermi non cadano nella disperazione. Per piegare i protervi alla mansuetudine non si vergogni di umiliare e abbassare se stesso rinunciando in parte al suo diritto per guadagnare l'anima. »

Come compagno e collaboratore, Antonio aveva scelto frate Luca Belludi, un giovane padovano che aveva conosciuto e apprezzato quando ancora girava per quelle terre come predicatore. Con lui iniziò la visita pastorale nell'immensa Provincia. Cominciò dall'estremità orientale, da Trieste: di lì sconfinò in Istria e Dalmazia suscitando numerose vocazioni e aprendo nuovi conventi a Pola, Muggia e Parendo; rientrato in Friuli, passò per Udine, Cividale, Gorizia e Gemona.

In quest'ultimo paese risuscitò un ragazzo. Mentre con alcuni confratelli stava costruendo una cappella, vedendo passare un carro quasi vuoto, nell'intento d'alleviare un po' di fatica, chiese al carrettiere che li aiutasse a trasportare pietre e mattoni. "Lo farei volentieri - mentì quello - ma sul carro c'è mio figlio morto e lo sto portando al cimitero dove m'aspettano per la sepoltura". Il Santo si scusò e si rimise al lavoro. In realtà, il ragazzo dormiva sdraiato sul carro, ma quando suo padre cercò di svegliarlo per farsi con lui quattro risate, lo trovò morto per davvero. Preso dallo sconforto e dal rimorso, fece dietrofront e spronò il cavallo alla ricerca dei frati. Raggiuntili, si gettò ai piedi del Santo supplicandolo di richiamare in vita il figliolo. Le cronache raccontano che Antonio alla fine lo perdonò, ottenendo da Dio che il ragazzo tornasse in vita.

Lasciata Gemona il Santo si recò in visita alle comunità di Conegliano, Treviso, Venezia ... Ed eccolo finalmente a Padova, prima di proseguire per i conventi dell'Emilia, della Lombardia e della Liguria.

A Padova, la città del cuore

Nella quaresima del 1228 eccolo a Padova, la sua seconda patria, la città alla quale legherà per sempre il suo nome. A Lisbona nasce Fernando, erede di un nobile casato; a Padova muore Antonio, il Santo delle grazie. "Exulta, Lusitania felix; o felix Padua gaude... Esulta, contento, o Portogallo; rallegrati Padova perché avete generato alla terra e al cielo un uomo che non brilla meno di una stella fulgente". Così chiamerà Papa Pio XII nel 1946 nel proclamare Sant'Antonio "dottore della Chiesa universale".

La Padova di quel tempo ce la descrive il poeta padovano Diego Valeri, nativo di Piove di Sacco: "Era una piccola città medievale, poco più che un nobile borgo, compatto, fosco, irto di torri, dove le vie anguste, fiancheggiate da portici alti e bassi, si svasavano ai piedi di una chiesa romanica o sfociavano in vasti spiazzi su cui cresceva l'erba. Il Palazzo delle Ragione era ancora uno scheletro e l'università mandava appena i primi vagiti". In questa città pressoché al centro dello scacchiere della sua Provincia, Antonio risiedeva appena libero dagli impegni di apostolato.

Poco fuori città, ad Arcella, sorgeva un convento di clarisse con accanto un ospizio di frati che il Santo ampliò grazie ad un pezzo di terra donatogli dal vescovo Iacopo Corrado. Qui amava ritirarsi a pregare e a studiare: in quel romitorio comincerà a scrivere i Sermoni domenicali. Antonio non smise mai, però, di dedicarsi alla predicazione e al ministero sacerdotale, anche se poco era il tempo che la carica di superiore gli lasciava a disposizione. A Padova, con l'aiuto di Fra Luca Belludi, seppe coltivare preziose amicizie che gli saranno d'aiuto nella sua carità verso i poveri, soprattutto nel suo secondo e definitivo soggiorno.

Antonio amava Padova e ne era riamato. Tutti lo volevano, tutti accorrevano alle sue prediche. Un cronista coevo, certo Rolandino, c'informa che "il Beato Antonio predicava la parola di Dio con voce melliflua...'".
Divenne amico del superiore dei benedettini, l'abate Giordano Forzatè, e del conte Tiso di Camposampietro, facoltoso e generoso benefattore dei francescani. Nel giardino dei conti Papafava e dei Carraresi la tradizione colloca la pietra sulla quale Antonio saliva per predicare.

Seppure di pochi mesi soltanto, il primo soggiorno patavino di Antonio fu sufficiente per stabilire preziosi legami spirituali che gli fanno decidere, una volta scaduto il mandato di Ministro Provinciale nel 1230, di ritornarvi definitivamente.

Gli amici migliori, per vita e pietà cristiana, li raccolse in una specie di confraternita, che dal nome della chiesa di Santa Maria della Colomba, dov'erano soliti ritrovarsi, presero il nome di "Colombini". Avevano per divisa un saio bigio e si dedicavano alle opere caritative a favore dei poveri.

Tre anni durò quel suo girare per i conventi, da una regione all'altra. Tra anni faticosi, ma spesi bene. Antonio incarnò, agli occhi dei suoi confratelli, la regola francescana vissuta quotidianamente. Il profilo del superiore, che Antonio traccia nei Sermoni, è il suo profilo: "Colui che è costituito superiore deve eccellere per purezza di vita, modellata su una larga cognizione delle Sacre Scritture; deve saper parlare con facilità e facondia; essere fervoroso nell'orazione, misericordioso verso i propri dipendenti, pur mantenendo la perfetta disciplina tra loro, curando sollecitamente le anime che gli sono affidate. Egli deve saper usare la verga dorata della benignità con la quale, mentre corregge, usa la dolcezza di un padre, anzi di una madre".

Arca del Testamento

Durante il suo mandato di Superiore dell'Italia settentrionale, Antonio lasciò la Provincia soltanto in due occasioni, nel 1228 e nel 1230: entrambe le volte - per diversi mesi - le mete furono Roma e Assisi. Dicono i biografi che il Santo si lasciasse distogliere malvolentieri dalla cura dei suoi frati. Antonio Scandaletti, uno fra gli scrittori più recenti, scrive addirittura che "ad Antonio non dev'essere piaciuto frequentare né RomaAssisi". Egli argomenta il suo ragionamento così:

« Amava certamente poter pregare sulla tomba del primo degli apostoli, oppure scambiare opinioni e fare progetti sui temi e sui modi dell'evangelizzazione, cioè sulle cose che davvero gli stavano a cuore, con qualche buon prelato della curia o uomo colto della capitale. Amava anche raccogliersi nella città che fu culla del movimento francescano e intrattenersi con qualche saggio confratello sulla condotta dell'Ordine. Tuttavia, lo tratteneva l'idea che agli incontri s'accompagnava quasi sempre il coinvolgimento in questo o in quell'imbroglio, in questa o quella disputa (..) Vi si recò quando non poté proprio farne a meno, quando l'obbedienza glielo imponeva. »

Come nel marzo del 1228, quando il Ministro Generale, Fra Giovanni Parenti, lo mandò a chiamare "per un'urgente necessità della sua famiglia religiosa". Questo si legge nelle pagine dell'Assidua. In cosa consistessero quelle difficoltà lo sappiamo, però, da altre fonti.

Venne chiamato da Fra Giovanni - ormai vecchio e poco versato nelle questioni teologiche - a far da paciere tra l'ala conservatrice dell'Ordine e quella dei riformatori. Fu scelto anche in virtù del suo passato: s'era battuto vittorioso, con Francesco, per aprire ai frati la via dello studio, né per questo s'era montato la testa; alle comodità delle abbazie aveva mostrato di preferire i romitori, dalla collina degli ulivi di Coimbra, alle grotte di Montepaolo e di Brive; divenne predicatore per obbedienza, mentre preferiva servire i confratelli nella carità.

Dava perciò ampie garanzie d'imparzialità ad entrambi gli schieramenti contrapposti.

Venuto a mancare prematuramente il Fondatore, e ingigantitosi a dismisura e in poco tempo, l'Ordine dei francescani non era più quell'allegra brigata che aveva conquistato il giovane Fernando.

Governare, poi, decine di migliaia di frati disseminati per tutta l'Europa non era impresa affatto facile: c'era chi spingeva ad un maggior impegno negli studi (quindi a privilegiare il frate sacerdote a discapito del frate laico) e chi a mitigare la rigida povertà di Francesco con una regolamentazione più consona ad una comunità che da "girovaga" stava trasformandosi in "residenziale".

Questo, in sintesi, il nocciolo della disputa, ma per quei tempi e per quegli uomini erano - quelle - questioni di vita o di morte dell'Ordine.

Più ne discutevano e più gli animi si riscaldavano, orami la disputa si era radicalizzata: o con Francesco o contro Francesco. Era giunto alfine il momento - e qui tutti si dicevano d'accordo - di sottoporre la questione al Papa.

E chi meglio di frate Antonio avrebbe potuto esporre a papa Gregorio IX i termini della questione? Per questo Fra Giovanni l'aveva fatto venire con urgenza a Padova, e con altrettanta fretta lo spedì a Roma.

Ospite del Papa

Di come Antonio portò a termine le incombenze non conosciamo i particolari. Supponiamo che colse i frutti per cui era stato inviato, se il Papa anziché congedarlo, lo trattenne con sé per predicare a lui e ai cardinali le meditazioni quaresimali.

Certamente Papa Gregorio IX rimase favorevolmente impressionato da quel giovane frate, dalla sua facondia non disgiunta dall'umiltà. Conosceva a menadito le Sacre Scritture, eppure nelle sue argomentazioni non c'era l'arroganza dell'erudito: "Sapeva adattare le cose spirituali agli spirituali", racconta l'Assidua. Quelle prediche furono un vero successo, tanto che l'ottuagenario Pontefice, rompendo ogni protocollo, lo chiamò "arca del Testamento", "peritissimo esegeta", "esimo teologo". Quattro anni più tardi, canonizzandolo, ricorderà quei giorni di quaresima: "personalmente sperimentammo la santità e l'ammirevole vita di lui, quando ebbe a dimorare con grande lode presso di noi".

Non soltanto il Papa ne fu ben impressionato, ma tutti i cardinali e i prelati di curia, i quali - scrive ancora l'Assidua - "l'ascoltarono con devozione ardentissima" e qualcuno di loro lo invitò a predicare al popolo.

Erano i giorni della Settimana Santa e a Roma confluivano pellegrini da ogni parte per lucrare le indulgenze. Si udivano più lingue e dialetti in quella folla, che s'era radunata per ascoltare il "predicatore del Papa", di quanti non se ne sentissero nella biblica Babele. Antonio, che ben conosceva alcune di quelle lingue, s'accinse a predicare nella volgata del popolo di Roma. Man mano che parlava, quella gran folla l'ascoltava attonita: tutti "sentivano e capivano" come il Santo si esprimesse contemporaneamente nell'idioma nativo di ciascuno. Si ripeteva il grande prodigio della Pentecoste e tutti ne erano edificati.

A tal proposito dice Leonardo Frasson, appassionato studioso del Santo:

« Da tutto ciò emerge la statura di un predicatore edotto e popolare, ma anche e soprattutto la figura di un oratore santo, di un predicatore carismatico, dotato cioè di un dono che supera la sua stessa umanità e lo rende irraggiungibile e tetragono ad ogni attacco, da qualunque parte gli potesse venire... Quel suo modo di comportarsi così umanamente disarmato e disarmante, quel suo linguaggio così libero e fiero e nello stesso tempo così umano, quella sua cura di non affermare mai nulla che non sia contenuto nella parola divina o non sgorghi direttamente da essa, quel suo appassionato impegno d'immergersi nella realtà viva, tumultuosa e contraddittoria, gli derivano dalla coscienza profonda di essere e di sentirsi un inviato da Dio, in virtù dell'ordine sacerdotale di cui è investito (..) Ma quel librarsi così in alto, quell'imporsi su tutto e su tutti con tanto vigore d'eloquenza, con tanta umiltà e carità, come giudice imparziale e fustigatore inesorabile di costumi devianti dalle norme evangeliche ed ecclesiastiche in persone gerarchicamente più elevate di lui, tutto ciò non si spiega se non col fatto che dalla sua parola e più ancora dalla sua condotta si sprigionava una potenza carismatica così alta e sensibile, che finiva per essere riconosciuta ed accettata universalmente. »

Sulla tomba di Francesco

Passata la Pasqua, Antonio prese commiato e se ne tornò ad Assisi per riferire all'amico Superiore l'esito dell'ambasciata romana. Ancora una volta, le fonti tacciono, né riveste soverchia importanza saperlo, perché di lì a pochi mesi il Papa sarebbe venuto di persona ad Assisi per presenziare alla canonizzazione di frate Francesco.

Il 16 luglio 1228, infatti, "un'onda di gioia intensa avvolse il cielo e la terra", racconta Tommaso da Celano, testimone oculare. Migliaia di frati facevano corona al Santo Padre, il quale concluse il suo elogio con questa preghiera:

« A lode e gloria dell'onnipotente Iddio, Padre, Figlio e Spirito Santo, della gloriosa Vergine Maria, dei beati apostoli Pietro e Paolo e ad onore della gloriosa Chiesa romana, mentre veneriamo in terra il beatissimo padre Francesco, che il Signore ha già glorificato nei cieli; udito il consiglio dei nostri frati cardinali e di altri prelati, decretiamo che il suo nome venga inserito nel catalogo dei santi»

Al termine del rito, Papa Gregorio, preceduto da un'interminabile processione di frati e di popolo salmodianti, si portò nel recinto dell'erigenda basilica, che avrebbe custodito il corpo di Francesco, e vi benedì la prima pietra.

L'indomani, Papa Gregorio IX ritornò a Roma e Antonio poté finalmente ripartire per la sua Padova, dalla quale ormai mancava da parecchi mesi.

Il secondo viaggio

Due anni più tardi, nel 1230, la grandiosa basilica era pronta. Frate Elia aveva fatto davvero in fretta e bene. Il Capitolo Generale dell'Ordine era fissato, come di consueto, per Pentecoste. Anche Antonio, come Superiore dell'Italia del nord, vi doveva intervenire, e ci andò volentieri per l'ultimo omaggio al Santo Fondatore, del quale in quell'occasione venivano traslate le spoglie dalla chiesa di San Giorgio alla cripta della nuova basilica.

Il papa Gregorio IX, rimasto a Roma per ragioni di governo (i contrasti con Federico II erano giunti ad una fase cruciale), aveva inviato ad Assisi ben tre Cardinali Legati, latori della Bolla Mirificans misericordias, nella quale scriveva:

« In mezzo alle tribolazioni che ci circondavano abbiamo pur motivo di rallegrarci e di rendere grazie a Dio, pensando alla gloria concessa al beato Francesco, padre nostro e vostro, e forse più nostro che vostro... Perciò ci sentiamo sempre più animati a sciogliere lodi a questo grande santo, convinti che, come ci portò affetto nel mondo, voglia amarci ancor più adesso che trovasi unito a Gesù Cristo, amore infinito, e voglia continuare a intercedere per noi. »

L'inaugurazione della basilica era fissata per il 25 giugno. Ancora una volta i frati erano accorsi a migliaia da ogni parte d'Europa, e con loro sfilarono in processione vescovi, prelati, autorità; c'era tutta Assisi e dintorni, due file d'armigeri cercavano a stento di contenere la folla. Gli animi erano eccitati, tutti volevano vedere e toccare la bara; la folla ondeggiava paurosamente e il servizio d'ordine era ormai impotente a disciplinare quel flusso scomposto che s'accalcava all'ingresso della basilica. Con pronto intuito - ma, ahimè, col senno di poi contestato - frate Elia fece sbarrare le porte dai soldati e scese con pochi intimi nella cripta, dove provvide a "mettere in salvo" (così in seguito giustificò il suo gesto) il corpo di San Francesco dietro pesanti lastroni di marmo. Vi rimarrà laggiù fino al 1818, quando Papa Pio VII ne autorizzerà la rimozione.

Nel frattempo la rabbia della folla, ammassata contro le porte sbarrate e delusa della piega che avevano preso gli avvenimenti, degenerò presto in una rissa collettiva. Lo scandalo fu grande, e ancor più le proteste. Al Papa, lontano, l'eco riportò notizie ingigantite e distorte; così Gregorio IX minacciò di scomunica i colpevoli, se non avessero addotto motivi plausibili. Frate Elia spiegò le sue ragioni e gi animi a poco a poco si placarono.

In quel clima piuttosto turbolento, Fra Giovanni Parenti presiedeva le sedute del Capitolo Generale. La sopita polemica di due anni prima tornò a galla e i frati di divisero nuovamente in due fazioni. Ad aggravare le cose era il problema del testamento di San Francesco (in cui veniva vigorosamente ribadita la necessità della povertà assoluta) e di chi voleva inserirlo, come parte integrante, nella Regola dell'Ordine. Anche stavolta lo spirito di saggezza portò a rimettere la questione nelle mani del Papa. Che decidesse lui, una volta per tutte!

Venne, per quest'ambasceria, nominato un comitato di sette frati, tra cui Antonio. Gregorio IX li ascoltò e chiese tempo per pensarci su. Pochi mesi dopo, il 28 settembre, col la Bolla Quia elongati il Papa dirimerà definitivamente la questione, riappacificando gli animi.

Tornando ad Assisi, Antonio chiese ed ottenne d'essere sollevato dall'incarico di Ministro Provinciale. Numerosi acciacchi, che presto sarebbero peggiorati tanto da condurlo in meno di un anno alla morte, lo infastidivano ormai da tempo.

Nell'accomiatarsi dal Ministro Generale (che gli aveva concesso piena libertà di darsi alla predicazione ovunque volesse) gli chiese il permesso di ritirarsi a Padova, dove gli succedette come Superiore il pisano Fra Alberto.

Dalla parte dei poveri

Sul finire dell'estate del 1230, Antonio rientrò a Padova e prese dimora presso il convento di Santa Maria Mater Domini, che sorgeva dov'è oggi la basilica eretta in suo onore. Partito come Superiore vi ritornava come semplice frate.

L'obbedienza l'aveva portato in giro per l'Europa, in posti che altri sceglievano per lui. Gli dicevano di predicare, e lui predicava; lo mandavano in Francia a convertire gli eretici, e lui ci andava; lo nominavano Ministro Provinciale, e lui governava. Da quando, su quel pagliericcio in Marocco, consumato dalle febbri malariche, s'era messo nelle mani di Dio, sempre conformò la sua vita ai voleri dei Superiori.

E la Provvidenza, così docilmente assecondata, lo portò in pochi anni dagli umili lavori di cucina del romitorio di Montepaolo alla predicazione del quaresimale nientemeno che davanti al Santo Padre!

Erano passati soltanto nove anni da quando vagava per Assisi - al tempo del suo primo Capitolo - in cerca di qualcuno che lo prendesse con sé. Ora tutti lo volevano, tutti lo cercavano. Era diventato, suo malgrado, una celebrità. Era la fiaccola che i confratelli ponevano sul candelabro quando c'era da far belle figura. E lui pronto sempre a dire di sì.

Ecco, tra le sue mille virtù, la generosità è forse la meno reclamizzata, assieme all'umiltà. Ai vertici della "carriera" ancor giovane, superiore di una Provincia vastissima e strategicamente importante, consigliere personale del Ministro Generale, teologo ufficiale dei francescani per "decreto" di frate Francesco, ambasciatore dell'Ordine presso il Papa... Non c'è uomo che possa rinunciare a cuor leggero a tutto questo. A meno che non si chiami Sant'Antonio!

Ma lui era fatto così: il desiderio di fama ed onori era rimasto sepolto (assieme a Fernando) dentro i chiostri dell'abbazia agostiniana di Coimbra, molti anni addietro. Il frate che risalì la collina degli ulivi appresso agli "straccioni" di Francesco non era rigenerato soltanto nel nome del battesimo, ma anche nell'anima. Alla scuola dei nuovi confratelli scoprirà il Vangelo e i suoi protagonisti: Dio e il Prossimo.

Se il Signore poteva incontrarlo ovunque, era fuor di dubbio che il Prossimo l'avrebbe trovato più facilmente in mezzo alla gente. Quel che gli mancava per completare il suo curriculum era, forse, un nuovo tipo d'apostolato, a 360 gradi, a contatto di gomito con tutto il Popolo di Dio.

La scelta d'Antonio cadde su Padova, una città che conosceva ed amava, e che pur sapeva bisognosa di cure pastorali attente ed assidue. Lì avrebbe portato a termine - ultima incombenza rimastagli - la stesura del secondo volume dei Sermoni, quello delle prediche per le feste dei santi, che gli era stato commissionato dal Cardinale Rinaldo Conti, più tardi Papa col nome di Alessandro IV. Poi, finalmente libero da impegni esterni, si sarebbe dedicato all'apostolato diretto. E così fece. Due i campi che privilegiò: la predicazione e il confessionale. La grande quaresima del 1231, l'ultima della sua vita terrena, sarà il suo capolavoro, il suo testamento spirituale.

Tuonante dal pulpito

Un confratello del Santo, padre Vergilio Gamboso, francescano dei nostri giorni, sostiene - a ragione - che Antonio non era tornato a Padova per starsene in pace. E dipinge così la città:

« Come vita politica possedeva più o meno gli stessi pregi e difetti dei Comuni italiani del tempo. Abbondavano le soperchierie, le contese fra nobili spodestati e popolani arricchiti, ogni città vicina era considerata e trattata da nemica. Il benessere non mancava: l'agricoltura, l'artigianato, i traffici attiravano entro le turrite mura ruscelli d'oro. Il denaro aveva i suoi eroi e le sue vittime, l'usura serpeggiava, gli umili non potevano sottrarsi ai continui soprusi. »

La piega che prese la predicazione di Antonio - inutile dirlo - aveva pregnanti risvolti nel sociale. Dal pulpito si schierò apertamente dalla parte dei poveri, degli oppressi, degli affamati.

Sferzava soprattutto chi praticava l'usura, uno dei mali peggiori della sua epoca, dicendo:

« Spine sono le ricchezze, che pungono e fanno uscire sangue; bestie feroci sono i perfidi usurai, che rapinano e divorano... Ampia è la via che porta alla dannazione. Ampia non per i poveri di Cristo, che entrano per la porta stretta, ma per gli usurai che di tutto il mondo si sono già impadroniti con mani rapaci. Razza maledetta, sono cresciuti forti e innumerevoli sulla terra, e hanno denti di leone. L'usuraio non rispetta né il Signore, né gli uomini; ha i denti sempre in moto, intento a rapinare, maciullare e inghiottire i beni dei poveri, degli orfani e delle vedove (..) E guarda che mani osano fare elemosina, mani grondanti del sangue dei poveri. Vi sono usurai che esercitano la loro professione di nascosto; altri apertamente, ma non in grande stile, onde sembrare misericordiosi; altri, infine, perfidi, disperati, lo sono apertissimamente e fanno il loro mestiere alla luce del sole. »

Anche sulla fonte dei loro guadagni il Santo aveva le idee chiare: "Donde vengono a costoro tanti averi? Dalle ruberie e dalle frodi. Lo scarabeo raccoglie molto sterco e con grande travaglio lo appallottola; ma d'un tratto un asino che mette lo zoccolo sullo scarabeo e il suo sozzo bottino, spiaccicando l'uno e l'altro in un attimo. In simil modo l'avaro e il frodatore accumulano ricchezza, ma a tradimento capita il demonio e li strangola. Allora l'anima tocca ai demoni, la carne ai vermi, le sostanze ai parenti". Continua ancora: "C'è di peggio, agli strozzini non basta respingere e soffocare la buona ispirazione di Dio, vogliono scacciarla anche dal cuore della moglie e dei figli. Se un figliolo scosso dal timore del giudizio di Dio e dell'Inferno propone di vivere onestamente, e il padre viene a saperlo, con ogni suo potere tenta di respingere questa grazia. Quanti mali perpetrano questi omicidi! Uccidono in se stessi e negli altri il pentimento e il ricordo della Passione di Cristo".

Questa lunga citazione ci fornisce più di un'indicazione per capire di che pasta fosse fatto il Santo. Innanzitutto ci dice quanto conoscesse in profondità la società in cui operava. Non parlava per sentito dire e non colpiva mali occasionali, ma di pubblico dominio e di vasta portata sociale. Usava parole violente per centrare il problema, senza inutili giri di parole, individuando chiaramente i colpevoli e le vittime. Ma non si limitava alla denuncia dei mali e ai danni materiali che questi provocavano. Il suo compito di sacerdote lo portava a indicare il peccato insito nell'atto malvagio. Nella fattispecie, l'usuraio peccava tre volte: contro gli uomini, contro la sua coscienza, contro Dio.

La predica contro gli usurai - una fra le più note - vuole essere soltanto un esempio di come Antonio affrontava la predicazione e della logica stringente delle sue argomentazioni, impreziosite da immagini semplici, comprensibili da tutti. Nelle sue prediche, dalle quali emerge "un uomo che ama la chiarezza nel pensare e la coerenza nell'agire" (come sostiene padre Pietro Scapin, profondo conoscitore dei Sermoni), non guardava in faccia nessuno, "semmai fu animoso coi potenti, misericordioso coi poveri, pietoso davanti alle miserie umane. In nessun caso, però, a spese del giusto e del vero".

I poveri, ascoltando le sue prediche, si sentivano compresi e consolati. Diceva il Santo:

« La natura ci genera poveri, nudi si viene al mondo, nudi si muore. È stata la malizia che ha creato i ricchi, e chi brama diventare ricco inciampa nella trappola tesa dal demonio. Oh povertà sempre lieta quando è autentica, tesoro che i figli dei demoni odiano; le delizie tue propongono un sapore di eterna dolcezza ai tuoi amatori. »

Misericordioso in confessionale

Se il pulpito era il terreno scelto da Antonio per la semina della Parola di Dio, il confessionale era l'aia dove lui mieteva il raccolto. Che farsene di una marea d'uditori ai piedi del pulpito, se poi il confessionale restava deserto? Il Santo chiamava il sacramento della penitenza "casa di Dio, perché lì i peccatori si riconciliano con lui, come il figliol prodigo si concilia col padre suo". E passava intere giornate a confessare, né si stancava di ripetere: "Come ti sei confessato, così devi emendarti; vi sono parecchi che confessano i loro peccati, ma non si emendano mai; il vero penitente deve aver fisso nell'anima il proposito di non ricadere nella colpa".

Attorno al confessionale del Santo sono fioriti numerosi fioretti. Il più famoso - raffigurato in un bassorilievo di Donatello - ce lo racconta la Benignitas, una delle biografie antiche:

« Un padovano confessò una volta, tra gli altri peccati, d'aver colpito con un calcio sua madre, tanto da farla cadere. Il beato padre Antonio che deplorava simili iniquità, trasportato dallo zelo, esclamò: il piede che percuote il padre o la madre meriterebbe di essere tagliato! Quell'uomo, prendendo alla lettera il senso di quelle parole, tornato casa si mozzò davvero il piede. La fama di una così severa punizione fece il giro della città e arrivò alle orecchie di Antonio. Egli recatosi a casa di quell'uomo, dopo una devota preghiera, avvicinò il piede reciso al tronco della gamba facendovi il segno della croce. Cosa mirabile: appena il Santo ebbe accostato il piede alla gamba, subito questo vi restò attaccato. L'uomo si alzò gioioso, lodando ed esaltando Dio. »

La grande quaresima

Quei quaranta giorni, dal 6 febbraio al 23 marzo 1231, furono per Antonio sintesi mirabile del suo impegno apostolico: predicazioni e confessioni erano le sole incombenze che scandivano il ritmo delle sue giornate.

La predicazione quotidiana in quaresima era una novità assoluta per quei tempi. L'Assidua conferma quanto l'invenzione del Santo fosse azzeccata:

« Venivano folle innumerevoli dalla città e dal contado, accorrevano cavalieri e matrone, vecchi e giovani, uomini e donne di ogni condizione, tutti desiderosi di ascoltare la parola di vita e di provvedere alla propria salvezza; anche il Vescovo con il suo clero seguiva devotamente la predicazione. »

Per la vita cittadina furono giorni di pacificazione e di rinnovato vigore morale: "Si appianarono le discordie e si sciolsero le liti, il maltolto venne restituito, detenuti vennero liberati, ladri e prostitute cambiarono abitudini di vita". Ma dove metterli tutti? Non c'erano a Padova chiese tanto grandi da contenere tutta quella marea di gente, per cui Antonio, "crescendo sempre più il numero degli uditori, si ritirò in luoghi spaziosi tra i prati".

Così grande era l'entusiasmo che circondava Antonio, che i suoi confratelli cominciarono a temere per la sua incolumità; venne affidato perciò a un gruppo di baldi giovanotti il compito di formare un cordone di sicurezza tra lui e la folla, anche perché - dice l'Assidua - "le donne nel fervore della devozione, portandosi delle forbici, gli tagliavano la tonaca come fosse una reliquia, e si ritenevano fortunati coloro che riuscivano a toccare almeno l'orlo del suo vestito".

Domenico Beccafumi, Sant'Antonio da Padova e il miracolo della mula (1537), tavola; Parigi, Museo del Louvre

La popolarità del Santo cresceva ogni giorno, coinvolgendo tutti, anche le autorità. All'inizio della Settimana Santa si ebbe un insolito miracolo: il giorno 15 marzo 1231 "su istanza del venerabile fratello il beato Antonio, confessore dell'ordine dei frati minori", il podestà Stefano Bador stabiliva che il debitore insolvibile senza colpa, una volta ceduti in contropartita i propri beni, non venisse più imprigionato né esiliato.

Fu così che un pezzo di predica di Antonio entrò dritto dritto nel Codice Statuario Repubblicano, modificando a favore dei meno abbienti una legge iniqua in vigore da secoli.

Dal noce all'Arcella

Con il canto dell'Alleluia, nella notte di Pasqua, si concluse la predicazione quaresimale di frate Antonio. Per consiglio di molti, gli occorreva adesso un po' di riposo. La salute, da anni assai precaria, era andata precipitando nelle ultime settimane. Appesantito nel fisico, gonfio e rattrappito per l'idropisia, Antonio si muoveva ormai a fatica. Più volte in quella quaresima dovettero portarlo a braccia sul luogo della predica.

Dopo quei quaranta giorni di superlavoro, fiaccato nel parlare e nel respirare da una forma asmatica, Antonio acconsentì a ritirarsi nel convento di Santa Maria Mater Domini, per un periodo di convalescenza. Pur temendo per la sua salute, nessuno pensava, però, che fosse tanto malato da morirne. Davano la colpa del peggioramento allo stress di quelle settimane e al riacutizzarsi di vecchi malanni. Antonio, invece, presagiva che il momento del trapasso era ormai prossimo, ma - sottolinea l'Assidua - "per non recare dolore ai fratelli celava la fine imminente".

Avrebbe atteso l'incontro con il suo Signore, nella preghiera e nel raccoglimento, dentro le mura amiche del convento, circondato dall'affetto dei confratelli. Ma la Provvidenza - come al solito - aveva in serbo per lui dei percorsi alternativi.

Lo scontro con Ezzelino

Spadroneggiava a quel tempo, tra Verona e Vicenza, un efferato e sanguinario tiranno, Ezzelino III da Romano, emissario dell'Imperatore Federico II contro i liberi Comuni. Di quanta ferocia egli fosse capace sta scritto in tutti i libri di storia: Dante lo metterà all'Inferno, nel girone degli omicidi, condannandolo a starsene a mollo in una pozza di sangue bollente. Con l'inganno e l'astuzia era riuscito a farsi eleggere Podestà di Verona, città guidata dai conti di Sambonifacio, con i quali aveva intrecciato un doppio matrimonio: lui con Zilia, sorella del conte Rizzardo, e questi con sua sorella Cunizza. Ma una volta ottenuto il potere, passò sopra i legami di parentela e ruppe l'alleanza con i Sambonifacio, mandando in carcere il cognato. Alcuni cavalieri del conte Rizzardo ripararono a Padova e da lì cercarono di organizzarne la liberazione.

Fu così che verso la fine di maggio, convinto dalle pressioni degli amici e, soprattutto, dall'abate Forzatè, Antonio partì alla volta di Verona, per intercedere presso Ezzelino la grazia per il conte Rizzardo. A nulla valse la fama del Santo né il suo carisma né le parole evangeliche d'invito al perdono: Ezzelino fu irremovibile, anzi risparmiò ad Antonio la sorte del conte Rizzardo soltanto in virtù dell'abito che portava. Il notaio Rolandino, al riguardo, è telegrafico: "Non esaudito affatto, Antonio ritornò a Padova". Con quanta amarezza nel cuore è facile immaginare. Dai tempi del Marocco era questo il suo primo insuccesso. A nulla, però, possono generosità e coraggio contro i cuori refrattari al Vangelo di Cristo.

C'è un passaggio nei Sermoni che ben rappresenta lo stato d'animo del santo in quel frangente:

« Oh, se tu vedessi, certamente piangeresti! Imperversano vanità e falsità, calunnie dei potenti contro i miseri e giudizi iniqui contro i poveri, e tante lacrime d'innocenti non hanno consolatore. Se gli oppressori fossero esseri umani, saprebbero consolare; ma siccome sono leoni, e non uomini, allora affliggono i poveri, privi d'ogni umano aiuto e impotenti a resistere alla violenza. »

La cella sul noce

Antonio era rientrato da Verona da qualche giorno appena, quando i frati lo convinsero a trasferirsi nel romitorio di Camposampiero, lontano dall'afa, nella frescura della campagna, dove i francescani avevano a disposizione un piccolo convento offerto, anni addietro, da un amico del Santo, il conte Tiso.

Spargeva un'ombra salutare, tutt'attorno al cenobio, un frondoso albero di noci. Sui rami più bassi il conte Tiso aveva approntato un tavolaccio dove Antonio poteva ritirarsi a pregare e riposare, di giorno, al riparo del fresco fogliame. Il fido collaboratore, Fra Luca Belludi, e l'amico ospite lo aiutavano a salirci di mattina e lo andavano a prendere quando la campagna chiamava per gli obblighi comunitari, per poi riportarvelo appena adempiuti; soltanto all'imbrunire lo riaccompagnavano dentro casa, dove passava la notte. Questo andirivieni tra casa e noce durerà due settimane, le ultime.

La voce correva veloce anche a quei tempi, e fu un grande accorrere di popolo ai piedi del noce. Di lassù, Antonio continuò a predicare, ad esortare, a benedire: l'olio della sua lampada poteva ardere fino all'ultima goccia. E i bambini d'intorno lo rallegravano coi loro canti.

Per essi, Antonio nutrì sempre una spiccata predilezione. Era felice quando vi si trovava in mezzo e per molti di loro chiese ed ottenne miracolose guarigioni.
Ecco, fra i tanti, due episodi. Una sera, mentre rientrava in convento, gli si fece incontro una mamma che reggeva tra le braccia un piccino deforme. "Padre - gli chiese la donna - tocca il mio bambino: solo tu puoi ridonargli la salute". Gli rispose Antonio: "Buona donna, pregate con fede il Signore. I miracoli li fa solo lui". Anche frate Luca, lì vicino, intercedette per quella poveretta: "Padre, esaudiscila! Il Signore ti ascolta sempre quando gli chiedi una grazia!". Il Santo, lasciatosi convincere, prese in braccio quella creaturina deforme e dopo aver pregato, gliela rese risanata.

I miracoli si moltiplicavano al suo passaggio; ovunque gli portavano bimbi malati da guarire. Ecco buttarsi ai suoi piedi un'altra di quelle madri sventurate: "Vieni a salvare mio figlio che sta morendo, solo tu puoi ottenerne la guarigione". Anche a lei Antonio rispose: "Prega con fede il Signore, è lui il padrone della vita e della morte". E la donna, di rimando: "Lo so, ma se tu intercedi per lui, si salverà. È il mio unico figlio; l'ho atteso per tanti anni e ora non voglio vederlo morire!". Gli rispose il Santo: "Và in pace, pregherò con te: Dio ascolta sempre le preghiere di una mamma!". Tornata a casa trovò il figlio che giocava, completamente guarito.

Tanta predilezione per i bambini è legata ad un episodio soprannaturale cui si è ispirata l'iconografia antoniana, che ci presenta il Santo mentre stringe fra le braccia Gesù Bambino. L'episodio risale alle due settimane trascorse presso il conte Tiso. Una di quelle sere, ridisceso dal noce e coricatosi sul pagliericcio dentro casa, non riusciva a prendere sonno. Quando d'ecco un gran fulgore illuminò a giorno la stanzetta. Il conte Tiso, pensando ad un incendio, s'affacciò sull'uscio e rimase senza fiato: in braccio ad Antonio c'era Gesù Bambino.

Lungo la strada per Arcella

La permanenza nel romitorio durò fino al mezzogiorno di venerdì 13 giugno 1231. A quell'ora, ridisceso il noce per il frugale pasto comunitario, Antonio si sentì mancare. Ai fratelli che lo soccorrevano chiese d'essere trasportato a Padova: là desiderava morire. Nel Sermone primo dopo Pentecoste aveva scritto: "Fa', o Signore che possiamo morire nel piccolo nido della nostra povertà".

La morte non lo spaventava, aveva avuto tempo per prepararvisi:

« La vita umana è simile a un ponte, e il ponte è fatto per il transito, non per la residenza (..) Il giusto è sempre pronto a restituire l'anima al suo Creatore, in qualunque ora gliela domandi. Chi è vissuto ed ha lavorato lungamente con la pace di Dio nel cuore, certamente muore nella pace di Dio... Come il bambino corre piangendo nelle braccia della madre, e la madre lo accarezza e gli asciuga le lacrime, così i santi si affrettano dal pianto di questa terra nelle braccia della gloria, dove Dio asciugherà tutte le lacrime da tutti i visi. »

Adagiato su un carro agricolo trainato da buoi e amorevolmente accudito dai frati Luca e Ruggero, Antonio iniziò il suo viatico verso Santa Maria Mater Domini. Una ventina di chilometri separavano Camposampiero da Padova, ci sarebbe voluto l'intero pomeriggio, sotto il sole a picco e tra scossoni violenti sul lastricato della vecchia strada romana (oggi si chiama via "del Santo"). Giunti, sul far della sera, in vista delle mura turrite della città, la comitiva incontrò frate Vinotto che risaliva verso Camposampiero per far visita al Santo. Viste le condizioni del confratello, ormai moribondo, il frate consigliò di fermarsi all'Arcella, nell'ospizio accanto al monastero delle clarisse. Lì, fuoriporta, sarebbe stato al sicuro - soggiunse frate Vinotto - dalle "sante intemperanze" della folla quando si forse sparsa la notizia della morte.

O gloriosa Domina, excelsa super sidera..., "O Regina gloriosa, elevata sopra le stelle", al canto del suo inno prediletto alla Vergine, Antonio venne adagiato sulla nuda terra dove gli fu amministrata l'unzione degli infermi. E mentre la recita dei sette salmi penitenziali volgeva al termine, si unì ai confratelli mormorando: Video Dominum meum..., cioè "ecco, vedo il mio Signore", poi chiuse gli occhi e spirò. Aveva 36 anni.

La tomba gloriosa

La notizia della morte d'Antonio si diffuse rapidamente e quel che temeva padre Vinotto s'avverò. Gli abitanti di Capodiponte, nella cui giurisdizione si trovava Arcella, arrivarono per primi: "Qui è morto e qui resta"; spalleggiati dalle clarisse: "Non lo abbiamo potuto vedere da vivo, che ci resti almeno da morto".

L'indomani giunsero all'Arcella i frati di Santa Maria Mater Domini per traslare la salma, ma furono affrontati, armi in pugno, dai giovanotti di Capodiponte.

Risultata vana ogni pacata trattativa, i frati rientrarono a Padova dove si rivolsero al Vescovo, affinché provvedesse lui a sbrogliare la matassa. Messo al corrente dell'accaduto e saputo che era volontà precisa d'Antonio di morire in città, nel suo convento, diede loro ragione e incaricò il Podestà di sedare gli animi, anche con la forza, qualora fosse necessario.

La sera del sabato rientrò a Padova Fra Alberto, successore d'Antonio nella carica di provinciale; pure lui fu dell'avviso che la salma andasse sepolta in Santa Maria Mater Domini.

Le giornate di domenica e lunedì trascorsero in concitate trattative, ma alla fine, prevalso il buon senso, gli animi si riconciliarono.

Martedì 17 giugno, all'Arcella, c'era tutta Padova: più che un funerale, fu una processione; un trionfo di fede e di popolo. Arrivati in città, il Vescovo celebrò solenni esequie e, benedetta la salma, la tumulò in un'urna di marmo, regalo dei Canonici della Cattedrale ai francescani di Santa Maria Mater Domini.

A Coimbra era morto Fernando e rinato Antonio. Quel giorno a Padova entrava nel sepolcro un frate, ne sarebbe uscito il Santo.

Il Santo delle grazie

Fin dal giorno dei funerali l'arca di marmo divenne meta d'incessanti pellegrinaggi. Per giorni e giorni colonne interminabili di uomini, donne e bambini sfilarono dentro l'angusta chiesetta del convento di Santa Maria Mater Domini.

Né l'afa né la calura dell'estate incipiente distoglievano i devoti dal toccar con mano supplice la bordura del sarcofago. Mille richieste in quel gesto: tutti avevano qualcosa da chiedere, per sé, per un parente, per un amico.

Siccome la folla ogni giorno aumentava, le autorità decisero di disciplinare il flusso e tutta Padova - si legge nell'Assidua - "nei giorni prefissati veniva in processione a piedi nudi", anche di notte. Ed ecco un nuovo problema: il tetto della chiesa conventuale, basso e di legno, era un pericolo incombente con quel via vai di torce accese. Di qui l'ordine d'ammucchiare ceri e candele sulla piazza antistante. "Godeva la città di grande splendore e, rischiarata da molteplici luminarie, le pareva di aver perduto ogni notturna oscurità: molti, infatti, disponendo fiaccole fiammeggianti sui mmuri, passavano in veglia le notti nelle piazze". Chi usciva dalla chiesetta raccontava le "meraviglie che accedevano per i meriti del beato Antonio", così veniva alimentata la speranza di chi ancora doveva entrarvi.

Ascoltando quei racconti era come ripassare le pagine del Vangelo: "E quelli che, per il gran numero degli infermi sopraggiungenti, non potevano restare dinanzi all'arca adagiati fuori dell'ingresso della chiesa, guarivano nella piazza, sotto lo sguardo di tutti: si aprirono gli occhi ai ciechi, si schiusero le orecchie ai sordi, gli zoppi saltavano come cervi, le lingue dei muti si scioglievano nelle lodi del Signore...".

Prosegue l'Assidua: "Lo proclama l'assemblea del clero, lo grida il popolo: tutti, a un sol voce e con volere unanime, insistono concordi che si mandino dei delegati alla sede apostolica perché perorino la canonizzazione del beato Antonio".

Non era passato ancora un mese dalla morte, che Antonio era già diventato santo "a furor di popolo". E quando, al clero e alla gente, s'unirono il Vescovo e il Podestà, poté finalmente partire per Roma una qualificata delegazione col compito di sottoporre al Papa i fenomeni straordinari che giornalmente accadevano sulla tomba del loro illustre concittadino.

Papa Gregorio IX, che della santità di Antonio ebbe prova quando l'aveva ascoltato predicare presso di lui, accolse gli ambasciatori padovani con gentilezza e, per accelerare l'iter canonico, nominò seduta stante una commissione di periti, presieduta dal Vescovo di Padova, perché vagliasse le testimonianze e raccogliesse le prove documentarie.

Raggiunta Padova, l'Assidua dice che la commissione fu sommersa "da una gran folla, accorsa per deporre con le prove della verità, di essere stata liberata da svariate sciagure grazie ai meriti gloriosi del beato Antonio". Il Vescovo ascoltò attentamente "le deposizioni confermate con giuramento" e mise per iscritto i miracoli approvati, poi promosse indagini scrupolose sulle condizioni delle persone e dei fatti, prendendo nota del tempo e del luogo, di ciò che fu udito e veduto.

Completato l'esame diocesano dei miracoli, Padova inviò al Papa una seconda delegazione. A Roma l'istruttoria fu assegnata al Cardinale Giovanni d'Abbeville, che in pochi mesi esaurì il compito assegnatogli.

Vincendo la ritrosia di alcuni prelati, timorosi di quel procedere "troppo precipitoso in una causa tanto rilevante", Gregorio IX dichiarò chiuso il processo, fissando al 30 maggio, festa di Pentecoste, la cerimonia ufficiale di canonizzazione.

Con gesto di squisita gentilezza il Papa inviò una Bolla "ai nostri cari figli, il podestà e il popolo di Padova", per dare il lieto annuncio. E riferendosi a Sant'Antonio disse che ben "si era meritato di essere collocato non sotto il moggio, ma sul candelabro immortale della Chiesa cattolica".

La grande festa si svolse nella Cattedrale di Spoleto. Circondato da Cardinali e Vescovi, Gregorio IX ascoltò commosso la lettura dei cinquantatré miracoli approvati e, dopo il canto del Te Deum, proclamò solennemente e ufficialmente Santo frate Antonio, fissandone la festa liturgica nel giorno anniversario della morte, il 13 giugno.

Alla delegazione padovana restavano meno di due settimane per tornare a casa e organizzarvi i festeggiamenti. Scrive l'Assidua: "I rappresentanti della città di Padova affrettandosi con rapido passo, furono di ritorno, accolti con entusiasmo, prima che si compisse l'anno della morte del Beato Antonio, la cui festa fu celebrata con indescrivibile solennità nel giorno stesso in cui si compiva l'anno del suo trapasso".

L'enorme afflusso di pellegrini che confluiva a Padova sulla tomba del Santo convinse i frati e i maggiorenti della città che il grande Taumaturgo ben meritasse una chiesa più capiente.

Si dettero tutti un gran da fare, e già in quell'anno vennero gettate le fondamenta. Otto anni dopo, nel 1240, veniva descritta come un "monumento mirabile", ma i fedeli dovranno attendere l'8 aprile 1263 per vedervi riposto il corpo del Santo. Era in quell'anno Ministro Generale dei francescani Fra Bonaventura da Bagnoregio, al quale toccò l'onore di trasportare dall'attiguo convento di Santa Maria Mater Domini in Basilica il corpo del Santo. La traslazione venne seguita da una folla immensa, e tutti furono ripieni di stupore quando Fra Bonaventura, nell'effettuare la ricognizione dei resti mortali, rinvenne intatta, di un colore come se fosse ancora viva, la lingua del Santo. Indicandola ai fedeli, esclamò commosso: "O lingua benedetta! Che sempre hai lodato il Signore, e lo hai fatto conoscere e amare agli altri, ora ci appare chiaro quanti meriti hai acquisito presso Dio".

Quel ritrovamento prodigioso viene tutt'oggi annualmente ricordato, a Padova, dai frati del Santo.

Note
  1. Sant'Antonio da Padova? No, da Forlì: uno dei santi più famosi al mondo partì da qui a predicare 800 anni fa. In effetti, la devozione popolare verso Antonio, nel forlivese, è rimasta forte fino ai tempi odierni, come dimostrra il fatto che vi è sempre stato diffuso il nome Antonio o anche la sua versione femminile Antonia.
Bibliografia
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  • Rosa Giorgi, Santi, col. "Dizionari dell'Arte", Mondadori Electa Editore, Milano 2002, pp. 42 - 44 ISBN 9788843596744
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